Devo premettere: da qualche mese sto andando alla ricerca di famiglie rom disposte a cucinare per me, raccontarmi alcune ricette tradizionali e le loro storie familiari. Il cibo è un pretesto per esplorare le sfaccettature di un popolo che da sempre viene ingiustamente ridotto a uno stereotipo statico e immutabile: rubano, mentono, sono vagabondi. Imparare (io) qualcosa in più sulla sua storia, così complicata da ricostruire, e sulle migrazioni e persecuzioni che la costellano.
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Dopo i sinti pratesi dove ho mangiato piatti tedeschi, mi sono autoinvitata a pranzo da due famiglie rom rumene che abitano a Milano. La migrazione dei rom rumeni verso l’Italia segue le tappe di integrazione della Romania nell’Unione Europea, a partire dal 2001 quando è stato abolito l’obbligo di visto. Non a caso le famiglie che mi ospitano oggi, originarie della zona di Craiova, arrivano in Italia nei primi anni Duemila e da allora rimbalzano su varie situazioni abitative, soprattutto campi, prima di trovare accoglienza dove siamo oggi cioè alla Casa della Carità.In Italia è la presenza dei Rom è del 0,2-0,3%, un dato da tenere in mente quando ci viene raccontata la favola dell’invasione
Cornelia e Alina, le due madri, si sono divise i compiti: Cornelia prepara le sarmale e la ciorba, Alina l’insalata russa e il dolce. I loro figli ci girano intorno, fanno giustamente casino. I mariti non ci sono, sono a lavoro. Stiamo facendo l’impasto del pane, quando arriva la mazzata:Cornelia: “Noi non siamo nate rom. Siamo diventate rom.”Come non siete rom. E me lo dite adesso. Cosa vi fa credere che sia equivalente? Lo penso, non lo dico, lo dico con gli occhi. Cornelia: “Mio marito è rom, siamo insieme da 24 anni. Sono entrata nella sua cultura.”
In realtà, ma l’ho capito solo dopo, a frantumarsi con quella frase “siamo diventate rom” era il mio set di risposte che pensavo di conoscere già. Il punto però è che non mi ero posta le domande giuste. E che quindi mi conveniva ascoltare bene cosa avevano da dirmi.
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Sarmale
La carne macinata con cui farciamo le sarmale è un misto di bovino e maiale. Alla carne aggiungiamo: riso (crudo), cipolla tritata, uovo sbattuto, origano, concentrato di pomodoro, peperoncino dolce, pepe nero, sale. Cornelia, come una abituata a cucinare in poco spazio, trita la cipolla senza poggiarla sul tagliere, la tiene in mano e la intacca con tagli verticali, poi toglie gli strati in orizzontale.
Arrotoliamo la verza intorno alla carne e sistemiamo gli involtini in una pentola, ammassati tra loro su più strati.
La cottura è lunga: deve cuocersi la carne, deve cuocersi il riso. Anche due ore, dice Cornelia. Dentro alla pentola aggiunge ancora peperoncino, dado di gallina, polpa di pomodoro, alloro. Poi copre con un piatto, lo poggia proprio a contatto con gli involtini, ci versa sopra l’acqua che dovrà però bollire a lungo.
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Le mangiamo con gusto qualche ora più tardi e siccome non sono una fan della carne macinata con filiera ignota direi che la cosa più interessante è la complessità di sapori, che vanno dall’acidulo al piccante, senza coprire del tutto l’origano e l’alloro.
C’è chi non si dichiara rom per paura di discriminazione
Questa, come le altre ricette rom che assaggio oggi, corrispondono alle ricette rumene, che è comprensibile se si pensa che la presenza rom in Romania è documentata sin dall’epoca medievale e ancora oggi è uno dei paesi dove la popolazione rom è più presente. Stando ai dati più recenti, la minoranza rom in Romania rappresenta il 3% della popolazione, ma sono molti a ritenere che la percentuale reale si avvicini piuttosto all’8-9% (in Italia è lo 0,2-0,3% un dato da tenere in mente quando ci viene raccontata la favola dell’invasione). La divaricazione tra i due dati, mi spiega Sergio Bontempelli, esperto di storia e cultura rom, “è da attribuirsi in parte al fatto che c’è chi non si dichiara rom per paura di discriminazione, ma soprattutto alla difficoltà intrinseca di censire un dato etnico, perché l’identità etnica è inevitabilmente contaminata e in evoluzione.” Ricapitolando: l’Onu e la storia recente ci insegnano che un censimento etnico è discriminatorio, Sergio adesso mi sta anche spiegando che nel migliore dei casi è approssimativo. (per approfondire)Intanto Alina prepara l’insalata russa. Carote, patate e piselli sono lessati e tagliati a pezzetti, li mescola insieme a olive, peperoni rossi e cetrioli sottaceto. Monta la maionese con olio di semi e un tuorlo d’uovo. Unisce il tutto e lo compatta dentro al vassoio, schiacciando col cucchiaio. Infine decora la superficie con uova e verdure.
Insalata russa
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Questo piatto che ha origini e storia incerta (invenzione di un cuoco francese a Mosca? piatto dell’aristocrazia ligure del Settecento? ricetta della corte dei Savoia?) ha il pregio di ricordarci che la cultura gastronomica si ibrida di continuo. Come del resto la cultura in generale e le identità che da quella cultura sono definite. E io che voglio sapere “Alina sei rom sì o no” forse non ho capito nulla.
“I matrimoni misti tra rom e gagé (non rom) ci sono sempre stati – mi dice Sergio Bontempelli – sin dagli inizi della storia moderna. Vi sono intere comunità rom che nel corso delle generazioni si sono mescolate con i gruppi maggioritari.”Quello che mi colpisce dalle parole di Cornelia è, però, questa idea potente dell'identità rom tale da contagiarsi al coniuge come una scelta di vita.Esiste un’identità rom, un senso di essere rom, ma è più un senso politico
E soprattutto: “Certo esiste un’identità rom, un senso di essere rom, ma è più un senso politico, non una tradizione atavica (per approfondire). La retorica dell’identità immobile nelle sue presunte tradizioni millenarie è solo un dogma: se ne appropria il linguaggio discriminatorio contro i rom, così come il nazionalismo rom che per quanto sia un fenomeno molto isolato, sta crescendo negli ultimi anni. Il punto è: essere rom è anche una scelta, e ci sono molti modi di interpretare e agire le culture rom. Così come ci sono molti modi di pensarsi, sentirsi ed essere italiani, toscani, milanesi, e così via.”
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Ciorba di pollo
Il brodo prende sapore con un misto di cipolla, carota e peperone, più il pollo, immerso a pezzi grossi e lasciato a cuocere insieme alle verdure. Più avanti nella cottura si aggiungono le patate e in ultimo la pasta. A fine cottura Cornelia sbatte un uovo e lo butta nel brodo, mescolando veloce per distribuire i filamenti in tutta la minestra. Il gusto è quello rassicurante dei piatti poveri e contadini.A un certo punto in cucina arriva un’anziana signora rom, anche lei ospite della Casa della Carità. Deve cucinare per suo marito prima che lui vada a lavoro. Prepara la ciorba, apparecchia. Dopo un po’ arriva lui, si siede, mangia chino sul piatto. Lei resta in piedi di fianco a lui, in attesa di sue eventuali richieste, tipo passami il sale. Solo dopo aver sparecchiato il pranzo di lui, anche lei si siederà a mangiare.È una scena che non mi rallegra, ma Bontempelli mi aiuta ancora a mettere in prospettiva: “È innegabile che la cultura rom abbia dei tratti patriarcali, come del resto tutte le culture mediterranee. L’errore però è attribuire questi tratti alla tradizione tout court, quando invece sono connessi piuttosto alla marginalizzazione. Le pratiche fortemente patriarcali resistono dove c’è un basso livello di istruzione e di inclusione lavorativa delle donne. Se le donne studiano e lavorano, il modello patriarcale si incrina. Donne che vivono o hanno vissuto negli accampamenti per anni e sono state oggetto di varie forme di discriminazione da parte della popolazione maggioritaria (noi, ndr.) probabilmente non sentono come dissonante la deferenza nei confronti dei mariti. Ricerche sul campo ci insegnano invece che donne rom inserite nel mondo del lavoro o in una situazione abitativa dignitosa rinegoziano i rapporti coi loro mariti.”
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Dolce di maccheroni (?)
La demolizione degli stereotipi continua col dolce. Io mi aspettavo i gogoshi, bomboloni di crema fritti, citatissimo piatto della cucina rumena. Invece Cornelia e Alina mi rifilano una pasta al forno con formaggio fresco, zucchero e limone. Praticamente una ricetta da studente universitario in fame chimica. È impossibile per me ricostruire se questo piatto abbia una qualche corrispondenza alle tradizioni rom o rumene. Di certo c’è che è un piatto consueto in queste due famiglie. E che, nonostante io continui a desiderare quei gogoshi mancati, la tradizione è una bellissima invenzione che aspetta solo di essere smentita.Segui Diletta su InstagramSegui MUNCHIES su Facebook e Instagram.
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