Questo articolo è uscito originariamente nel 2015 ed era stato realizzato per l’uscita di Niente che non va. Lo ripostiamo oggi perché è una testimonianza di un momento in cui Coez non era ancora una delle popstar più famose d’Italia, ma solo un ragazzo che stava imparando a lasciarsi dietro il rap—che era bravissimo a fare—per costruirsi una nuova identità.
Una delle prime cose in assoluto che ho sentito di Coez è stata la barra: “Io metto un ferro nella bocca di Tiziano / noi passiamo sere nere / abbiamo sete di denaro / sfondo come Cristo / lui col libro io col disco”, che veniva da “Circolo Vizioso Royal” e quindi a volte faccio ancora una discreta fatica ad ascoltare i pezzi di adesso senza aspettare il momento in cui si comincerà a parlare di coltelli, alcol e minacce di suicidio, ma questo è chiaramente un problema mio.
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A guardarlo ora, infatti, Coez è un cantante pop con un ottimo gusto in fatto di camicie che ha pubblicato un album molto bello che si chiama Niente Che Non Va. Quasi ogni canzone di Niente Che Non Va (in modo molto simile a come faceva il suo album precedente Non Erano Fiori, però meglio) ha lo specifico scopo di ricordarti quanto amara sia la tua vita e quanto il prossimo sia inaffidabile in fatto di sentimenti, però riesce a farlo risparmiandoti quel senso di oppressione al petto che trasmette in genere il cantautorato italiano.
“Quasi ogni canzone di Niente Che Non Va ha lo specifico scopo di ricordarti quanto amara sia la tua vita.”
Però appunto Coez è (stato?) anche un rapper con i BrokenSpeakers—aka la fusione di Circolo Vizioso e Unabombers—e, come solista, ha tirato fuori uno dei dischi più cupi, incazzati e interessanti di quel periodo, cioè Figlio di Nessuno. Poi dalle produzioni di Sine è passato a quelle di Riccardo Sinigallia con Non Erano Fiori ed è riuscito a fare una cosa che fino ad ora è riuscita solo a circa lo 0,2 % dell’umanità mai esistita, cioè evolversi artisticamente dal rap italiano in modo credibile.
Questo percorso ovviamente lo rende ancora più un mutante nel panorama nazionale di talent-chitarrine, soprattutto se si considera che Niente che non va—che è prodotto tutto da Ceri—è davvero un bel disco. L’ho incontrato per chiacchierare con lui del suo album, dell’ansia e delle interazioni aulin-cortisone.
Noisey: Parliamo subito di Niente che non va. Mi dicevi che rispetto al precedente, Non erano fiori, ti senti molto meno in ansia.
Coez: Sì, in realtà l’ho detto due giorni fa e già sono pronto a ritrattare [ride]. Il disco precedente è stato un bel nodo da sciogliere. Diciamo che il passaggio che ho fatto dagli album prima a Non erano fiori è stato abbastanza violento. Con Non erano fiori ho cominciato a far pensare alla gente che stavo cominciando un percorso diverso, da non-rapper. È per questo che sono più tranquillo, adesso mi sento di aver già fatto quel passaggio, la mia fanbase è già preparata, “ammorbidita” in un certo senso. E poi penso che il disco nuovo sia anche più forte di Non erano fiori.
Effettivamente è più upbeat di Non erano fiori.
Eh be’, sì!
Secondo te hai una scrittura malinconica?
Penso di sì. Soprattutto nelle cose più up finisco per tirare fuori parecchia malinconia. Boh già un pezzo tipo “Ti Sposerai” …Eh… Non è ti sposerò, è TU ti sposerai. Con un’altra persona. Che non sono io [ride]. Per quanto poi il beat sia carino, no? Però comunque…
Tu hai cominciato con Circolo Vizioso e hai continuato con i BrokenSpeakers, ma in entrambi i casi avevi una scena di riferimento molto specifica. Com’è che hai deciso che volevi cambiare genere così drasticamente?
Boh, piano piano. Dopo Figlio di nessuno avevo fatto un altro disco con i BrokenSpeakers e avevo visto che ormai c’era una facilità estrema nell’affrontare un disco di gruppo. Neanche finito quel disco lì avevo già scritto Senza mani e Fenomeno. Lì ho cominciato a capire che sperimentare su basi di musica elettronica mi piaceva. Avevo rappato su un pezzo degli xx, stavo ascoltando un sacco di roba diversa. Diciamo che stavano cambiando un po’ i miei ascolti ed è venuto abbastanza naturale.
Cosa ascolti adesso?
Adesso paradossalmente sto ascoltando pochissima musica. È strano. Forse però quando esci dallo studio dopo ore e ore di musica non ti va troppo di metterti ad ascoltare altra musica con concentrazione. Però sono sempre aggiornato sul rap che esce, sia americano che italiano. Continuo ad ascoltare anche elettronica, anche se sto un po’ superando l’affetto che potevo avere prima per il singolo disco o il singolo gruppo. Magari becco pezzi con una produzione stellare e ci vado in fissa anche senza conoscere bene da dove arrivano.
I fan del rap italiano, che sono le entità più polemiche mai esistite, come hanno vissuto il tuo cambiamento artistico?
Da una parte è vero, sono parecchio polemici. Però nel caso dei miei fan diciamo che la cosa che interessa alla maggioranza di loro è la scrittura e io quel lato non l’ho mai bistrattato. Ho cambiato sonorità e tutto, ma anzi, più ho cambiato sonorità e più sulla scrittura ci ho passato tempo.
Infatti ti volevo chiedere se e come sia cambiato il tuo modo di scrivere rispetto a quando facevi rap…
Direi proprio di sì. Il rap, insomma il mio rap—di rap in generale ce n’è tanto—lo scrivi con lo stomaco più che con la penna, è un’altra cosa. Penso a cose mie come Figlio di Nessuno. Chiaramente crescendo mi sono rilassato, i tempi si sono dilatati, è entrata più musica. Anche se per me il testo rimane sempre la cosa più importante. Adesso, per come li scrivo io, i brani puntano dritti a un punto solo, che poi è il messaggio del testo. Mentre magari in un pezzo rap ci può essere un ritornello che gira e intorno un elenco di roba che può descrivere un tuo stato d’animo, ma senza parlare effettivamente di qualcosa di concreto.
Nel disco non c’è neanche un feat, come mai?
Innanzitutto c’è sicuramente una dose di snobismo, però allo stesso tempo parliamoci chiaro, te ce lo vedresti un rapper che entra su “La rabbia dei secondi” e comincia a rappare? O su “Ti sposerai” che comunque è una cosa fra me e lei un altro che cazzo c’entra [ride]. Per integrare un rapper in questo disco sarei dovuto andare io verso di lui, e non il contrario, quindi sarebbe stato comunque in un pezzo outsider del disco. Forse troppo outsider.
Ci sono delle cose che ti piacciono del pop italiano?
Di adesso? C’è il pezzo di Cremonini “Grey Goose” che m’è piaciuto un botto, mi ci sono ritrovato un sacco. Sai, insomma, quei temi tipo alcol e donne sono un po’ casa mia, quindi mi sono preso bene quando ho sentito il suo pezzo.
Ci andresti a Sanremo? O comunque faresti cose che non ti piacciono per dare più visibilità al tuo lavoro?
A Sanremo ci andrei, perché fondamentalmente non puoi neanche avere la presunzione di… Voglio dire, tu entri a lavorare in un posto… pure—che ne so—da Foot Locker sarai te il primo a pulire il cesso. No vabbè, non voglio essere così cattivo con Sanremo. Però riconosco che c’è una gavetta che si deve fare, io l’ho fatta nell’underground e penso di doverla fare in questo nuovo contesto, se voglio continuare e crescere. Devo essere molto maturo nel sapere accettare dei compromessi. Il tutto ovviamente con il fine ultimo e specifico di fare un sacco di soldi [ride]. Chiaramente per raggiungere più gente possibile. E comunque molto meglio Sanremo dei talent.
Secondo te hanno un senso i talent?
I talent sono per un certo tipo di percorso. La cosa che penso è che è un po’ come costruire una casa dal tetto. Comunque arrivi su e sicuramente è difficile che tu abbia l’esperienza per capire come devi comportarti in certe situazioni. Pensa a Mengoni per esempio, che la gavetta che non si è fatto prima di X Factor se l’è fatta dopo quando ha sbagliato il disco e ha dovuto rimboccarsi le maniche e presentarsi l’anno dopo al grande pubblico con un disco nuovo successivo. Io penso che avrà passato un anno di merda. Quella probabilmente è stata la sua gavetta. Comunque per essere completo devi passare attraverso determinate cose, di questo sono sicuro. Io le cose le ho imparate soprattutto quando ho sbagliato. Quando ho iniziato ero solo, invece adesso ho un’etichetta, un manager, un tour manager, una band e tutto. E sono tutte persone che si sono unite al progetto per un fatto di affinità, vicinanza. Mi aiutano e so che la bravura sta molto anche nello scegliere chi ti sta intorno. E le riconosci solo con l’esperienza le persone giuste.
Quand’è stata l’ultima volta che ti sono venute le placche alla gola per il nervoso?
Al Music Summer Festival di due estati fa. Ho cantato la prima sera e avevo 37 che dopo due ore era già diventato 39 ho passato tipo tutta la notte a prendere cortisone e Aulin insieme a manciate.
Ma non si fa mai…
Mai. Lo so. Però mi dovevo bombardà. La sera dopo sono salito sul palco con la gola enorme e totalmente fradicio di sudore. Però stavo ancora in piedi, dai.
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