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Lino Capra Vaccina è quello che un giornalista pigro definirebbe “una figura di culto”. Si è fatto conoscere dapprima con gli Aktuala, storica formazione milanese che negli anni Settanta ha fatto incontrare il rock psichedelico con la musica africana e asiatica, poi da solista e con mille collaborazioni, le principali quelle con Franco Battiato e Juri Camisasca, amici e compagni di una vita—come anche Claudio Rocchi.
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Nella nostra chiacchierata, che trovate qui sotto, mi racconta in maniera approfondita della sua carriera, ma per presentare quest’uomo a chi non lo conoscesse mi sento in dovere di citare il suo esordio solista Antico Adagio, pubblicato originariamente nel 1978. Toccante e originalissimo mix di minimalismo e suoni orientali, con la spiritualità della musica sacra e la libertà di certo jazz, venne ristampato una prima volta solo in CD nel 1993, salvo poi vivere una seconda giovinezza e destare interesse anche a livello internazionale (amplificata dall’arrivo di internet e degli mp3 blog) nei circuiti degli appassionati di psichedelia e prog italiano, dei cercatori di rarità, dei collezionisti, tanto che, nel 2014, Antico Adagio viene ristampato sulla benemerita etichetta milanese Die Schachtel per la gioia di tutti gli appassionati. Tra questi appassionati c’è anche Four Tet, che nelle note di copertina scrive: “Ci sono dischi che ho trovato nella mia vita che quasi speravo esistessero ancora prima di ascoltarli. Dischi con nuove combinazioni di suono e atmosfera che sapevo avrei amato, se mai li avessi trovati, e che poi si sono rivelati anche migliori di quanto potessi immaginare”.
Proprio provando a lavorare oggi su alcune delle idee che stavano dietro a Antico Adagio, è appena uscito per l’etichetta Dark Companion il nuovo album Arcaico Armonico, che arriva a interrompere un silenzio discografico che durava dal 1998. Qui potete ascoltarne due estratti da un minuto.
Incontro un disponibilissimo Lino in un pomeriggio autunnale alla Civica Scuola di Musica (dove da venticinque anni insegna percussioni, canto corale, teoria e cultura musicale) per una lunga chiaccherata sulla sua vita, la musica e il mondo che ha attraversato.
Partirei proprio dall’inizio. Non sei nato a Milano, giusto? E il soprannome Capra come nasce?
Si tratta di un cognome della famiglia di mia nonna materna, l’ho adottato come nome d’arte già prima degli Aktuala, poi con loro è diventato ufficiale. Anche alla SIAE sono iscritto come Lino Capra Vaccina. Sono nato nel 1953 a Barletta, però all’età di cinque anni sono venuto a Milano con i miei.
Che cosa facevano? Come mai siete venuti a Milano?
Mio padre giù aveva un bellissimo posto come operaio, e guadagnava bene in una grande azienda multinazionale italiana, che ai tempi si chiamava Montecatini e poi è diventata Montedison. E quindi ci avevano dato anche la casa, una bellissima villetta vicino al mare. Insomma, stavamo bene. Poi è successo che mia sorella si è sposata con un uomo che viveva a Milano, e quindi, sai, con questa mentalità un po’ se vogliamo meridionale, mia madre voleva stare vicino alla figlia. Io ho due sorelle maggiori e un fratello maggiore, siamo in quattro. Mio padre non ne voleva sapere di spostarsi, giustamente, perché stavamo benissimo, però mia madre ha insistito tanto.
Quindi poi tu hai fatto tutti gli studi a Milano e sei a tutti gli effetti cresciuto a Milano.
Sì.
Quali sono stati i primi approcci con la musica?
I primi approcci con la musica sono stati direi molto precoci. Essendo mio padre un grande appassionato di musica, strimpellava anche la chitarra, succedeva che in questa casa giù, almeno una volta a settimana o ogni quindici giorni, i miei davano non proprio delle feste, ma c’erano i parenti che arrivavano e si sedevano, e si banchettava. E poi si finiva a ballare. Si univano anche alcuni del vicinato che non avevano tecnologie: mio padre è stato uno dei primi ad avere la radio giradischi, che era un un qualcosa di straordinario per l’epoca. E oltre ad avere il grammofono aveva anche tutta una serie di dischi in vinile.
Lui amava molto la canzone napoletana, quella pura tipo Murolo, queste cose qua. Era un grande sfegatato di Modugno, gli piaceva tantissimo. Il primo flash lo devo far risalire proprio a questo: ero in bicicletta con mio padre, ricordo appunto avrò avuto neanche cinque anni, e passammo davanti al teatro di Barletta. C’era un sacco di gente fuori e chiesi a mio padre: “che cosa sta succedendo qua?” “aspetta, aspetta guarda chi sta arrivando…”, mi dice, “figlio mio, guarda: quello lì è Domenico Modugno”. Stava venendo a suonare in piena epoca del successo di “Nel blu dipinto di blu”. E mi ricordo che questa frase mi è rimasta sempre in mente, insomma.
Poi durante le feste col tempo ho notato che mi affascinava molto la musica, rimanevo magneticamente attratto da queste musiche, prevalentemente erano ballabili, di tipo strumentale, tipo valzer.
Poi da autodidatta a dieci anni ho cominciato ad aver voglia di sentire un po’ i dischi di mio fratello e delle mie sorelle, e un po’ la radio, perché la radio per me è stata praticamente il primo Internet. E così poi ho sentito la necessità di incominciare a suonare, e avevo questo amico con cui facevo le medie, lui strimpellava la chitarra e io mi dedicai alla batteria. Con i pochi risparmi settimanali che mettevo via, dopo un paio di settimane o tre, con una ventina o trentina di mila lire riuscii a trovare una batteria racimolata, proprio l’essenziale: charleston, piatto… E iniziammo così.
Io avevo la fortuna di avere una stanza tutta mia dove potevo suonare—dopo un paio di anni mia madre non ne poteva più di sentire strimpellare ovviamente, mio padre invece vedeva che la mia caparbietà da autodidatta andava avanti e imparavo: mettevo su i dischi e ci andavo dietro, insomma le solite cose.
A un certo momento abbiamo fatto questo gruppetto e dissi a mio padre: “guarda che ho bisogno di uno strumento vero” e questo si butta alla disperata e fa due milioni di cambiali all’epoca e mi compra strumenti, impianto voce con le casse, i quattro microfoni… E insomma mettiamo su ‘sta band e iniziamo, dopo pochissimo tempo avevamo un sacco di pezzi in repertorio.
Ma quanti anni avevi?
Quindici.
Ah, cavoli.
Quindici anni, finite le medie, e iniziammo. Mio fratello ci fece un po’ da impresario e ci trovò qualche locale in giro qua a Milano.
E cosa suonavate? Rock’n’roll? Blues?
Suonavamo rock, sì, rock-blues: Doors, Zeppelin, Jimi Hendrix, Animals, Creedence, Canned Heat… Roba italiana non mi ricordo proprio niente.
Come si chiamava questa band?
Ci chiamavamo i Presents.
Non avete mai registrato niente però.
No, no, anche perché all’epoca non era facile. Giusto qualche cassetta.
Lino a Macao.
Ma suonavate solo cover o anche pezzi vostri?
No, solo cover. Però questo è il punto: man mano che andavo avanti, ovviamente la tecnica si affinava. Il mio amico chitarrista anche lui aveva imparato, andando da un maestro, e anch’io sono andato poi da un maestro dopo qualche anno. Lui aveva imparato anche la chitarra classica e quindi potevamo fare anche brani un po’ più complicati. E in privato noi due abbiamo incominciato a strimpellare, a pensare a qualcosa di diverso, e venivano fuori delle cose nostre. Lui poi divenne chitarrista degli Aktuala.
Chi era?
Antonio Cerantola. Frequentavamo al sabato spesso la Ricordi e le Messaggerie, che erano gli unici punti dove potevi trovare dischi particolari, e alla Ricordi incontriamo Walter [Maioli] che faceva il commesso, come ben saprai, e lì incomincia la nosta amicizia e iniziamo a pensare a un gruppo. Facciamo in un primo momento io e Walter senza Antonio una band di rock blues con brani sia di Mayall e qualche cover, sia però anche brani nostri. Due o tre mesi dopo io e Walter ci stanchiamo di ‘sta cosa, volevamo creare qualcosa di particolare, di diverso dalla solita band e lì nascono le radici degli Aktuala.
Qui avevate diciotto, vent’anni?
Io avevo diciott’anni, Walter più grande di me di un tre o quattro anni quindi aveva ventun’anni. E chiamai Antonio Cerantola e gli proposi di usare la chitarra classica, la balalaika, il bouzouki, corde un po’ particolari..
Perché nel frattempo quindi anche i tuoi ascolti erano andati verso cose più particolari.
Assolutamente, già poco prima di incontrare Walter. Mi ci ero ritrovato anche perché io andavo molto a intuizione, vedevo le copertine che più o meno mi intrippavano e me li portavo a casa.
Come si passa dal rock-blues a una cosa come il primo disco degli Aktuala?
Sono sempre stato interessato alle musiche africane e orientali, le scoperte di queste musiche sono arrivate attraverso i dischi della psichedelia e dal free jazz. Per psichedelia e free jazz intendo i primissimi periodi, quindi ’67/’71, poi nel ’72 ho fondato con Walter gli Aktuala, continuando a studiare e approfondire la musica etnica e non solo. In particolare, una collana chiamata Unesco pubblicava musiche tradizionali dei cinque continenti, ne possiedo ancora oggi più di cinquanta dischi.
Un ragazzo di 18 anni negli anni Settanta a Milano come trovava certi dischi? Dove li comprava? Alla Ricordi?
Ricordi in galleria del Duomo, Buscemi in corso Magenta, Messaggerie Musicali, e Carù di Gallarate. In questi negozi ci andavo ogni settimana e passavo ore a cercare dischi con curiosità, intuizione, passione. Gli ascolti partirono subito abbastanza repentini. A me a dir la verità di tutta la dimensione rock i due fondamentali che mi hanno completamente sconvolto sono stati Jimi Hendrix e i Pink Floyd ovviamente, i primissimi però.
Quelli con Syd Barret.
Esattamente, e poi Atom Heart Mother tra quelli più avanti. Ma nel frattempo scoprivo anche Roland Kirk, Archie Shepp, poi quella band con influenze africane…
La Third Ear Band?
Nooo, quella poco dopo. Prima c’erano… tutti truccati, americani, famosi, sempre nell’ambito del free jazz…
Gli Art Ensemble of Chicago!
Gli Art Ensemble, bravo! Charles Lloyd… insomma tutti ascolti un po’ particolari.
Sì, quindi già prima dei vent’anni comunque gli ascolti erano andati da queste parti: verso il free jazz, la psichedelia spinta, la musica etnica.
Sì sì, la psichedelia soprattutto, esattamente. E poi la musica etnica un casino: i primi dischi di musica africana, musica di Giava e mediorientale. Quelli son stati gli ascolti, e con questi ascolti son passato immediatamente alle percussioni, alla ricerca sonora percussive, allo studio della musica e delle percussioni africane e orientali, in particolar modo indiane.
Che poi fondamentalmente quello che facevano gli Aktuala era mescolare un po’ queste sonorità.
Esatto, avendo tutti e due un po’ questo background similare. Perché anche nel rock-blues c’è stata la stessa “On the road again”, che è un brano che se lo ascolti, con questo tampura sotto, ha questa ripetitività, questo centro di gravità timbrico e sonoro, insomma è un qualcosa già di per sé che guarda altrove.
E poi via via Jon Hassell, la Third Ear Band e tanti altri. A quel punto ero già più cosciente di cosa andavo ad ascoltare, perché conoscevo la materia, e quindi era più un “ah, siamo sulla stessa onda” non tanto un andare a scoprire, ormai. Andavo a crogiolarmi del fatto che “cazzo, guarda che roba, con questi qua siamo in sintonia pur essendo a migliaia di chilometri di distanza”. E questo ci dava molto piacere e molto conforto ovviamente, e ci convinceva ancora di più che la strada era quella giusta.
Inizialmente cominciammo come trio: io, Walter e Antonio, e abbiamo cominciato subito a fare dei concerti perché immediatamente abbiamo trovato una dimensione molto buona e un’ottima intesa, grande spessore sonoro, un bel sound, abbiamo immediatamente centrato la cosa. C’era questo locale famoso a Milano, Jazz Power, che era un po’ il locale a cui si ispira oggi il Blue Note. Era molto importante, venivano tutti i grandi musicisti free jazz internazionali, soprattutto francesi. Perché molti anche americani si erano spostati in Francia, in quegli anni, con la Actuel, quell’etichetta molto importante.
Abbiamo fatto qualche concerto, poi successivamente si sono uniti Cavallanti [Daniele, sax] e la Laura [Maioli]. Poi ci si frequentava un po’ con Claudio [Rocchi], con Mino Di Martino, e soprattutto con Franco [Battiato]. Poi Franco ci ha presentati alla Bla Bla [la sua e poi la loro etichetta], e lì è nato il nostro rapporto, dopo cinque o sei mesi neanche.
(Il primo album degli Aktuala, su Bla Bla)
Ma Battiato come lo conoscevate? Lo incontravate ai concerti?
Sì, lo abbiamo conosciuto a dei concerti, tramite Mino Di Martino, loro erano molto amici. Mino gli dice “Franco, devo presentarti un gruppo”, e siamo andati a sentirlo al Tricheco. Lui faceva Foetus, all’epoca, e ci siamo incontrati. Poi è venuto una sera lì alla casa che avevamo noi in Ripamonti…
Parliamo anche di questo, che è molto importante, e rappresentativo anche dell’epoca.
Dopo che abbiamo iniziato la nostra amicizia con Walter, per solidificare questa cosa, per renderla ancora più concreta e per essere tutti in sintonia, si è pensato di andare a vivere insieme. Lui aveva questa bellissima villa a due piani, un piano c’era un altro musicista e l’altro era nostro, con questa bella terrazza sopra e sotto una grande cantina. Una cava più che una cantina, ci stavano sessanta persone. E ne avevamo fatto un po’ il nostro centro.
Una comune, un’esperienza di vita in comune.
Sì, abbiamo iniziato io, Walter e Antonio come esperienza di vita, Daniele non ha mai vissuto lì.
Quanto ci avete vissuto voi?
Io due anni. È nato tutto da questo nostro stare insieme, poi quando sono andato via io Walter l’ha allargata, ma inizialmente stavamo solo noi tre lì. Poi durante le giornate e le nottate c’era un viavai continuo di musicisti, jam session all’infinito… Però fondamentalmente ci stavamo noi tre. Poi quando sono andato via io, Walter ha allargato un po’ la cosa, finché poi si è trasferito in Toscana.
C’era anche in questo ambito una sperimentazione di alterazione della coscienza, sperimentazione con le droghe?
Walter non ne faceva uso, da quello che so ha cominciato dopo, io e Antonio sì, facevamo uso di hashish e anche qualche esperienza di tipo lisergico l’ho fatta. Ma sempre in funzione del fare musica. La partenza è stata dalla musica, che in qualche modo muoveva in me queste frequenze, queste vibrazioni sonore che mi accompagnavano anche quando non suonavo. Le ho sentite in me fin da giovane età, questo mistero, questa spiritualità sonora.
E lo scopo era quello di riprodurre questa cosa per cercare di creare un rituale sonoro magico, alchemico. E quindi è chiaro che la dimensione psichedelica era quella più congeniale. Infatti spesso dico che più che accostarci al prog come siamo stati accostati tante volte, penso che siamo stati più psichedelici. Anche se queste definizioni sai benissimo che lasciano il tempo che trovano.
Quella era anche probabilmente una Milano in qualche modo pronta ad accogliere quel tipo di proposta. Come ambiente, come società, come movimenti giovanili.Assolutamente. Era fantastica. Ma devo dire anche un po’ in tutta Italia trovavamo questa condivisione immediata e totale, al di là della conoscenza: arrivavamo in posti dove non conoscevamo nessuno, e il giorno dopo c’erano cento persone che ti seguivano, “venite da noi, vi ospitiamo noi”, e scambi culturali… Era una Milano molto viva. Il centro di gravità era Brera: era un luogo pazzesco, noi andavamo in Brera proprio tutte le sere, inevitabilmente si usciva. Poi si tornava lì in villa per finire la serata suonando e facendo i fatti nostri. Ma un po’ tutta Milano: il Castello, gallerie che organizzavano eventi, centri culturali. Mi ricordo una nostra esibizione sempre in trio al Centro Culturale Francese, pensa te. Neanche li conoscevamo, niente. Siamo andati lì, avevano questa bellissima sala, un centinaio di posti, un bel palco, non mi ricordo chi ce l’ha fatta scoprire. Ci proponiamo e loro “sì, sì volentieri! Facciamo noi la locandina”, e han fatto questa serata che ne han parlato poi addirittura il Corriere e l’Unità. Fino poi a arrivare al Teatro Uomo, ai famosi festival di Re Nudo, i primissimi, prima di parco Lambro, ne avevano fatti altri due.
Dov’erano?
A Ballabio uno e l’altro all’Alpe del Vicerè.
E al parco Lambro hai suonato?
Sì, ho suonato io da solo, nel ’76 e anche nel ’75, da solo con le basi e già i brani di Antico Adagio. E contemporaneamente sempre al parco Lambro ho suonato sia con Camisasca che con Battiato.
Ma era già Telaio Magnetico quello?
No, poco prima. Subito dopo gli Aktuala io inizio il mio percorso di ricerca sonora…
Una piccola digressione: tu lasci gli Aktuala ma loro poi hanno fatto altri due dischi, La Terra e Tappeto Volante.
Secondo me, devo dirlo, senza paura di essere sconfessato in questo, gli Aktuala sono il primo disco, punto. La Terra ancora mantiene un minimo di questa cosa, anche se l’oleografia da viaggio di turismo orientale grazie alle tabla di Trilok Gurtu è già innescata, mentre Tappeto Volante, fatto con le cassette in viaggio in Marocco da lui [Walter Maioli] e Daniele, è una cosa inascoltabile secondo me. Da un punto di vista creativo, compositivo e innovativo. Il primo album invece ancora oggi non a caso è quello per il quale c’è più interesse. Perché veramente corrisponde alla ricerca vera, all’essenza degli Aktuala. Detto questo, sì, loro sono andati avanti e io invece ho cominciato a fare la mia ricerca.
Ma come mai hai deciso di uscire? Una cosa personale?
Sì, era semplicemente perché mi andava stretto ormai quel tipo di linguaggio sonoro limitato solo a questa dimensione, e stava diventando sempre più incensi, candele eccetera, che mi avevano un po’ stufato. Era il tipo di linguaggio che mi andava stretto.
Se ti capita riascolta l’ultimo brano del disco, e sentirai che ci sono dei piccoli effetti fatti da me con lo xilofono, riverbero… Quello è un brano totalmente mio, che è significativo del perché ho deciso di andare via. Perché con loro questo tipo di ricerca era un po’ tagliata fuori. Anche il discorso free l’avevo in qualche modo superato (per quanto io sono uno che ama tantissimo la free form, la uso ancora oggi, l’hai notato anche ai concerti), quella filo-americana tipica, datata, non mi interessava già più già allora nel ’72, figuriamoci dopo.
E quindi niente, li ho lasciati. Senza litigi, solo non mi trovavo più a mio agio da un punto di vista di ricerca sonora, avevo bisogno di ricercare altre cose dal punto di vista individuale, e infatti lì è iniziato il mio percorso.
Appena uscito, Juri [Camisasca] mi ha chiamato per il suo disco [La Finestra Dentro], e abbiamo iniziato a suonarlo in giro, in duo: lui chitarra e voce e io con le mie percussioni. Abbiamo fatto un sacco di date.
Contemporaneamente Franco anche lui aveva deciso di mollare la band di Pollution, e andava in giro da solo col VCS e l’organo Farfisa smontato e accordato a modo suo, ovviamente sull’onda dei Popol Vuh, se vogliamo; ma è stata una cosa molto nostra anche perché abbiamo incominciato a frequentarci molto, sia con Franco che con Juri. Alla sera ci si trovava a suonare, a ricercare un po’ di mondi sonori possibili, secondo il nostro criterio di ricerca. Così succedeva che mi ritrovavo a fare delle serate come una tournée in Sardegna che abbiamo fatto io, Claudio Rocchi e Battiato. Aprivo io da solo con le mie cose, poi arrivava Claudio, e poi suonavo con Franco in duo.
Addirittura in duo con Franco siamo finiti a fare una tournée in Francia e in Olanda aprendo i concerti di Nico, poco prima che morisse. Con l’harmonium lei, noi in duo.
Era con John Cale?
Sì, ma lui suonava da solo con la sua band, prima, non con lei. C’eravamo noi due, poi John Cale, e poi arrivava Nico alla fine.
Che seratina.
Bataclan di Parigi, duemila persone. Una roba impressionante, pelle d’oca veramente ancora adesso quando ci penso. Quindi capisci, se ci pensi adesso, alla luce di queste cose, mi aspettavano dei mondi che non avrei vissuto con gli Aktuala. Poi Walter, insomma, era abbastanza geloso, giustamente. Dopo si è aperto a questo concetto comunitario nel fare musica, però all’inizio era molto geloso della nostra band, come lo ero io e come lo era Antonio. Quindi non avrei mai potuto fare quello che ho fatto con Franco e con Juri, rimanendo nella band.
È qua che nasce il Telaio Magnetico.
Esatto, dopo queste esperienze nasce il Telaio Magnetico. Ci si ritrovava appunto con Franco e Juri, “ci piacerebbe fare un gruppo fuori da ogni schema, che faccia solo musica di ricerca, come facciamo? Chi potremmo coinvolgere?”. Ci pensiamo alcuni giorni, all’inizio vocalmente volevamo una voce femminile molto particolare, per quella maschile avevamo già quella di Juri che andava benissimo. Inizialmente pensammo a Jenny Sorrenti, la sorella di Alan. Lei faceva musica con i Saint Just.
Dopodiché parlando con Mino [Di Martino], che faceva queste cose un po’ stralunate, con l’organo Farfisa, pensiamo di tirarlo dentro. Mino a quell’epoca stava con Terra Di Benedetto, e quindi ecco la voce femminile. Io e Juri nel frattempo avevamo cominciato a suonare con Roberto Mazza, tiriamo dentro anche lui e formiamo il Telaio Magnetico.
Che è durato una tournée, più o meno?
È durato una tournée che viene sempre definita “in Sicilia”, ma invece abbiamo suonato a Roma, a Napoli, a Reggio Calabria, a Bari e in Sicilia.
In tutto il gruppo è durato più o meno un anno, e quest’anno fa il quarantesimo, era il ’75. Durante questo breve tour per fortuna, alla fine di qualche serata, gente del pubblico veniva e diceva “abbiamo registrato con la bobina”, io: “me la daresti?” “sì, certo”, e io da buon archivista, metodico (c’ho la casa piena di roba, di dischi e di nastri) li avevo messi via. Per fortuna. Perché poi nel ’95, quando la Musicando mi ha chiesto di ristampare Antico Adagio, mi ha chiesto se avevo delle cose del Telaio e io ho detto “sì ho dei nastri di un paio di date” e loro felicissimi ovviamente, han fatto i salti di gioia. Ce li ho ancora adesso io questi nastri, e abbiamo avuto la fortuna di pubblicarli perché altrimenti non sarebbe rimasto neanche un ricordo.
Hai altri tesori nascosti? Registrazioni con Battiato, con Juri?
Con Franco ho qualcosa, con Juri anche. Però quelli mi sa che non se ne parla. Avevo, come si è potuto notare con la ristampa di Antico Adagio, registrazioni che avevo fatto in più, perché all’epoca con Massimo Villa si pensava di fare un doppio, inizialmente. Poi dopo, per via dell’aspetto economico, all’inizio ce lo siamo autoprodotti, e dopo un anno abbiamo trovato la Sciascia Editore che lo ha ristampato, per fortuna. E quindi quel materiale è rimasto lì, e meno male che ce l’avevo.
Quello di Franco sarà difficilissimo. Quello con Claudio [Rocchi] ce l’aveva lui, perché spesso ci si ritrovava a casa sua la sera, qui in viale Campania dove abitava in un bellissimo superattico, dormivo anche lì, si stava lì insieme tutta la notte, si suonava… Il materiale ce l’aveva lui, quindi adesso dopo la sua morte non so, non ho idea.
Con Battiato sei ancora in contatto?
Sì, sì, certo. Gli ho fatto arrivare anche il disco nuovo, è molto contento.
Con Juri ci siamo rivisti ultimamente, ha partecipato al disco nuovo, ha fatto una cosa veramente splendida. Era un po’ che non lo sentivo, musicalmente, e sta invecchiando davvero bene, come il buon vino. Avevo sentito qualcosa qualche anno fa ma sempre in forma di canzone, non in forma libera come piace a me usare la sua voce. E mi ha fatto un regalo straordinario.
Quindi, tornando a noi, arriviamo più o meno a Antico Adagio, adesso.
Esattamente. Io portavo avanti le mie composizioni, le mie ricerche sonore, facevo qualche concerto tra cui quella bellissima rassegna alla Villa Reale di Monza, L’evoluzione interiore dell’uomo: abbiamo suonato io, Franco con Giusto Pio, Juri con l’harmonium, Zitello e Mazza, Messina e Lovisoni, e Demetrio Stratos da solo, che aveva iniziato il percorso di Cantare la voce. È stato il suo ultimo concerto. È un peccato che non ci sia nessun documento di quello, è stata una grossa fesseria non registrare, sono state serate straordinarie.
Nel ’76 ho iniziato a pensare di pubblicare Antico Adagio, avevo già pronte le musiche. C’era la Produttori Associati, è stata un’etichetta piccola ma importante, è stata la prima casa discografica di Fabrizio De Andrè e di altre cose interessanti, e c’era questo Claudio Fabi, il padre del cantante. Era un grande produttore. Gli piaceva molto quello che facevo, gli Aktuala, le cose con Franco, e mi dice “dai, proponiamolo”, e lo propone al boss della Produttori Associati. Che mi invita in questo ufficio della Madonna vicino alla Stazione Centrale: “lo voglio sentire subito”. Sono andato con la bobina, i nastri definitivi. Perché avevo trovato questi due tecnici fantastici che avevano detto “va beh, poi quando la cosa andrà in porto ci pagherai, noi lo vogliamo fare perché ci piace la tua musica”, pensa che persone che c’erano, tornando al discorso degli anni ’70 a Milano: questi avevano uno studio della Madonna e si sono innamorati e mi hanno dato la possibilità di registrare.
Mettiamo su la bobina, questo si mette lì ad ascoltarlo, finisce e fa: “fantastico, bellissimo”. Io mentre ascoltava pensavo “questo dirà che cazzo è ‘sta roba”. Invece dice “va bene, lo facciamo, sono felicissimo”. Prende il libretto degli assegni, mi stacca un assegno all’epoca di due milioni, io non ci stavo credendo.
Passano tre mesi e non sento più nessuno, a un certo punto mi chiama Fabi, appunto, disperato: “guarda Lino non so come dirtelo, mi devi scusare, la Produttori Associati è fallita”. “Minchia che fortuna che c’ho”.
Gli chiedo cosa devo fare per quei due milioni, io ovviamente li avevo usati, mi servivano per campare. All’epoca non insegnavo neanche. “No, no ha detto il boss assolutamente non vuole una lira anzi si scusa tantissimo, e se riuscite a mettere in piedi qualcosa sarebbe il primo a comprarlo”.
Da un lato eravamo dispiaciuti, ma dall’altro li ringraziammo, e allora a quel punto io e Massimo Villa abbiamo deciso di autoprodurlo e stamparcelo.
E ti dico la verità che è andata benissimo, perché abbiamo cominciato a prendere contatti con i negozi più importanti di Milano tipo Buscemi, Carù a Gallarate che era importantissimo, Psycho, poi anche a Genova, a Napoli, a Roma. A Roma addirittura mi hanno detto che Alvin Curran andava in giro con i suoi dischi e anche con il mio, a proporre ai negozi di tenerlo lì in conto vendita!
Chiamavamo i negozi, senza nessuna fatica, “sì sì speditemeli subito, dieci copie, quindici copie”: Venezia, Bologna…
Alla fine praticamente dopo sei mesi non ne avevo più, di mille che ne avevamo stampate.
È lì che poi decidiamo di trovare qualcuno che perlomeno ce lo distribuisse, perché molta gente mi chiamava e mi diceva “non si trova ‘sto cazzo di disco”. E allora Massimo dice “conosco questi a Rozzano, la Sciascia Editori”, che poi il proprietario, che era un grande produttore, era il fratello di Sciascia lo scrittore. Stampavano dischi di etichette un po’ minori, però importanti. I Dischi Del Sole…
Giovanna Marini? Quelle cose lì?
Sì, queste cose un po’ particolari. Questo, sulla scia del fatto che gli abbiamo parlato degli Aktuala, che a lui piacevano, e di tutto quell’ambiente dice “fantastico, lo distribuisco io assolutamente”. Facciamo la copertina nuova: il davanti uguale, sul retro nella seconda ci sono le note di copertina di Mauro Radice, e c’è qualche foto in più. Infatti hanno anche delle valutazioni leggermente diverse: il primo in assoluto ho sentito l’altro giorno un amico giornalista di Bologna, Gino Dal Soler, che mi chiedeva del nuovo disco, e mi diceva che è andato alla Fiera Del Disco a Bologna e ha trovato la seconda edizione a 350 euro. La prima da quello che so io va sui 400. Nonostante le ristampe eh, sia quella Die Schachtel che quella della Musicando, che anche quella ormai è esaurita.
Lui ci stampa duemila copie. E pian piano le ha vendute tutte. E per fortuna, così il disco si poteva trovare un po’ più facilmente. L’ho presentato in varie situazioni, vari festival di avanguardia, ha avuto un ottimo riscontro. Anche senza un vero successo commerciale ha comunque creato, sia a livello di stampa che di pubblico, un bel po’ di rumore.
Quando invece, parlando del suo aspetto artistico, è un disco dove è molto importante il silenzio.
Assolutamente. Quella ricerca sonora di cui ti parlavo, nata già prima degli Aktuala, e poi sviluppata con loro, l’ho approfondita e espressa maggiormente. Perché è inevitabile che quando tu dalla musica passi al suono, come artista, il passo successivo al suono qual è? La musica nasce dal suono, e il suono nasce?
Dal silenzio.
E quindi era inevitabile che approdassi a una dimensione sonora piena di silenzi. Che ancora oggi devo dire in qualche modo porto con me. Perché è fondamentale, anche nella partenza del mio concepimento creativo parto assolutamente dal silenzio.
È per quello che penso di riuscire anche a creare una sonorità e dei linguaggi piuttosto originali nella mia musica, proprio perché partendo dal silenzio tu non hai più nessun riferimento, nonostante tutti gli studi che uno fa, eccetera.
Perché poi devi tenere conto che lasciati gli Aktuala mi sono buttato nell’apprendimento e lo studio della musica accademica, quindi mi sono diplomato in percussione e composizione, proprio qui in Civica. Ho suonato otto anni nell’orchestra della Scala nel frattempo, e quindi capisci che tutto questo bagaglio è una roba non facile da abbandonare, quando devo creare, quando devo comporre, quando devo inventare. Perché spesso nella fruizione sonora si crea a nostra insaputa un’attesa, un’attesa del sentito. Inconscia, ma c’è. Che cosa fa questa attesa del sentito? Ti crea delle aspettative, e finisci per andare per analogie. Senti una vibrazione che in qualche modo ti smuove qualcosa, e poi vai da lì. Un po’ come accade nella forma canzone, che spesso la musica non te la ricordi, ti ricordi le parole perché dicono cose tipo “amore mio, io e te, sotto la luna, quella notte” e così uno si identifica, e dice “che bella canzone!”
Quindi, ti ripeto, per me è importante la dimensione del silenzio. Interiore e anche esteriore là dove posso, nonostante viva in una città come Milano da sempre. Cerco di fare una pulizia interiore, per me la musica è sempre stata una possibilità per migliorarmi, per evolvermi interiormente e questo in qualche modo si lega anche a perché ho lasciato gli Aktuala. Perché la dimensione era diventata troppo quella di una festa paesana. Senza offesa eh, però quello che hanno fatto dopo di me non l’avrei potuto condividere, perché il rituale sonoro per me è una cosa molto seria e molto importante.
Parlando di Antico Adagio, potremmo fare un salto molto avanti arrivando a questa diciamo “riscoperta” del disco, abbastanza recente. Credo che forse una prima (oltre alla ristampa su Musicando di cui parlavamo già prima) nuova fortuna Antico Adagio l’ha trovata grazie a blog musicali anche americani come Mutant Sounds (citato anche da Four Tet nelle note della ristampa), che hanno attenzione per le musiche psichedeliche italiane e hanno riscoperto questa gemma perduta.
Assolutamente, direi proprio di sì. Questo già prima di Die Schachtel. Già da un bel po’ di anni. In questo senso devo dire che questa tecnologia, beh, ben venga. Il fatto che mi entusiasma ancora di più è che un linguaggio come il mio così arcaico, così se vogliamo antico, viene in qualche modo riassorbito da una tecnologia moderna. Questo è il lato positivo che cerco anche quando faccio lezione di far capire, l’importanza dell’utilizzo di questo mezzo che può essere molto utile per andare a scoprire quello che magari noi facevamo con libri, riviste e ascolti: farsi aprire mondi sonori. Antico Adagio è posseduto da anni in America, in Inghilterra, in Germania, Giappone… A mia insaputa, l’ho saputo solo dopo. Si era mosso da solo, ho scoperto…
Che la tua creatura nel frattempo…
Era diventata adulta e girava il mondo!
Immagino che faccia anche piacere che a seguito della ristampa su Die Schachtel hai potuto suonare al Dal Verme di Roma, allo spazio O’, a Macao… Quindi incontrando anche un pubblico nuovo, magari abbastanza giovane.
Esatto. Già immediatamente appena hanno saputo la notizia dell’uscita su Die Schachtel, i primi fra tutti sono stati i ragazzi di Roma del Dal Verme, che sono stati eccezionali. Tramite Antonio Ciarletta di Ondarock mi hanno fatto il filo, perché io inizialmente quando ho visto questa richiesta, a neanche un mese dall’uscita, ho guardato un po’ questo locale che cosa combinava… e allora scrivo a Antonio e gli dico: “ma questi son sicuri che vogliono che io vada a suonare lì? boh mi sembra un po’ strano, ma sanno cosa aspettarsi o pensano che io vado lì e smanetto i dischi, non so?” “ma no, ma scherzi Lino? Ti reputano quasi un padre putativo di tutta la faccenda, di tutta la loro ideologia”, poi a ruota insisteva Toni Cutrone [Mai Mai Mai, NdR], e tutti loro, la Claudia… Mi stavano addosso e alla fine ho detto “ma sì oh, proviamoci, perché no?”.
E infatti è andata benissimo. Ho suonato alle 10 ma poi ho fatto tardi perché il pubblico è venuto su al bar a parlarmi, a voler sapere, fino alle tre di notte… non me la sentivo di andarmene e finivo con uno e mi veniva a parlare un altro. Anche Toni Cutrone era shoccato. Poi la mattina dopo alle 9 e mezza ero già in piedi perché non riuscivo a dormire.
È stato molto bello, c’è stata una grande attenzione, una serata straordinaria.
E poi a ruota ho fatto Pescara, questo bellissimo festival che fanno a Città Sant’Angelo, Museolaboratorio, un’iniziativa molto bella con Valerio Cosi il giorno prima, e poi c’era anche Giancarlo Schiaffini. Poi appunto Macao, lo spazio O’…
Fabio [Carboni, di Die Schachtel e Spazio O’] me l’aveva già proposto prima ancora che uscisse il disco “devi suonare da noi”, gli dico che Antico Adagio non è un disco facile da portare dal vivo, ci vorrebbero almeno cinque o sei musicisti, però poi va beh ci organizziamo. Mi chiedono di suonare a maggio, ma a maggio ho già fissato la data con Macao, allora facciamo a giugno. “Il mese dopo? Ma siete sicuri?” Io ero preoccupato…
Invece sono andate bene tutte e due.
Ci sono rimasto: duecentocinquanta persone di qua e duecentocinquanta di là, più o meno. In un mese. Roba da non credere.
La cosa bella della ristampa è stata proprio questa: il fatto che ho riagganciato questo rapporto con anche il pubblico di oggi. Perché devo dire la verità, Antico Adagio soffriva un po’ dello zoccolo duro dell’epoca anni Settanta, che io avevo notato. Però è un po’ di anni che sto lavorando per far comprendere ai più, come dice il produttore che mi ha stampato il nuovo disco, che vivo una vita attuale mia, faccio delle cose nuove interessanti ancora oggi. Che vanno fatte sentire, e grazie a questi live ho potuto riuscirci, e ho visto che c’è tutta una nuova leva, dei giovani che possono andare dai venti ai quarant’anni più o meno, chiamiamoli tutti giovani rispetto a me, che hanno una grande attenzione, conoscono benissimo il mio percorso e amano quello che faccio. Così ho potuto prima ancora di inciderlo sperimentare anche dal vivo questo nuovo disco, che tra live e composizione ha avuto una gestazione quindi di circa un anno.
Quindi possiamo tornare a dopo Antico Adagio, che cosa è successo? L’Attesa è venuto dopo molti anni.
Il contatto con Donnini l’ho avuto nel ’90. Dopo Antico Adagio per qualche anno ho portato avanti quello, che andava benissimo, ho fatto diversi concerti. Tra le altre cose due o tre anni dopo è stato scelto un brano, “Voce in XY”, dalla Rai per uno spot di Pubblicità Progresso che per un anno è andato su tutti e tre i canali.
Che ti ha dato anche un tranquillità economica, immagino.
Eh sì, con i diritti d’autore. Quando ho visto il primo assegno ho detto “meglio che li spenda subito perché secondo me si sono sbagliati”, e poi invece ho scoperto che c’era di mezzo la Rai, io non lo sapevo, me l’hanno detto: “ma sai che tutte le sere alle 8 c’è la Pubblicità Progresso con la tua musica?” “Ma non dire fesserie”.
Nel frattempo continuavo ancora qualche collaborazione con Franco.
Mondi Lontanissimi.
Bravo. Anche il video, un po’ di cose molto belle, ci si vedeva ancora molto spesso. E poi a partire più o meno dall’85/’86 ho cominciato a pensare a un seguito.
Oltre a Mondi Lontanissimi, negli anni hai partecipato come ospite in vari dischi.
La Finestra Dentro, come dicevamo, poi Vietato Ai Minori dei Jumbo, Capo Nord di Alice, Energie di Giuni Russo e Polli D’Allevamento di Giorgio Gaber. Sono state tutte esperienze interessanti e divertenti.
Di L’Attesa è prevista una ristampa? Anche quello ha raggiunto cifre folli.
Eh, è uscito solo in vinile. Quella è stata un po’ una pecca perché ora è introvabile, adesso sta venendo riscoperto un po’, pian piano. Non è stato molto diffuso anche perché era quel periodo tra la fine del vinile e l’inizio del cd, in cui il vinile non lo voleva più nessuno. È da un po’ che mi chiedono di ristamparlo, perché è un disco che piace molto, secondo me va riscoperto anche lui. Ci sono un paio di etichette che me l’hanno chiesto, vedremo.
Si sta parlando di ristampare anche il Telaio Magnetico. Con l’anno nuovo vedremo un po’.
Dicevamo: L’Attesa.
Preparo questo materiale e lì l’idea era quella di mantenere una certa ricerca sonora, però provare ad allargare un po’ dal punto di vista di un ensemble. E infatti ho cominciato a utilizzare altri strumenti, pochi ma li ho usati: come la tastiera, la chitarra semiacustica amplificata, ho recuperato un po’ di cose. In quel periodo intorno appunto all’89 mi chiama [Roberto] Donnini e mi dice “senti, sto facendo un disco e mi piacerebbe che partecipassi anche tu”, che è Fluxmar, al quale abbiamo partecipato in tanti, ci sono anche Centazzo, Schiaffini…
Hai visto che Centazzo suona a Macao tra poco?
Sì, sono contentissimo, è una bella conquista per loro. E sono molto contento di questo ritorno di Andrea in Italia, perché era tanto che non suonava, e merita molto, fa delle gran belle cose.
Dicevamo?
Partecipi al disco di Donnini.
Partecipo a questo disco di Donnini e lui mi chiede se ho qualcosa di pronto. Gli dico che sto lavorando a questo materiale nuovo che mi piacerebbe pubblicare, e lui mi dice che se voglio lo pubblichiamo con la Lynx.
Sono andato a registrare negli studi di Roberto Colombo, a Montevecchia.
Il Roberto Colombo di Sfogatevi bestie e produttore dei Matia Bazar?
Esattamente. È un vecchio amico, siamo amici dai primi anni Settanta. Lui mi dice di sì, volentieri, c’era anche Antonella [Ruggiero, sua moglie] durante le registrazioni. È registrato molto bene. Quindi con Donnini l’abbiamo pubblicato per la sua Lynx, e ho cominciato a presentarlo in pubblico, una serie di concerti negli anni successivi. È uscito nel ’92.
E più o meno parallelamente ormai in questi anni c’è anche il tuo lavoro come insegnante. Prima la parte di studio e anche l’orchestra della Scala, e poi l’insegnamento.
Esattamente.
Tu comunque hai sempre lavorato nella musica.
Sì, sempre. Un annetto dopo che mi sono diplomato ho cominciato già a insegnare, più o meno mentre facevo L’Attesa, ’91-’92 circa. Prima ero ancora nell’orchestra della Scala, poi ho cominciato l’insegnamento, che va avanti ancora oggi.
È una cosa che ti dà soddisfazione, ti piace? Oltre a dare un sostentamento economico.
Sì. Mi piace e mi ha permesso anche appunto di non dovere accettare condizioni musicali che non mi andava di accettare, che purtroppo tu sai che invece è quello che bisogna fare se si vuole vivere solo di musica.
Mi ha permesso di vivere non allontanandomi mai dalla musica. E mi piaceva l’idea di mettere una serpe in seno all’accademico.
Appunto mi chiedevo questo: mentre l’accademia è molto incentrata su regole, studio, disciplina, per te invece probabilmente è molto importante anche la libertà dell’artista…
Certamente. Ho avuto la fortuna già mentre studiavo di avere il mio insegnante di percussioni, un americano, una persona di larghe vedute, una mentalità aperta straordinaria, che mi ha fatto conoscere Stockhausen, Abbado…
Conoscere personalmente?
Sì, personalmente e poi suonandoci anche alla Scala.
Ok, perché sai che se io dico “conoscere” questi nomi intendo che me li hanno fatti ascoltare, tu intendi che ci hai suonato.
[Ride] No, no, Stockhausen lo ascoltavo già prima. L’ho conosciuto personalmente e ho suonato le sue musiche alla Scala, ci vedevamo quindi tutti i giorni. Lui, Penderecki, Luigi Nono con cui ho fatto Al gran sole carico d’amore, tanti lavori di musica contemporanea…
In quel periodo per fortuna anche nell’ambito accademico attraverso la musica contemporanea c’era una certa apertura alla forma libera, a una dimensione più aperta e aleatoria del fare musica, e quindi non ho avuto troppe difficoltà anche poi come docente a introdurre metodologie didattiche che utilizzavano sia un approccio che l’altro: come base davo la formazione “tradizionale”, e poi li portavo a conoscere tutto quello che era il mondo “altro” nel fare musica. Ovviamente li farcivo sempre di consigli di ascolto, davo notizie, e per questo molti allievi hanno avuto una passione nei miei confronti, perché hanno scoperto cose. Ci sono ancora oggi allievi di vent’anni fa che mi vengono a trovare dicendomi “sapessi quanto sei stato importante per il mio percorso”.
Tu appunto che cosa ascolti, cosa consigli?
Ho sempre ascoltato tantissimo di tutto, sono abbastanza onnivoro. Ovviamente una grande predilezione per la musica sperimentale e la musica classica.
Il jazz e il rock li ascoltavo soprattutto quando ero molto giovane. Due nomi per tutti, per i due generi, sono Don Cherry e i Pink Floyd. Ma la lista sarebbe lunghissima. Nell’elettronica Eliane Radigue, Pauline Oliveros, i Popol Vuh, Phill Niblock e tanti altri…
In tutto quello che ascoltavo mi interessava, ieri come oggi, che ci fosse ricerca, sperimentazione e originalità. Ho fatto un lungo periodo sulla musica etnica, e ancora ogni tanto la ascolto, però adesso prevalentemente sperimentale, e tantissima classica, che torna sempre, anche brani che conosco da anni, a volte me li riascolto, perché è una dimensione sana, che non perderò mai.
Nella sperimentale a volte ritorno su certe cose del passato che mi piacciono, altre invece ci sono anche molti tra virgolette giovani che mi piacciono. Per esempio Nils Frahm, Ólafur Arnalds… Comunque molta roba di oggi: ci sono tante cose davvero interessanti come ricerca sonora. Mi piace Max Richter, trovo molto bello quello che fa.
E poi i grandi. Ligeti ovviamente davanti a tutti, io lo amo all’infinito, per me rimane comunque subito dopo Stockhausen e insieme a John Cage, che adoro. Morton Feldman. Fino ai Rothko, per esempio.
Ancora ogni tanto ascolto lo stesso Stravinskij, anche Debussy: mi piacciono tantissimo, li adoro. E poi Mahler rimane comunque per me un punto fermo. Come lo stesso Chopin, ahimé, non da un punto di vista romantico, ma proprio di rarefazione sonora.
Arvo Pärt?
Certo. Mi piace veramente molto.
La musica è anche qualcosa che ti aiuta, nella vita, o a raggiungere uno stato di quiete, un’elevazione?
Sì. Un certo equilibrio, uno stato leggermente superiore per affrontare anche la vita quotidiana nel migliore dei modi, per superare anche certe mie se vogliamo ansie, non direi paure, ma potremmo anche definirle così. O più che paure certe malinconie che a volte mi sovrastano, tramite la musica riesco a farle diventare qualcosa di più interiore.
C’è anche un aspetto, secondo me, anche nei tuoi titoli, che richiama un po’ quasi a un’altra dimensione: le sfere, i pianeti, i cieli, lo spazio… questo si lega alla musica in qualche modo, no?
Esatto. Perché attraverso il suono si può in qualche modo, un po’ come in quel famoso libro di Jack London, Il vagabondo delle stelle, si può fare un’esperienza… Ho avuto modo tantissime volte di fare viaggi in qualche modo interstellari, diciamo così, o comunque viaggi fuori dal corpo nello spazio, perché sono convinto che l’origine delle cose e dell’essere derivi proprio da questa frequenza sonora cosmica, intrinseca all’origine proprio di tutto. Sicuramente i titoli sono molto rappresentativi della mia ricerca sonora.
Un’altra cosa è che già a partire dagli Aktuala c’è sempre stato un forte rapporto con i suoni di altre culture, però credo che ci voglia sempre una certa dose di rispetto nell’approcciarsi a queste cose, se no c’è sempre il rischio di avere un atteggiamento anche un po’ di vampirizzazione delle altre culture.
Esattamente, questo è uno dei motivi, bravo.
Quindi mi chiedevo quale deve essere l’atteggiamento giusto.
Noi da occidentali abbiamo un atteggiamento nella fruizione sonora, nell’esecuzione musicale, nell’interpretazione, molto ristretto, limitato. C’è un esempio che ti fa capire cosa intendo in modo sonoro molto chiaro: un anno fa, Eno con altri personaggi hanno preso una serie di musicisti dall’India, dall’Africa, dal Medio Oriente, e hanno fatto una versione di “In C”.
Di Terry Riley.
L’hai sentita? Si chiama Africa Express.
Sì.
Ecco, allora lì puoi capire. Quando ho sentito quella composizione la prima volta ho detto “ecco”. Quella versione è straordinaria a tal punto che penso che anche lo stesso Terry Riley che l’ha sentita sicuramente sarà felicissimo. Perché molto probabilmente era quello che lui aveva in mente, ed è riuscito a fare da occidentale in quella grandissima composizione che è “In C”, con i suoi strumenti. Ma all’origine c’è quella roba lì di questa Africa Express, che se guardi il video sembra che i musicisti ti dicano “volevate fare questo, per caso?”.
Ecco, l’intelligenza sta nel fatto che questo etnico sonoro lo devi far passare da te per poi riprodurlo attraverso la tua etnicità, che diventa un po’ se vogliamo metafisica. Solo così può avere un senso, altrimenti diventa olografica, diventa una cartolina, un qualcosa che tu scimmiotti, e il primo indiano che arriva ti fa due note e ti ammazza, ti fa fare la figura del cretino, giustamente. Quindi un atteggiamento innanzitutto molto serio, e molto più ancestrale, più metafisico nei confronti del ripescare.
La tua espressione sonora deve essere una rimembranza, una eco di quel mondo. È quello che ho sempre cercato di fare. E poi l’atteggiamento nell’esecuzione. Perché la cultura occidentale musicale è impregnata del virtuosismo, del concetto di virtuosismo, che risale a partire da Monteverdi in avanti, più o meno, e poi attraverso la voce: l’opera lirica ha ammazzato proprio tutto in questo senso.
Tutt’ora, anche nel pop, nei talent, o spesso le cantanti famose, hanno quell’atteggiamento.
Esatto, esatto: urlano, tendono a fare virtuosismi. Quindi il virtuosismo è la prima cosa che va eliminata.
Forse è anche una cosa molto occidentale nel senso che ha molto a che fare con l’identità, mentre in certe tradizioni spirituali orientali si cerca di eliminare il sé e questo si riflette anche in musiche meno virtuosistiche.
Assolutamente. Cercare di sottrarre piuttosto che aggiungere. E questo sottrarre è sempre stato una mia prerogativa, avrai notato, nel mio fare musica. Spesso vengo associato tra virgolette al minimalismo, ma questo concetto di tendere a togliere o ad “astenersi da”, proprio per far partecipe anche il silenzio, le pause, è leggermente diverso come concetto compositivo. E penso di essere abbastanza in solitaria in questo percorso. E lo dimostrano sia Antico Adagio, che alcune cose dell’Attesa, che in particolar modo questo nuovo disco. Perché ho sempre cercato l’originalità nel mio fare musica, penso che questo si senta.
Parliamo allora di questo nuovo disco, finalmente.
Volentieri. Tutto quello che abbiamo detto fino ad ora più o meno sono le riflessioni, i pensieri, da cui sono partito per pensare a un nuovo disco da fare.
Era quindi inevitabile che mi concentrassi su questi discorsi che abbiamo appena fatto, e se possibile ancora più in profondità su una purezza sonora, su un’ecologia sonora, su un suono che sia privo di ogni riferimento, di ogni aggancio a quel che sia altra musica possibile. È ovvio che facendo questo non potevo che riaffacciarmi ad Antico Adagio, che penso sia quello che più mi rappresenta in questo senso. Nel chiedermi “cosa faresti oggi se lavorassi in quella direzione?”.
E ho cominciato a pensare a strutture, a forme e architetture, ritmi e armonie e melodie che appunto si sottraessero a tutta una serie di caotiche e inquinanti espressioni sonore, in modo da ritrovare una dimensione sonora ancora una volta originale, e soprattutto che faccia bene all’essere in generale, e a me ovviamente in prima persona, da un punto di vista mentale e fisico. E che possa aiutare il prossimo a sentirsi meglio attraverso la musica. Questa è stata la partenza. In più questo disco ha avuto la fortuna che, mentre ci lavoravo, ho fatto appunto una serie di live, che in qualche modo all’inizio mi hanno messo un po’ in dicotomia tra quello che stavo pensando di fare e quello che dovevo suonare dal vivo. E avevo un po’ di angoscia anche per le due diverse dimensioni, in studio stavo un po’ in cielo e poi dovevo scendere sulla terra per suonare in giro.
In realtà poi è andata che me ne sono un po’ fregato, ho detto “io faccio quello che sto facendo, più o meno, o comunque in quella direzione – poi se va va, e se no pazienza”. Già al primo incontro ho visto che invece l’accoglienza è stata straordinaria, e mi sono messo a lavorare ancora più arditamente. Dopo di che ho trovato questo produttore illuminato, una persona veramente eccezionale, che ha saputo che avevo del materiale nell’ottica di Antico Adagio, più o meno, molto sperimentale, molto di ricerca, e mi ha proposto di uscire per questa nuova etichetta che lui ha fondato da poco, la Dark Companion. Con artisti anche internazionali, c’è un bellissimo disco di Keith Tippett per piano solo, eccezionale. Poi c’è John Greaves degli Henry Cow, il disco solista di Paolo Tofani… sono in buona compagnia.
Tofani è ospite anche nel tuo disco.
Sì, in un brano. In un altro brano è ospite Juri Camisasca, e in un altro brano è ospite uno strumento a me tanto caro, l’oboe, suonato da un bravissimo musicista di Piacenza (Camillo Mozzoni), che è stato per molti anni il primo oboe dell’orchestra della Scala. Pensa che ci siamo ritrovati a registrare e abbiamo riscoperto gli anni che abbiamo suonato insieme, è stato molto piacevole. In questo brano lui suona l’oboe, l’oboe d’amore e il corno inglese.
E poi c’è un brano tutto mio, suonato solo da me. Spero sia un disco che piacerà al pubblico, a me piace moltissimo.
Che è molto importante.
Esattamente. Juri ha fatto una partecipazione che mi ha commosso veramente, con Paolo la sintonia che c’è stata è da pelle d’oca. Ci conosciamo da anni ed è la prima volta che collaboriamo: non c’è stato bisogno di dirci niente.
E la cosa bella è che ogni sezione, comprese le mie dieci e passa sovraincisioni che ho fatto, per i vari strumenti, e comprese le esecuzioni degli altri… non c’è stata nessuna ripetizione, tutte buona la prima. È stato incredibile.
Per concludere un po’ la carrellata su tutta la discografia, quindi tra L’Attesa e questo disco nuovo cosa è successo? C’è stato l’ensemble nel ’95-’98, giusto?
Allora, c’è stata la prima ristampa di Antico Adagio nel ’93, l’uscita delle cose del Telaio Magnetico che vengono pubblicate nel ’95 ma ci lavoro nel ’94, il disco In cammino tra sette cieli nel ’95 e il disco Sulla corda di luce nel ’98.
Che sono i due dischi a nome Lino Capra Vaccina Ensemble, giusto?
Esatto, con l’ensemble.
Praticamente poi dal ’98 non ci sono più state uscite inedite, giusto?
Ho fatto alcuni concerti fino al 2000, poi stop.
Di questi due dischi che ricordo hai?
Ho un bel ricordo. Ho voluto lì riprendere un po’ la sperimentazione a livello psichedelico, e il piacere di suonare in gruppo. Con questo ensemble ho fatto tantissimi concerti in quel periodo, molto belli, ho un gran bel ricordo. In questi due dischi ha partecipato sempre ovviamente anche Juri come ospite, è chiaro che sono leggermente diversi da quello che possono essere Antico Adagio o L’Attesa, ma era voluto questo. La cosa che ricordo molto piacevolmente di essere riuscito a fare in questi due dischi, è che mi interessava riprendere una certa etnicità psichedelica, così la definisco, farcita della ricerca sonora tipica mia. Quindi tabla, gong, campane, suoni sperimentali… Però avendo due chitarre, una semiacustica e una classica, sax soprano, tastiere, eccetera è chiaro che la dimensione sonora è stata influenzata anche dall’ensemble, che erano dei ragazzi eccezionali, a quell’epoca molto giovani, perché erano tutti ragazzi di ventun anni, compreso mio figlio Samuele alla chitarra, e quindi mi davano una carica e un entusiasmo straordinari.
Negli anni ’90 si veniva un po’ da quegli anni di plastica, li definisco io, che sono gli anni ’80, e quindi ho detto: “ma sì, facciamo vedere che si può anche fare altre cose”. Magari con un tipo di richiamo sonoro a quell’epoca, che è quello delle tastiere e di certi suoni, però fatto con ricerca.
Quindi con quelle sonorità, ma al loro interno una ricerca.
Sì. E penso di esserci riuscito. In questo senso è chiaro che alcune cose sono leggermente diverse dal mio cammino, però se poi si vanno a riscoprire hanno il loro valore. Succederà secondo me in futuro, già con L’Attesa sta succedendo questa cosa, perché fino a qualche anno fa L’Attesa era rimasto nel dimenticatoio, adesso per fortuna vedo che in molti si stanno interessando. Credo succederà la stessa cosa fra qualche anno con questi due dischi. A parte che già adesso c’è qualcuno dell’ambito psichedelico che li apprezza molto, soprattutto In cammino.
Lino allo spazio O’ Artoteca.
La tua vita di musicista comunque è sempre stata molto legata alle percussioni, anche appunto tabla, gong…
Certo. La percussione è stata il mio mondo sonoro, che mi ha permesso anche di scoprire tanto, perché sono gli unici strumenti che ti permettono di uscire veramente da una certà accademicità, con gli altri sei un po’ costretto. Perfino le tastiere in qualche modo, essendo relegate a nipotine del pianoforte, sono costrette a essere succubi di una certa accademicità.
Proprio per superare questo concetto una certa musica elettronica oggi, tipo il noise e il glitch, si è messa a usare i pick up proprio per evitare una certa manualità tecnica, che altrimenti devi passarci per forza, e quindi hanno superato addirittura gli Eno e via discorrendo, e hanno scoperto mondi sonori. E guarda caso in questo mondo in qualche modo gli unici strumenti diciamo classici che si trovano sono le percussioni. Infatti l’anno prossimo uscirà un disco con un musicista italiano che fa noise, non voglio ancora dire chi, che mi ha coinvolto in un brano del suo disco. Quando mi ha mandato la base sono rimasto allucinato, ho detto: “boh, qua che cazzo faccio?”. Eppure invece sentirai e poi mi dirai…
Un’ultima domanda rispetto a quello che dicevamo prima di quella Milano e di quei movimenti. Voi come vi percepivate rispetto a quella che invece era in quel periodo la musica diciamo popolare?
Rispetto alla musica da classifica eravamo un altro mondo, separato, facevamo la nostra vita e la nostra musica, senza toccarci. Spesso ci si ritrovava invece a questi raduni, a questi festival dove suonava Il Canzoniere del Lazio o altri in quella direzione, e noi.
Infatti i primi manifestini e locandine degli Aktuala ci definivano “folk group”. Rientravamo un po’ in quel tipo di discorso, per via della nostra ricerca sulla musica popolare, non prettamente quella italiana anche se qualcosa c’era. Perché ai tempi noi frequentavamo Roberto Leydi, che era un grande etnomusicologo italiano, molto importante, e ci vedevano un po’ come degli anomali, tra virgolette, però avevamo un’ottima convivenza.
Se vogliamo la stessa cosa succedeva con i gruppi che avevano una tendenza politica, ce n’erano tanti a quell’epoca, però alla fine se ne venivano dalla nostra alla sera a mezzanotte. Stavano con noi, si beveva, si suonava… C’erano un po’ queste contraddizioni in termini che convivevano in qualche modo.
Ma voi invece come Aktuala, appunto, rispetto, che so, agli Area o a questo tipo di formazioni, non eravate diciamo un gruppo del movimento, ecco.
No.
Avevate le vostre idee, di sicuro non eravate distanti da certe posizioni, insomma penso che nessuno di voi fosse di destra…
Figurati.
Però quindi non eravate, diciamo, un gruppo politicizzato?
No, questo no. Però venivamo molto apprezzati e molto stimati anche da quelli che erano all’interno del linguaggio più politico, forse proprio per la nostra apertura mentale nei confronti dei linguaggi del mondo, questa cosa che in qualche modo metteva in crisi il loro settarismo. Perché il loro era comunque un settarismo.
Quindi, sì, gli Aktuala non erano molto politicizzati, avevamo un concetto se vogliamo più vicino a quello che è il mondo diciamo freak. Quindi ci trovavamo più con la dimensione dei Gong, piuttosto che con band più politicamente connotate, come gli Area. Eravamo più vicini con Claudio [Rocchi]. Perché l’aspetto politico mi ha sempre coinvolto poco, ancora oggi non lo amo molto, non parlo mai di politica, anche su Internet. Perché la nostra politica la facevamo con la cultura, con la musica, la nostra arte. Che essendo ti ripeto molto aperta, molto universale come concetto…
Già conteneva un messaggio politico.
Eh, caspita, più politico di così!
Mentre non c’era bisogno di renderlo troppo esplicito…
… Con una partecipazione attiva. All’epoca si usava molto il famoso dibattito ai concerti. Mamma mia. Per noi era un momento di tortura. Per me, per Claudio, per Battiato, per Juri. Una tortura. Perché sai arrivavano a farti le domande: “ma la vostra musica come si pone nei confronti della politica e del sociale?” “Come un ambulatorio dove depurarsi”, dicevo io. “Può essere la salvezza per voi, venite e state lì un tre mesi e dopo magari guarite” [ride].
No, ripeto, senza offesa, ma per me uno dei mali dell’essere umano è stato proprio la politica.
Addirittura? Ma per forza? Non c’è spazio per forme di miglioramento?
La politica è una manifestazione estrema di quello che io da anni sto combattendo su di me, grazie alla musica. Cioè l’egoismo, l’individualismo: è un’alleata pazzesca dell’ego bestiale che ha l’essere umano.
Egoismo che si manifesta in due modi: uno attraverso l’aspetto politico, e l’altro attraverso quello che chiamano amore, che in realtà è un miscuglio di gelosia e di affermazione dell’io, ancora una volta. Tutte cose che appartengono alla materia. Ma non quella buona, che contiene quella vibrazione sonora di cui parlavamo. Quella più negativa, che è la prima da cominciare a eliminare.
Però ci può essere lo spazio per dei rapporti sani, positivi, che migliorano le persone?
Ma certo. Se si leviga un po’ questa parte qui. Che però è molto forte. La maggior parte delle persone non riescono ad astenersi dal giudicare un evento sociale, politico, non riescono a non entrare in quel concetto di dualità che io tanto non sopporto, che ha portato a un modo sbagliato di porsi, perché poi influenza anche il sentire.
Diventa tutto un “mi piace”, “non mi piace”… Cosa che nell’arte tutta, non solo nella musica, non bisognerebbe fare. Io capisco se andiamo a mangiare, ci sono i gusti, ma nell’arte… Non esiste il “mi piace” o “non mi piace”: è! Poi nessuno ti obbliga. E nessuno però neanche ti obbliga, dio bono, a rimanere fermo nelle tue convinzioni.
Per esempio, parlando delle nuove generazioni che ho incontrato, che per me possono andare tra i venti e i quarant’anni, una cosa che mi piace molto di questi ragazzi qua, compreso te ovviamente (se permetti ti metto anche in mezzo, perché appartieni a questa generazione)… Amo di voi proprio questa cosa, che siete capaci di essere aperti a ogni espressione, e di saperla gustare e apprezzare nel giusto modo e con la giusta e dovuta attenzione. Non so come dire. E l’hai visto anche a Macao, questo vale anche per il pubblico. L’ho ritrovato in Stefano Di Trapani e in Toni Cutrone al Dal Verme, in Matteo [Moschettoni] e Francesco a Macao, anche in Fabio di Die Schachtel, tutti…
E questo è magnifico, mi ha riempito di gioia quando ho scoperto che c’è questa tribù sonora, come la chiamo io, che viaggia in questa cosa qui, e per certi versi mi ricorda tanto gli anni ’70, perché questo eravamo. Perlomeno per quanto mi riguarda, quelli che frequentavo io (ma non eravamo solo noi). E il fatto che oggi ancora esista e vada avanti è molto bello, mi fa davvero molto piacere.
Federico è appassionato di musica cosmica e rarità. Seguilo su Twitter: @justthatsome