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La vita di uno studente-rider di food delivery a Bologna

Bologna è stata a suo modo l'avanguardia del food delivery. Ma com'è oggi la vita di un rider Deliveroo e Sgnam in città?
Foto di Denis Bocquet via Flickr (CC BY 2.0).

Sono passate meno di tre settimane da quando il Tribunale del lavoro di Torino ha respinto il ricorso dei rider di Foodora, ma Bologna è da mesi una delle città in cui la situazione dei ciclofattorini nel campo del food delivery è maggiormente sentita. È qui che i rider hanno scioperato sotto la neve a febbraio, ed è sempre qui che qualche mese prima, a ottobre 2017, è nata la Riders Union, una sorta di sindacato informale adoperatosi nel dare voce e supporto ai lavoratori.

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Ma la storia di Bologna e i rider va oltre, e nel caso di questo articolo parte da Ritmolento—un circolo Arci a due passi da Riva di Reno, e uno dei luoghi che ha contribuito alla nascita del sindacato. Sono qui per incontrare Nicola, che si è laureato in antropologia e ha scritto una tesi legata al proprio percorso lavorativo, " Mai più consegne senza diritti, processi di autorganizzazione tra rider bolognesi."

Con lui, discutiamo di come da un certo punto di vista la città abbia rappresentato l’avanguardia del food delivery. È da qui che nel 2009 è partito PizzaBo: fondato da un neolaureato in Informatica originario di Matera, in breve il servizio di consegne diventa una vera e propria fede tra gli studenti, un rito tra quelli che tornano a casa dopo un’intera giornata passata in aula studio o di chi invita gli amici a far festa senza voler cucinare. Il momento in cui l’azienda viene venduta, passando prima a Rocket Internet e infine a JustEat, è lo stesso in cui si presentano sul mercato figure nuove, alcune multinazionali—come Deliveroo o Foodora—e altre locali, come Sgnam.

Nel giro di qualche anno Bologna si riempie letteralmente di rider, per lo più studenti fuorisede—una composizione che, notiamo con Nicola, li distingue dalla media di categoria in Italia, e che rende il caso di Bologna ancora più peculiare. Dalle parti di Ritmolento, però, la questione del food delivery è vissuta anche e soprattutto all’interno di un concetto di ricostruzione cittadina, di una Bologna nuova, fisica e mentale. Una storia di sgomberi e di destrutturazione dell’immaginario delle periferie in cui i rider, aggiunge Nicola, non possono essere ignorati dalla politica locale.

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Qualcuno dirà che questa è una storia già vecchia, che i fattorini del cibo sono sempre esistiti e i problemi collegati alla loro professione anche. Ma oggi è una questione diversa, dove le istanze economiche e le precarietà della gig economy si percepiscono (anche) nel come le aziende hanno modellato la figura del fattorino della nuova era.

Per provare a capire di più, dopo aver salutato Nicola incontro R.*, uno studente bolognese che da circa un anno sta collaborando per alcune aziende come Deliveroo e Sgnam. Ci vediamo per bere una cosa a La Linea, un bar in pieno centro a due passi da Piazza Maggiore, punto di attivazione di molti rider. Gli domando subito se gli piaccia il suo lavoro. “Certo,” mi risponde, “il postino che fa di così diverso? È il modo in cui viene gestito che non ti permette di essere soddisfatto."

Come molti altri, R. fa il rider per avere qualche soldo in più a fine mese. A maggio dell'anno scorso faceva 40 ore a settimana, riducendo nei periodi di lezione. E proprio dagli incastri richiesti a ogni universitario emerge il primo problema dello studente-rider: “È difficile far combaciare tutto," mi dice. "Se hai lezioni spezzettate nell’arco della giornata, che fai, ti porti il borsone del lavoro a casa o in giro per le aule?”

Chi ha studiato a Bologna sa bene che spesso ci si deve spostare tra una lezione e l’altra anche di qualche centinaio di metri, per seguire corsi in aule affollate, e un punto di appoggio in cui poter lasciare il borsone, bici o casco sembra la soluzione ideale e più pratica. Che però manca. “Un punto di appoggio? Magari," commenta R. "Ritmolento fino a ora è servito anche a questo. Perché nessuna delle aziende ce lo offre."

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Se in settimana ci sono le lezioni, è poi il sabato e la domenica che si lavora di più, anche se la retribuzione non cambia. "Non c'è un extra domenicale. In estate lavoro in autogrill, e il contratto nazionale del turismo mi permette di essere pagato di più la domenica. Qui un giorno vale l’altro. Non ti sembra strano?”

Chiedo a R. di parlarmi del sistema di turnazione e della disponibilità garantita da ognuno, pensando per esempio ai periodi di esame che potrebbero costringere uno studente-rider a rallentare i ritmi. “Se uno ha delle esigenze non lavora," mi spiega R. "C’è un rischio, però. Se dai molta disponibilità per un certo periodo allora vieni considerato uno che tiene quello standard di orari. Stessa questione se lavori per poco, è difficile cambiare il ritmo. Se devi studiare per un paio di settimane, o anche di più, per un esame… è dura. Ci sono i ranking."

Per quanto riguarda Sgnam, puntualizza R., “al colloquio ci è stato detto in maniera esplicita che viene tenuto conto maggiormente di chi lavora nei periodi settimanali con più richiesta. Che c'è un termine massimo per rinunciare al turno, ossia 48 ore di distanza dallo stesso. Scaduto questo termine ti viene messo una sorta di segno meno sul registro. Io sono due settimane che non lavoro nel fine settimana per via dell’altro lavoro. E sono due settimane che arrivo a dieci ore scarse.”

Bologna. Foto di Olatz eta Leire via Flickr.

Il servizio di prenotazioni di Deliveroo, invece, mi viene descritto da R. come “un sistema di turnazione a discrezione del singolo nel quale ci sono slot da sbloccare. Il problema è che la discrezione del singolo è limitata dall’accesso prioritario: ci sono tre fasce orarie in cui prendere i turni per la settimana successiva. Può capitare che uno si prenoti una fascia oraria e la settimana dopo l’abbandoni mezz’ora prima di cominciare.”

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In pratica, il più veloce nello sport di dito su smartphone si aggiudicherebbe il turno lavorativo disponibile. La cosa sarebbe diversa per chi ha il massimo dei punteggi nel ranking—un termine, questo, che ricorre in tante testimonianze di rider e che è ancora oggetto di dibattito—e si può permettere di scegliere i turni lavorativi dalle 11 di mattina rispetto a chi deve sceglierli dalle 17: “Ne deriva che esistono rider che hanno più possibilità di altri nel gestirsi il lavoro e giocare a smollare il turno quando ci sono altri impegni, o più semplicemente la giornata è quella giusta per andare al parco.”

Come fanno questi soggetti a “bloccare la classifica” e a non perdere la priorità di entrata? A quanto mi dice R., “gli basta fare le due ore critiche del weekend, quelle tra le 20 e le 22 e aggiudicarsi, così, il massimo dei punti, il 12/12,” alla Giochi senza Frontiere. R. si è trovato nella fascia oraria delle 17 nonostante un anno di anzianità. La ragione ufficiale è che col passaggio di piattaforma sono state azzerate le ore lavorative—ma secondo alcuni, spiega R., nella stessa, bassa, classifica si ritroverebbero anche molti di quelli che in questi mesi hanno partecipato alle mobilitazioni.

Alle difficoltà del sistema si aggiungono poi le specificità di Bologna: “Ci sono problematiche di mobilità urbana che il comune dovrebbe gestire," mi dice R., che mi fa l’esempio della situazione in via Riva di Reno, via Murri o viale Masini, dove le piste sono pezzi di marciapiede e frazioni della strada principale.

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Non stiamo parlando di viali poco trafficati, ma di pezzi grossi del traffico urbano. Sono uno che si sposta in bici, sempre, di quelli che si fanno su due ruote anche il pezzo di strada che porta alla farmacia sotto casa, quindi in parte condivido le problematiche sottolineate da R. Che mi parla di un incontro fatto in sedi appropriate e a suo modo di vedere deludente. “L’assessore alla Mobilità in un incontro ufficiale, nei pochi minuti dedicati, ha detto di avere troppe richieste da varie entità cittadine, tutte da dover soddisfare. E poi ci ha detto di aver battuto n-mila piste ciclabili. Dove sono?”

Parlando con R. mi rendo conto che quello che conta, per lui, è chiarire una volta per tutte che il concetto di lavoro indipendente, se le ore superano le venti settimanali, sfuma, rimane ingabbiato nel sistema di gestione dei turni. Alla luce del caso recente di Foodora, gli chiedo se lui si senta effettivamente un lavoratore autonomo.

“Non mi sento un lavoratore autonomo," mi dice, "semplicemente perché c'è una discrepanza tra organizzazione del lavoro e autonomia del lavoratore. Se assumiamo il fatto che un libero professionista non ha organizzazioni orarie e si gestisce il lavoro come preferisce, capirai come mai io vedo eterodirezione. Io do delle disponibilità, ma il calendario è da compilare, non da formare da zero o da auto-organizzare. Mettici pure che le disponibilità me le accordano loro.”

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Secondo R. basterebbe poco per risollevare un po' la questione; ad esempio, essere aiutati con del materiale tecnico. Per le ore notturne l’acquisto delle luci è cosa loro, così come sono fatti loro, spiega, se si rompe qualcosa durante il turno di lavoro. "Fino a quando Presa diretta non l’ha fatto notare, noi manco dei caschi per stare sicuri c’avevamo,” aggiunge, riferendosi alla puntata del 17 febbraio in cui l'inchiesta di Lisa Iotti denunciava la non conformità alle normative UE dei caschi di Deliveroo [dopo la puntata, riporta sempre Presa diretta, Deliveroo Italia avrebbe invitato i rider a "riconsegnare i caschi difettosi e a ritirare i nuovi"].

“Il Ministro del Lavoro si è adoperato a dire che i braccialetti non verranno mai utilizzati, ok, però se ti rintracciano col gps va bene,” dice R. alludendo alla possibilità dell’app di monitorare gli spostamenti del rider.

“Per pagarti qualche sfizio," commenta R. verso la fine della nostra conversazione, "questo lavoro è ok. Le cose escono fuori quando vuoi che diventi un mestiere." E se ci fosse la possibilità di dividere la figura lavorativa in due, gli chiedo? Autonomi da una parte, con un monte orario minimo (diciamo meno di 20 ore settimanali), e un gruppo di dipendenti dall’altra, quelli che le 20 ore le superano.

“È quello che Riders Union si era proposto di fare. L'apertura di un tavolo col comune nasce principalmente per essere riconosciuti come lavoratori subordinati, regolamentare un florido mercato in cui c'è parecchia manodopera. Tutto ciò che c'è quindi all'interno della carta—paga 'dignitosa' garantita, gestione trasparente dei propri dati e quindi anche il discorso sul gps, tutela assicurativa, miglioramento delle condizioni di lavoro all'interno del contesto urbano dell'area bolognese—sono dei passi in avanti globali. Ma tutto verte sul riconoscimento dei lavoratori come dipendenti, non come collaboratori." E su questo punto, aggiunge R. prima di andarsene, "il problema è che il comune non può aiutarci.”

Come diceva Nicola, quella dei rider è una battaglia per tutta la generazione che ha cominciato a lavorare durante la gig economy. Si può organizzare il lavoro precario, basta smetterla di pensare al futuro lontano e guardare ai problemi del presente.

Intanto R. ed io ci salutiamo, il suo turno è cominciato. Intorno a me conto almeno altri cinque rider, un paio seduti sulle scalette della Sala Borsa, altri che scheggiano per via Rizzoli. Il sole sta tramontando. La città ha fame.

*Il nome è stato cambiato su richiesta dell'intervistato.