Tutte le immagini per gentile concessione dell’autrice.
“Mettiamo la storia della mamma cinese che ha strangolato il figlio in diretta?,” propongo al “direttore” mentre sto scegliendo un regalo per un amichetto di mio figlio, in un negozio di giocattoli molto frequentato.
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“Selene,” sento dall’altro capo del telefono, “è successo a Shanghai, a noi che ce ne importa?” Controbatto: “Ha postato il video su Internet e il bambino aveva dieci mesi.” Il particolare gli fa cambiare completamente tono: “Ci sono le foto del delitto, si vedono bene, c’è proprio lei in primo piano che gli mette le mani al collo? Ma allora è clamoroso, allora cambia tutto!”
Alla fine, dopo un lungo scambio di impressioni, il pezzo della mamma assassina è scartato. Quando riattacco noto una donna che mi guarda con ribrezzo, avvicinando il figlio di due anni al corpo. Probabilmente era nei paraggi da abbastanza tempo da aver condiviso il nostro brainstroming.
Per quasi cinque anni della mia vita, quando avevo da poco passato i trenta, questa è stata la mia realtà quotidiana, il mio lavoro: produrre contenuti per i peggiori tabloid di nera e affini presenti sul mercato editoriale italiano. Gialli dell’estate, cronaca sexy, misteri del paranormale, miracoli di ogni genere, atti di eroismo a quattro zampe—non mi sono fatta mancare proprio nulla.
Tutto è iniziato con una telefonata di un vecchio amico, quando dopo la laurea in scienze della comunicazione—e alcune allucinanti esperienze con i giornali di partito tenuti in piedi da zombie della Prima Repubblica—mi ero ritrovata a spasso, e con due figli avevo un estremo bisogno di lavorare. “Ci sono due cose che devi sapere,” mi aveva detto questo amico col tono di chi sta per agganciarti in un’operazione fuorilegge. “I soldi sono pochi e il pelo sullo stomaco sovrabbondante.” “Non c’è problema,” avevo risposto, convinta di aver realizzato uno dei miei sogni di giovane redattrice: scrivere su una “specie” di Cronaca Vera.
Non avevo idea di cosa mi aspettava.
Come in una fiction di mala, una volta che il sodale mi aveva agganciata puntando sul fattore disperazione (più nostalgia), ero pronta per incontrare il “cattivo” di primo livello—ovvero il “direttore” di questa serie di tabloid, incaricato di traghettarmi nell’organizzazione criminale dalla quale, fatto il passo, non sarebbe stato più possibile uscire. Quest’uomo, che chiamerò Senpai, era un corsaro dei generi prestato al mondo dei tabloid. È stato uno sceneggiatore apprezzato, ha lavorato nel circuito dei fotoromanzi e infine è arrivato ai prodotti d’informazione nazionalpopolari da cui non ha più saputo (o voluto) venire via.
Al di sotto di Cronaca vera , infatti, si estende un sottobosco di settimanali e mensili che cercano di clonarla, facendola quasi sembrare una versione del New Yorker con in più il sangue e le tette. Si tratta di riviste mordi e fuggi pensate per un pubblico over-65 che possono durare anche un solo numero e puntano a scucire pochi spiccioli alla scarna audience che ancora spende euro in edicola, assoldando, per ancora meno spiccioli, peones dell’industria culturale come me.
Questo ” service editoriale” va a formare una specie di Rete, che funziona più o meno così: i senior, come Senpai, si fanno affidare da piccoli e medi editori commesse per la creazione di riviste che realizzano completamente in proprio, senza nessuna struttura redazionale di riferimento. Quando ne hanno troppe da gestire esternalizzano ad altri redattori di fiducia singole parti o persino interi prodotti —ossia riviste di 130 pagine, compresi i titoli, le immagini e le didascalie.
Non c’erano fonti privilegiate da contattare o colleghi con cui condividere intuizioni tra una sigaretta e l’altra a una macchinetta del caffè. Non c’era proprio la macchinetta del caffè, in effetti, né una redazione degna di questo nome. Eravamo solo io e il mio Mac, in collegamento diretto con la scrivania dell’antro di Senpai che a sua volta coordinava altre decine di giornalisti come me, direttamente a domicilio.
Iniziare a scrivere utilizzando il codice apparentemente naif ma in realtà ipnotico e avvolgente dell’informazione popolare si è rivelato più duro del previsto. “Devi pensare di parlare a tua nonna,” mi consigliava sempre Senpai. “Fai finta di non aver letto neanche un libro nella vita.”
Così facevo, e a forza di provarci sono entrata nel meccanismo. In queste riviste, naturalmente, sesso e morte la fanno da padroni e alimentano una narrazione che segue due modelli. Da un lato ci sono le storie autoconclusive, in genere ricavate da notizie particolarmente grottesche della cronaca locale; dall’altro i grandi romanzi a puntate, che vanno dilatati nel tempo e costruiti con un susseguirsi di episodi a tema che allontanano la parola “fine.”
Per capirci: la fiaba macabra del povero pensionato inebriato dal viagra che regala i risparmi all’amante brasiliana e viene da lei prima ucciso e poi fatto sparire in una colata di cemento rientra nella prima categoria. Le epopee di Meredith Kercher, Sarah Scazzi, Yara Gambirasio e Roberta Ragusa rientrano nella seconda. Di questi casi non si poteva scrivere solo quando le indagini o la scansione del ritmo processuale portano aggiornamenti significativi, nuovi fatti-notizia su cui lavorare; no, i “grandi classici” prevedevano un servizio ogni maledetto numero.
Dato che nessuna di queste pubblicazioni ha budget o tempi consistenti alle spalle, la produzione deve essere meccanizzata e funzionare da sola. Ogni storia andava inserita in un format di riferimento, in modo che il redattore dovesse solo adattarla a modelli “preimpostati”e il lettore, anche il neofita casuale, potesse subito riconoscerne la struttura e il linguaggio e farne il proprio “grande classico.”
Col tempo avevo imparato a distinguere tra la “giovane vita spezzata” (Sarah, Yara), il “piccolo angelo” (Tommaso Onofri, Angela Celentano, Denise Pipitone, Fortuna Loffredo), o la “brava mamma rapita e uccisa” (Roberta Ragusa, Elena Ceste, Guerrina Piscaglia). A questi si aggiungevano i format ritagliati sui villain, con “le streghe adolescenti” (Erika De Nardo, Amanda Knox, Sabrina Misseri), le “mamme-mostro” (Annamaria Franzoni, Veronica Panarello) e le “coppie assassine” (Olindo Romano e Rosa Bazzi, Alexander Boettcher e Martina Levato).
Un grande giallo, per sopravvivere anni nell’immaginario del lettore e quindi sui tabloid, deve passare attraverso una serie di step e infine riuscire a cambiare format, per far ripartire il ciclo dall’inizio. L’idea era di avere una “verità” a numero, per riuscire sempre a stupire il lettore, dandogli esattamente ciò che si aspettava: si partiva così dalla pista familiare e si arrivava a quella del complotto o del killer professionista, che rappresentava l’equivalente per la non-fiction di nera del “salto dello squalo” per i serial televisivi.
Grazie a questo schema ho scritto per mesi del caso Yara Gambirasio quando le indagini giravano a vuoto e Bossetti era solo un dna ignoto nella mente del Ris. Un gruppo di satanisti è stato inserito tra i possibili responsabili; un veggente ha tracciato per me un identikit del suo assassino; un testimone a sorpresa si è detto pronto a tirare in ballo la “pista del cantiere”; infine, quando proprio avevo esaurito le idee, si è ventilata l’ipotesi della camorra.
Naturalmente il pubblico di riferimento di queste pubblicazioni, che non a caso è lo stesso delle soap opera, ci mette del suo quanto a sospensione di incredulità, e accoglie le varie verità con lo stesso accondiscendente entusiasmo riservato all’ennesimo matrimonio di Brooke Logan di Beautiful.
Io, del resto, non mi sono mai risparmiata. Da Elena Ceste fuggita con un santone spagnolo a Trifone & Teresa uccisi dal “killer delle rose,” ho fatto di tutto per far emozionare il lettore giocando con i format della fiction e mettendolo di fronte a un sudoku con i morti ammazzati da sfogliare sotto l’ombrellone.
“Il nostro è un gioco, non ha niente a che vedere con la vita reale,” mi ha detto una volta Senpai. Peccato che la vita reale sia la somma delle narrazioni collettive in cui confluiscono anche le fiabe zozze e piene di trovate gore della cronaca nera. Che in questo modo finiscono per strabordare, arrivando ovunque—nei commenti dei grandi editorialisti (che a volte prendono i format alla lettera, con effetti grotteschi), nelle arringhe dei pubblici ministeri e persino nelle sentenze emesse dai tribunali.
Seguendo l’andamento dell’inchiesta sul caso Loris Stival, ad esempio, non ho potuto fare a meno di notare che Veronica Panarello (se non per età, per sesso e consumi culturali la perfetta lettrice di tabloid) ha messo in pratica il sistema del format a tempo determinato nella sua narrazione da imputata. Prima c’è stato il finto rapimento a scuola, poi il black-out della memoria, quindi l’incidente e infine l’omicidio da parte del nonno-orco. Ma non c’è da stupirsi più di tanto: Veronica, in fondo, è una di “noi”—e dicendo “noi” intendo sia i cronisti di nera che i loro lettori.
Dopo un paio d’anni al servizio della Rete ho iniziato a notare come la distanza tra i tabloid e i tribunali si andasse assottigliando. Nonostante ciò ho continuato a farne parte, chiusa in una bolla dove mi illudevo che un mestiere senza più senso, per la sua stessa natura, non avesse il potere di incidere sul mondo. Intanto il settore veniva colpito dalla crisi e le riviste, che ormai potevo scrivere tutta da sola, duravano sempre di meno. Quando anche l’ultima ha chiuso i battenti, uno strano senso di liberazione mi ha pervasa.
Per non dovere fare i conti con ciò che scrivevo avevo smesso da almeno tre anni di vedere i miei articoli stampati, e con il loro corredo di titolacci e immagini soft-core. Ma non posso dire di avere “deciso” di smetterla con la nera popolare. Già in passato mi ero ripromessa a intervalli regolari di rispondere “no” alla successiva proposta lavorativa di Senpai, per poi ricascarci ogni volta—vuoi per il bisogno economico, vuoi perché era l’unico territorio in cui sentivo di poter accampare una qualche forma di competenza.
La verità che è nella catena alimentare delle notizie non c’era davvero nessuno più in basso di me. Quando ho percorso il viaggio a ritroso, dall’ultimo pezzo mandato a Senpai al primissimo, non c’è stato più modo di sottrarsi agli effetti di questo primato delle notizie di merda, di eludere i mostri creati su quelle pagine e che agivano indipendenti, creature senza bisogno di un creatore.
Ed è così che ho cercato di raccontare le regole della Rete sulla narrazione di nera, per metterle al servizio di chi le legge ogni giorno, incarnate nei servizi del telegiornale e nei lanci di agenzia. Perché avrò smesso di scrivere per i tabloid, ma continuo a seguire la cronaca che ruota intorno agli omicidi: la considero un osservatorio privilegiato sulle nostre paure e i demoni che schieriamo per dominarle, e per questo non penso sarò disposta tanto presto ad abbandonarla.
Selene Pascarella è una giornalista che ha lavorato per anni nei tabloid italiani di cronaca nera. Ha raccontato la sua esperienza nel libro autobiografico Tabloid Inferno, uscito per Edizioni Alegre nella collana Quinto Tipo.
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