Cosa ci accade realmente dopo la morte? Una volta che si smette di respirare e il cuore cessa di pompare sangue, si viene dichiarati “clinicamente morti”. A livello biologico, la decomposizione delle cellule, degli organi e dei tessuti cerebrali decreta la nostra fine irreversibile.
Ma se la morte non fosse veramente la fine di tutto? Due nuovi studi sostengono che, in realtà, centinaia di geni si esprimono—e, in alcuni casi, si dimostrano anche più attivi—dopo che si è verificata la morte. Questa scoperta costituisce un’autentica sorpresa per i ricercatori, dato che i patologi forensi ritengono da tempo che post-mortem l’attività dei geni vada a degradare. Proprio per questo motivo, spesso, utilizzano le variazioni nel tasso di attività dei geni per calcolare il momento in cui è sopraggiunta la morte di un organismo.
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Secondo l’autore principale di entrambi i paper, il microbiologo Peter Noble dell’Università di Washington, la scoperta dei geni “non morti” potrebbe contribuire a migliorare la conservazione degli organi destinati ai trapianti. Attualmente, i due studi sono disponibili sul server bioRxiv, ma non sono ancora stati sottoposti a peer review.
Noble ha spiegato che la sua ricerca è stata ispirata da uno studio pubblicato tre anni fa su Forensic Science International, nel quale si parlava della scoperta di una serie di geni che restano attivi nei cadaveri umani anche per 12 ore dopo il decesso.
In questi ultimi studi, il team diretto da Noble ha misurato il livello di RNA messaggero (mRNA) nel tessuto dei topi e nei pesci zebra appena morti. Dato che l’mRNA gioca un ruolo importante nell’espressione dei geni, livelli elevati di questa molecola indicano maggiore attività genetica.
In uno degli studi, Noble e i suoi colleghi sono riusciti a descrivere più di 1000 geni che restano “in vita” dopo la morte. Un totale di 515 geni nei topi erano attivi per un massimo di due giorni dopo la morte, mentre 548 geni nei pesci zebra risultavano funzionali per ben quattro giorni interi post mortem.
“Volevamo capire cosa succede quando si muore,” ha dichiarato Noble a Science Magazine.
Tuttavia, uno dei risultati più sorprendenti è che, in realtà, centinaia di questi geni incrementano la loro attività durante le prime 24 ore seguenti la morte degli animali. Noble ipotizza che, mentre l’organismo a cui appartengono è in vita, molti di questi potrebbero essere soppressi o impossibilitati ad agire per opera di una rete di altri geni, mentre si “risveglierebbero” solo dopo la morte.
Il team ha scoperto anche che solitamente molti dei geni attivi post-mortem registrano grande attività durante lo sviluppo embrionale, questo ha portato a teorizzare che, a livello cellulare, gli organismi in via di sviluppo potrebbero condividere molte caratteristiche in comune con i cadaveri in decomposizione.
Altri geni che sono stati identificati vengono associati alla crescita delle cellule cancerose. Il team ritiene che l’attivazione post-mortem di geni correlati al cancro potrebbe in parte spiegare perché molti pazienti a cui è stato trapiantato un organo corrono il rischio di sviluppare un cancro. Prima d’ora, la causa è stata a lungo attribuita ai farmaci immunosoppressori comunemente prescritti in questi casi. Ad ogni modo, servono ulteriori studi per approfondire l’argomento.
“Dal momento che i nostri risultati mostrano che il sistema non raggiunge subito l’equilibrio,” viene ipotizzato in uno degli studi, “sarebbe interessante affrontare la seguente questione: cosa accadrebbe se tentassimo di arrestare il processo di morte fornendo sostanze nutritive e ossigeno a questi tessuti? Forse le cellule potrebbero tornare in vita, intraprendere qualche percorso interessante come differenziarsi in qualcosa di nuovo o perdere la differenziazione del tutto, come avviene, ad esempio, nel cancro.”
Oltre ad offrire delle nuove informazioni potenzialmente preziose sulla conservazione degli organi per i trapianti, i ricercatori sperano che i loro risultati possono essere utilizzati anche dagli scienziati forensi per individuare con maggiore precisione il momento della morte di un organismo, compito apparentemente molto più complesso di quanto si creda.
“Questo studio ci fa capire che probabilmente possiamo ricavare moltissime informazioni sulla vita studiando proprio la morte,” ha concluso Noble.