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Foto Getty Images/Westend61
Cibo

Biologico e Km 0 non bastano più alle aziende che se ne fregano dei lavoratori

Dal greenwashing di piccole e grandi brand ai casi degli ultimi mesi, quando aziende che puntavano sui bio e green hanno dimostrato di non tenere allo stesso modo ai diritti dei lavoratori.

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Quello di Jay Westervelt è un nome che ai più non dirà nulla. Eppure lui qualcosa di importante l'ha fatto: se ci rivolgessimo a un ambientalista attivo tra fine anni Ottanta e inizio Novanta potremmo anche vedere qualche lampadina accendersi, segnale di un «questo l'ho già sentito». In effetti se Westervelt ha lasciato una traccia – guadagnandosi oltretutto una pagina su Wikipedia, certificazione della notorietà nel terzo millennio –, l'ha fatto coniando proprio in quel periodo storico un termine poi diventato di uso comune, e trasformatosi in potente strumento di denuncia politica. Il termine è greenwash, da cui il più noto greenwashing.

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Il greenwashing, a volerlo definire con precisione, è la pratica che vede impegnate molte aziende, piccole, medie, enormi (leggi: multinazionali) nel vendersi come molto più green di quanto in realtà possano mai essere.

Nacque nel 1986 e aprì una voragine, in cui si sarebbero tuffate intere generazioni di contestatori, da Greenpeace ai No Global, dai più svariati movimenti anticapitalisti fino alle ragazze e ai ragazzi di Fridays for Future. L'immagine era ed è potente, quella di una compagnia che si ripulisce la faccia dandosi una pennellata di verde. Il greenwashing, a volerlo definire con precisione, è la pratica che vede impegnate molte aziende, piccole, medie, enormi (leggi: multinazionali) nel vendersi come molto più green di quanto in realtà possano mai essere, usando le leve del marketing e della comunicazione per dire qualcosa che non trova pieno riscontro nei fatti.

In tutto ciò il cibo gioca un ruolo da protagonista. Se è pur vero che il sospetto di greewashing è stato sguinzagliato addosso a imprese di ogni tipo, dalle compagnie del settore dell'energia all'industria della moda, è innegabile che proprio il mondo gastronomico, da McDonald's scendendo giù fino al più piccolo produttore di formaggi di capra a latte crudo, sia finito molto spesso nel centro del mirino. Il motivo è semplice: la produzione di cibo ha un impatto ambientale rilevante, e in un'epoca come quella attuale, in cui la sostenibilità è diventata un vero e proprio mantra, una sorta di alfabeto condiviso che ormai tutti devono saper maneggiare, ci vuole poco a giocarsi male le proprie carte, e non a caso in questi ultimi tempi la gara a chi riesce ad apparire più verde ha fatto vittime illustri.

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Tuttavia oggi, nell'anno di (dis)grazia 2020, dobbiamo rilevare come greenwashing sia al tempo stesso un termine molto attuale e un concetto in parte superato: mentre gli scaffali dei supermercati strabordano di confezioni che strillano di biologico, packaging sostenibile e filiera corta, mentre tutti ci rendiamo conto che dietro il continuo bombardamento comunicativo c'è qualcosa di vero e probabilmente anche tanta fuffa, di fatto la contraddizione più stridente, quella che accende maggiormente gli animi dei censori, non è più quella tra green sincero e green di facciata, ma tra cibo pulito e giusto e cibo pulito ma “ingiusto”.

Lo dimostrano i recenti casi di Straberry, Valentina Passalacqua e AgriLatina, pur nelle enormi diversità che li caratterizzano: stiamo parlando di aziende biologiche e biodinamiche di una certa importanza e fama nei rispettivi settori (piccoli frutti, vino e ortaggi), che sono finite sotto i riflettori a causa di vicende di sfruttamento lavorativo e caporalato.

A uno sfoggio di virtuosismo ambientale pare che non si accompagnasse un approccio altrettanto virtuoso nei confronti dei lavoratori, visto che a fine agosto l'azienda è diventata oggetto di un'inchiesta su sfruttamento del lavoro e minacce ai danni di un centinaio di braccianti.

Straberry è un'azienda dell'hinterland milanese molto attenta a promuovere il proprio approccio sostenibile e biologico alla coltivazione: atterrando sul suo sito si possono trovare in bella mostra frasi come «Operiamo nell’assoluto rispetto dell’ambiente, utilizzando l’energia solare dei pannelli fotovoltaici posti sopra le serre», o «Nel 2013 e 2014, StraBerry è stata premiata da Coldiretti con il riconoscimento Oscar Green, come azienda agricola innovativa e attenta alla sostenibilità ambientale», o ancora «Nel 2015 abbiamo ottenuto il riconoscimento produttore di qualità ambientale del Parco Agricolo Sud Milano, per l'impegno a favore dell'ambiente, del territorio e del paesaggio».
Senonché a questo sfoggio di virtuosismo ambientale pare che non si accompagnasse un approccio altrettanto virtuoso nei confronti dei lavoratori, visto che a fine agosto l'azienda è diventata oggetto di un'inchiesta su sfruttamento del lavoro e minacce ai danni di un centinaio di braccianti, perlopiù di origine straniera, ed è stata posta sotto sequestro.

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Molto diverso il caso di Valentina Passalaqua, vignaiola pugliese proprietaria e conduttrice della più grande realtà vitivinicola italiana di stampo naturale. La sua azienda orgogliosamente biodinamica, che sul web si presenta con espressioni filosofico-spirituali come «È la gioia di vivere in armonia con la natura e di assaporare i più piccoli dettagli della vita quotidiana. È una gioia esprimere profonda gratitudine per la Madre Terra e i suoi numerosi doni amorevoli», non è stata direttamente coinvolta nell'inchiesta che ha portato agli arresti domiciliari del padre Settimio, accusato di caporalato per le altre attività agricole di famiglia. Ma come ha efficacemente dimostrato la stampa estera, con il Morning Claret in prima fila, Valentina detiene una quota dell'azienda finita nel mirino degli investigatori (Tenute Passalacqua s.r.l.), di cui papà Settimio è amministratore unico, e la sua sbandierata estraneità alla vicenda ci vorrebbe raccontare la storia di una mano destra che non sa cosa fa la sinistra.

È sbarcato sul mercato un nuovo versante su cui i brand del cibo (e non) giocano e giocheranno a ripulirsi. Basta dare un'occhiata al settore del pomodoro in cui sempre più di frequente ai richiami alla sostenibilità ecologica si aggiungono quelli alla filiera 100% italiana e alla giustizia sociale

E infine c'è il caso di AgriLatina, una delle più grandi realtà ortofrutticole biodinamiche d'Italia, dove a fine agosto un incidente sul lavoro occorso a un bracciante indiano ha dato il la alla denuncia de Il Manifesto, che ha raccolto le dichiarazioni del fratello secondo cui «È stato soccorso dai capi italiani che lo dovevano portare in ospedale e invece lo hanno abbandonato come un animale morto in un campo di patate a circa sette chilometri dal luogo dell’incidente». Va precisato che l'azienda negli ultimi giorni ha smentito categoricamente tale ricostruzione, invitando il quotidiano a una rettifica, e la mobilitazione dei braccianti indiani è rientrata dopo aver ottenuto garanzie di maggiore sicurezza e di indagine sull'accaduto.

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Quello che emerge da questi casi, al di là delle reali responsabilità da accertare, è come un pezzo alla volta sia mutato l'orizzonte culturale che circonda il mondo del cibo: dopo l'ubriacatura ecologista, oggi diventata quasi conditio sine qua non, è come se fossimo passati di livello. Lo abbiamo visto nella ristorazione, che qui da noi più timidamente, altrove meno, ha iniziato a interrogarsi sui diritti dei lavoratori, sulle discriminazioni razziali e di genere, sui salari, il lavoro in nero e gli ambienti machisti. Lo abbiamo visto nelle campagne italiane, dove pur in un quadro di sostanziale inadeguatezza della politica, è stata sollevata l'attenzione sui fenomeni del caporalato e dello sfruttamento dei braccianti stagionali, tra raccolta di pomodori, frutta, arance, ortaggi. Lo abbiamo visto nei media gastronomici, con gli Stati Uniti in prima fila, dove sull'onda di Black Lives Matter è stato dato maggiore spazio a editor, scrittori e giornalisti appartenenti alle minoranze sulle principali testate del settore.

Dietro la facciata della virtuosità ecologica si può infatti nascondere una mancanza di virtuosità sociale sempre meno accettabile per l'opinione pubblica

Insomma, è sbarcato sul mercato un nuovo versante su cui i brand del cibo (e non) giocano e giocheranno a ripulirsi. Basta dare un'occhiata al settore del pomodoro e della sua lavorazione, quello più colpito dalle accuse di basarsi sullo sfruttamento dei lavoratori nelle campagne pugliesi e del sud Italia in generale, anche grazie a una serie di inchieste giornalistiche e televisive. Un mercato dominato dai marchi Mutti, Doria e Petti, e in cui sempre più di frequente ai richiami alla sostenibilità ecologica si aggiungono quelli alla filiera 100% italiana (laddove così è) e alla giustizia sociale, con il rispetto delle condizioni di lavoro dei braccianti e l'equa retribuzione degli agricoltori.

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Basta gettare uno sguardo sulla ristorazione di alta fascia, dove seppure con qualche incertezza di troppo siamo passati dall'accettazione dell'etica machista scoperchiata a suo tempo da Anthony Bourdain con Kitchen Confidential, del cuoco tutto urla e padelle che volano alla Gordon Ramsay, alla denuncia dei luoghi di lavoro tossici, dello sfruttamento di stagisti e lavoratori in nero, degli orari di lavoro massacranti. Basta infine tornare negli Stati Uniti, dove ancora sull'onda di Black Lives Matter sono stati numerosi i grandi marchi del cibo ad affrettarsi a dichiarare la propria vicinanza ai dimostranti e a introdurre politiche strutturali e salariali più inclusive nei confronti delle minoranze.

In tutto questo il greenwashing non è scomparso, anzi, ma forse non basta più come criterio per distinguere le imprese davvero virtuose da quelle che lo sono solo in apparenza. Come ci hanno insegnato i casi di Straberry in particolare, ma su certi aspetti anche quelli di Valentina Passalacqua e AgriLatina, oggi non è più sufficiente essere genuinamente green.

Dietro la facciata della virtuosità ecologica si può infatti nascondere una mancanza di virtuosità sociale sempre meno accettabile per l'opinione pubblica, al punto che oltre alla filiera del pomodoro anche il colosso multinazionale per eccellenza, Amazon, qui in Italia si sta dilettando con una campagna pubblicitaria intesa a darsi una pennellata di rispettabilità sul versante delle condizioni di lavoro e del trattamento riservato ai dipendenti. I Millennials e le ragazze e i ragazzi della generazione Z ci stanno dicendo: «vuoi vantarti di quanto sei virtuoso? Devi esserlo fino in fondo». D'altronde numerose indagini commissionate negli ultimi anni hanno evidenziato come il consumo etico sia sempre più importante per queste generazioni. Per il mondo del cibo ciò significa l'apertura di un nuovo fronte: se la sensibilità ambientale è una conquista tutto sommato raggiunta (attenti al greenwashing, però), l'attenzione ai temi sociali è in piena esplosione, e c'è da scommettere che caratterizzerà sempre di più il futuro prossimo.

Anche su questo versante ci saranno sempre più tentazioni a “ripulirsi”, come il caso Amazon insegna. E considerato che proprio su questi temi l'universo gastronomico è tra i più esposti, come ci insegnano i braccianti stagionali nei campi italiani, lo sfruttamento nelle cucine dei ristoranti e il fenomeno del food delivery, potrebbe anche essere quello su cui sarà doveroso tenere più alta l'asticella dell'attenzione.

Arrivati a questo punto non ci resta che trovare un nome all'equivalente sociale del greenwashing e darlo in pasto ai nuovi consumatori. C'è da dire che nel mondo anglosassone non c'è ancora unanimità su quale sia il termine migliore per definirlo, e si parla con sfumature diverse di red o bluewashing. Ma se consideriamo il colore dei pomodori, e i riferimenti cromatici dell'area politica più vicina alle rivendicazioni di giustizia sociale, sono sicuro che Westervelt sceglierebbe redwashing. E farebbe di nuovo centro.

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