Reis cucina montagna cuneo
Tutte le foto di Lorenzo Romani ove non specificato.
Cibo

In questo ristorante di montagna ho capito davvero cosa vuol dire cucinare sostenibile

Da Reis, in mezzo alle montagne del cuneese, lo chef Juri Chiotti cucina solo in base a quello che coltiva e alleva. E pensa sia una piccola rivoluzione nell'alta cucina.

“Avere la stella ti fa capire di aver raggiunto un livello per cui puoi decidere cosa fare, ma io non riconosco più quel mondo. Io ho scelto una nuova filosofia di ristorazione e la mia missione è condividerla”

Dall’annuncio della chiusura del Noma di Copenaghen si è molto parlato della crisi dei ristoranti stellati, o di un cambio per la cucina fine dining come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi.
Si è parlato di rimettere in discussione un sistema —un concetto ancora abbastanza labile— e io, nel mio piccolo, penso di aver trovato una buona rivoluzione da Reis-Cibo Libero di Montagna a Chiot Martin, nel cuneese.

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Qui lo chef Juri Chiotti ha deciso di cambiare vita e proporre la sua idea di cucina, di mettere in discussione anche lui l’alta cucina così come è sempre stata conosciuta, dopo esperienze in ristoranti come “Cracco”, “Rosa Alpina”e dopo aver preso una stella Michelin a Cuneo, “Dalle Antiche Contrade”.

Il suo nuovo Reis è un micro-mondo a 1000 metri d’altitudine, nascosto in un angolo della Valle Varaita, in Piemonte, in cui la strada si inerpica, il navigatore si perde e il panorama si apre sulle Alpi, con il Monviso in faccia che ammicca come ad approvare la scelta del ripopolamento di questi luoghi. In cucina si sta preparando il nuovo menu, ma lo chef Juri Chiotti ci accoglie con gli stivali di gomma e la tenuta da lavoro, ovvero da contadino. Davanti a me non ho lo chef stellato di cui parlano tutti gli articoli che ho letto su di lui: “Sono stufo della narrazione dello chef stellato,” mi dice.

“Le ho avute [le stelle Michelin] per due anni e ti restano addosso per tutta la vita. Certo, è un bel traguardo che sono riuscito ad ottenere, ma ora sono più uno chef stallato. Avere la stella ti fa capire di aver raggiunto un livello per cui puoi decidere cosa fare, ma io non riconosco più quel mondo. Io ho scelto una nuova filosofia di ristorazione e la mia missione è condividerla”.

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Reis cuneo

Lo chef Juri Chiotti e uno dei suoi agnellini.

E per farlo non si parte dalla cucina, ma da tutto quello che viene prima. Allora lo seguiamo tra le incombenze del giorno, nel caldo innaturale di un pomeriggio di marzo che scioglie la poca neve della stagione e copre i pendii di fango. Siamo a Chiot Martin, una borgata in cui affondano le radici della famiglia di Juri, dove è nato suo padre e dove tutto è in equilibrio tra tradizione e sostenibilità. Non perché sia di tendenza, ma perché la vita di montagna deve assecondare la natura per necessità, cosa che Juri ha amplificato in ogni aspetto.

Il ristorante si trova nel vecchio fienile e la stalla è diventata una delle salette. La casa dello zio ospita i conigli e il pollaio, mentre le pecore e le capre, quando non sono in giro per i prati a banchettare con le erbe fresche, stanno in un’antica stalla di pietra.
“Cuneo per molti è già un luogo abbastanza remoto, cosa ha fatto scattare l’asticella e ti ha fatto decidere di spostare tutta la famiglia (incluse tre bambine e un bambino in arrivo) fin qui"?”

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“Lavoravo con Diego Rossi di Trippa a Milano, chef di città ed è stato lui a farmi notare che passavo i miei giorni liberi tornando sempre qui, in cerca di erbe spontanee e formaggi,” mi dice lo chef. “Così mi sono detto che se i sapori migliori si trovavano qui, allora valeva la pena tornare per restare. Mi ha aiutato a capire che avrei fatto il mio mestiere al meglio nel posto che più conoscevo e che con quel mestiere avrei anche potuto raccontare qualcosa. Mi son detto che forse potevo fare quella rivoluzione di cui la ristorazione ha così fame.”

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“Assistendo alla fatica concreta nel produrre il cibo diventa facile da comprendere la scelta di ottimizzare gli sforzi.”

Juri Chiotti dà il fieno alle pecore, vicino a me due capre ammirano il paesaggio, l’immenso cane da pastore (unico alleato contro i lupi) rincorre il fotografo e io ancora mi chiedo quale sia questa grande rivoluzione, al di là di avere prodotti a metro zero e avere il coraggio di cucinare gli agnellini che stanno gironzolando attorno alla mamma tra la paglia. Ma lo chef me lo chiarisce presto: “Il cambiamento più grande è che solitamente un cuoco pensa ad un piatto e poi cerca gli ingredienti. Io faccio il contrario,” mi racconta. “L’approccio è diverso perché noi sappiamo che non possiamo sprecare nulla, quindi non mettiamo al primo posto l’estetica.” Che comunque c’è, aggiungo io.

“Assistendo alla fatica concreta nel produrre il cibo diventa facile da comprendere la scelta di ottimizzare gli sforzi. Se ho un prodotto che voglio lavorare e so benissimo che ci sarebbe, da qualche parte nel mondo, un ingrediente che si abbinerebbe magistralmente, ma io ne ho un altro che non è altrettanto perfetto, allora scelgo quello vicino a me. Mi limito per rispettare e dare maggior valore a quello che ho”.

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Lo chef ci mostra la carne che viene dal suo allevamento.

Facciamo un esempio: il riso è uno dei suoi prodotti preferiti perché “il risotto è come un foglio bianco.” Ecco, invece di prendere il Carnaroli, Juri ne sceglie uno tecnicamente imperfetto, ma prodotto all’Abbazia di Staffarda, pochi chilometri a valle. Poi lo cuoce al putagè, la classica antica stufa a legna piemontese, ma in versione un po’ più moderna e lo prepara con quello che offre l’orto. “Questa settimana, ad esempio è con porri, kefir di capra e rosmarino.”

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Anche la quotidianità nella gestione di un ristorante a come Reis è diversa. Anzitutto, il ristorante è aperto soltanto dal venerdì al lunedì, perché la settimana è dedicata al lavoro agricolo, che determina il gusto nel piatto, ma anche il menu. Qui la carta non cambia soltanto in base alla stagionalità, ma in base alla dispensa. Se un prodotto finisce durante il servizio non lo si può comprare, ma finisce e basta e sarà sostituito da un nuovo piatto.
La scelta di un’apertura limitata è anche etica, dunque: “Siamo andati troppo oltre, ci siamo abituati ad andare sempre a cena fuori, ma il cibo non è una cosa che possiamo delegare ad altri. È una comodità insostenibile,” mi dice Juri Chiotti. Un passaggio un po’ confuso, devo ammettere, dato che ha lui stesso un ristorante. Ma suona poetico lo stesso.

“Cibo libero di montagna, per me, vuol dire anche non limitarsi a cosa cucina la nonna, ma cercare di ritagliarci un futuro in cui decrescita e progresso si equilibrino.”

“L’alta cucina, almeno per me, non dovrebbe essere un mezzo per divertirci, ma dovrebbe essere una fotografia fatta da un esperto di cibo che ti dice come ti dovresti nutrire. Sappiamo che il cibo oggi è responsabile del 40% dell’inquinamento del mondo e il cuoco, in quanto esperto in materia, deve responsabilizzare il suo pubblico. Invece molti continuano a voler accontentare solo il loro ego e le loro tasche. Non possiamo più concentrarci sull’abbinamento, la tecnica o la creatività: dobbiamo imparare a coltivare, a capire da dove arrivano le cose che cuciniamo, poi viene il resto. Dobbiamo proprio rivedere tutto. Il cibo non può più essere solo divertimento.”

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Mi ha convinto e continua a farlo: il caffè sostenibile di D612, il cioccolato etico di Lim Chocolate, le vecchie porte recuperate nelle baite abbandonate e riutilizzate per rivestire l’interno del ristorante, le travi portanti in legno di castagno locale, la selezione di vini naturali di montagna e le conserve in vendita fatte con il surplus dell’orto. Eppure, mi chiedo, non è che a voler produrre tutto da sé si rischia di perdere la bellezza della diversità e di diventare un po’ reazionari anche nel piatto?

“Io non voglio scendere a nessun compromesso sul come si coltiva un prodotto, ma non pongo nessun limite alle varianti, ad esempio abbiamo piantato dei peperoncini che qui non si sono mai coltivati, ma che tra cambiamento climatico e voglia di sperimentare hanno trovato il terreno perfetto. Cibo libero di montagna, per me, vuol dire anche non limitarsi a cosa cucina la nonna, ma cercare di ritagliarci un futuro in cui decrescita e progresso si equilibrino. Per fare questo lo scambio e la commistione sono fondamentali, ecco perché abbiamo uno staff internazionale.”

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Questo chef mi ha spiazzato con la teoria. A ogni colpo di vanga corrisponde una domanda etica, a ogni inforcata di fieno la sua risposta ben ponderata e articolata. Manca soltanto una cosa: insomma, cosa si mangia alla fine? Juri cambia divisa, si fa cuoco e mi illustra quel che bolle in pentola o, meglio, sul putagé.

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Batsoa fritto con cipolle in agro e cavolo alla brace. Foto per concessione di Reis.

Il menu degustazione, detto “A Nostro Modo”, è composto da sette portate (50 euro) in cui il rapporto tra carne e vegetale è sempre di 1 a 1 per dare il giusto valore alla verdura e nel menu ci sono cinque portate vegetariane”, mi spiega.
Considerando poi che gli agnelli non vengono macellati a due mesi (Juri gli mette un elastico sui testicoli, castrandoli in modo indolore, e li macella quando hanno un anno) e che vivono liberi nei prati, anche le due portate di carne sono un concentrato di consapevolezza e rispetto.

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L'insalata di Reis contro lo spreco. Foto per concessione di Reis.

Dalla rollata di pecora cotta per inerzia tutta la notte nel putagé spento, al tataki di salmerino con tomatillo, mela, capperi di aglio orsino e olive o ai gyoza di cotechino e verza in brodo affumicato di testina e zenzero, il gioco è quello di attirarti con sapori che ricordano la cucina della nonna e spiazzarti con note che ti portano via lontano. Rigorosamente senza sporcare il pianeta con la tua carbon footprint). E per chi cerca i sapori di montagna ci sono i piatti più tipici, sempre rivisti secondo i principi di Juri, come il Tumin dal Mel con patate arrosto e spuma di aiolì o il signature dessert: panna cotta al fieno di montagna e sciroppo di pino cembro.

C’è un angolo della cucina che mi attira perché sembra il banco di un alchimista. Qui, scopro, si gioca con le fermentazioni: che anche Juri si sia fatto sedurre da una moda del momento? Ovviamente no, hanno un loro senso.
“Le fermentazioni saranno mainstreem, ma se non vuoi buttare via nulla e preservare i tuoi prodotti, sono una tecnica importante. In montagna le conserve, le marmellate e, perché no, anche le fermentazioni, sono passaggi fondamentali”.

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La sala con vista di Reis.

Facendo un rapido controllo: con la teoria ci siamo, con i gusti stiamo volando, il locale è stiloso e sostenibile. Manca solo una voce per capire se questa rivoluzione può davvero funzionare.
I soldi. Insomma, si può campare così? “Se ti fai il culo, sì”.
O meglio: “La cosa più difficile è la costanza di essere presenti sette giorni su sette in azienda. Stanno succedendo molte cose belle e vorrei che succedessero più in fretta, ma qui i tempi li decide la natura. Da lunedì a giovedì sono nell’orto, o tagliare la legna, o a spalare la neve. In settimana posso gestire il mio tempo in un’anarchia agricola, mentre nel weekend torno alla tempistica precisa della cucina. Mi sembra un buon equilibrio. Però ci va molta manualità e con gli animali devi sempre essere presente, che tu abbia l’influenza o che sia Natale,” mi spiega Juri.

“È un progetto fattibile solo se hai un’ossessione, più che una passione. Poi in questo tipo di allevamento non vedi il ritorno economico subito, ma arriva lavorando l’animale e, quindi, cucinandolo.”

C’è ancora molto lavoro da fare, e le idee di Juri non mancano, dalle attività didattiche per i bambini al salorto per l’estate (un orto in cui mangiare circondati da frutta e verdura).

Del resto, nessuno pensa che la rivoluzione sia facile ma sembra sempre più necessaria.

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