Tecnología

Le tonnellate di plastica disperse negli abissi

Immagine: Kevin Krejci/Flickr

Ci sono circa 40.000 tonnellate di plastica che galleggiano sulla superficie degli oceani, il che porta i ricercatori a chiedersi: dove diavolo è il resto? 

Non è una cifra su cui scherzare, certo, ma è molto inferiore alla quantità di plastica che si calcola sia finita negli oceani dalla metà degli anni ’70 ad oggi. Quasi il 99 percento della plastica che dovrebbe trovarsi negli oceani non si sa dove sia. La plastica non può semplicemente sparire nell’oceano, deve essere finita da qualche parte. Ed è questa la cosa inquietante. 

Videos by VICE

In uno studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences, Andres Cozar dell’Università di Cadiz in Spagna, in collaborazione con un team internazionale, riporta che “la quantità di plastica che galleggia nell’oceano e il luogo verso cui sia diretta sono ancora sconosciuti.” 

“Una valutazione attenta della quantità di plastica che galleggia negli oceani dagli anni ’70 (un milione di tonnellate) si è dimostrata 10 volte superiore alle nostre stime,” afferma Cozar. “Grandi quantità di pezzi di plastica, che vanno dal millionesimo di metro al millimetro, mancano da queste stime.” 

Cozar ha qualche teoria, che vedremo tra poco. L’ipotesi fondamentale è che i pesci mangiano questi minuscoli pezzi di plastica (credendo siano plancton o per sbaglio assieme al plancton, i cui piccoli organismi si stabiliscono spesso su questi pezzi) e li espellono. Le feci risultano così abbastanza dense da arrivare al fondo degli oceani, ed è lì che si troverebbe tutta quella plastica. 

Sì, è disgustoso e probabilmente non è una buona notizia nel caso volessimo ripulire questa roba.

I risultati  dell’indagine Cozar. Immagine: PNAS

Solo perché non sappiamo molto su dove finisca molta di questa roba, non significa che questa enorme quantità di minuscoli pezzi di plastica non esista. La plastica, in circostanze normali, non affonda, e l’88 percento degli oltre 3.000 campioni provenienti da varie parti del mondo esaminati dal team, conteneva pezzi microscopici di plastica. 

Come ci si potrebbe aspettare, circa il 35 percento della quantità totale di questi frammenti di plastica si trova a nel Pacifico del Nord, dove si trova il “vortice del Pacifico” che molti hanno iniziato a descrivere come un’isola di plastica galleggiante. Ci sono dei vortici di notevoli dimensioni anche a Nord e a Sud dell’oceano Atlantico, e nel Sud dell’oceano Indiano. 

Negli anni ’70, la National Academy of Sciences ha stimato che negli oceani sono finite circa 45.000 tonnellate di plastica all’anno, e ben prima che la produzione annuale di plastica fosse incrementata di ben cinque volte—nel 2010 sono stati prodotti 265 milioni di tonnellate di plastica, per dire. 

Questo ci porta al cuore della ricerca, e la domanda che probabilmente vi state ponendo è—dove si troverà questa plastica? Cozar ha quattro teorie, nessuna delle quali è particolarmente positiva per la salute degli oceani. 

La deposizione a riva: la plastica in qualche modo sarebbe riuscita a staccarsi dai vortici che sono nel mezzo degli oceani, e sarebbe stata portata da qualche parte sulle coste. È molto poco probabile che sia successo, andrebbe contro le leggi della fisica. I vortici sono essenzialmente maree circolari di grandi dimensioni. Se non ci sono delle enormi tempeste, la plastica intrappolata nel centro dei vortici non riesce a staccarsi e andare verso le coste. Cozar scrive: “è molto poco probabile che i frammenti millesimali intrappolati nei vortici in mare aperto siano stati trascinati selettivamente verso la riva.” 

Nanoframmentazione: questa ipotesi sostiene che i frammenti di plastica siano diventati “nanoplastiche”, enormemente difficili da rilevare. La plastica, per sua natura, con l’esposizione alla luce del sole tende a rompersi in pezzi più piccoli, ma Cozar afferma che non sia un motivo valido per sostenere che “la frammentazione indotta dal sole” sia aumentata rispetto agli anni ’80, quando vennero condotti alcuni studi sul fenomeno. 

Probabilmente c’è qualche tipo di batterio o plancton si è evoluto per portare alla frantumazione della plastica in pezzi ancora più piccoli, o che lo fa naturalmente. Alcune ricerche che provano questo fenomeno. “Delle recenti analisi dei micrografi elettronici delle particelle di plastica negli oceani, abbiamo avuto indicazioni sul fatto che la popolazione dei batteri nell’oceano potrebbe contribuire alla decomposizione della plastica, probabilmente intervenendo nei processi di frammentazione,” scrive Cozar. 

Biofouling: Abbiamo visto che ci sono degli animali che possono fare della plastica la propria dimora, e delle barriere coralline che incorporano la plastica—questo è il biofouling. Cozar suggerisce che il plancton e altri piccoli organismi potrebbero essersi accumulati sulla plastica, rendendo i pezzi tanto pesanti da andare a fondo—probabilmente molto lentamente, perché la densità dell’acqua marina cresce proporzionalmente alla profondità del fondale. 

Questa è un’altra ipotesi plausibile, se non per il fatto che, nelle sperimentazioni sul campo, la plastica è risultata essere una dimora piuttosto scarsa. “Gli esperimenti sul campo hanno mostrato che i detriti di plastica sottoposti al biofouling vengono contaminati rapidamente quando si immergono in acqua, il che provoca il ritorno a galla della plastica,” afferma lo studio. 

Ingestione: Questo è lo scenario più probabile, suggerisce Cozar, e non è affatto positivo. I pezzi microscopici di plastica potrebbero aver assunto più o meno le dimensioni dello zooplancton, una parte incredibilmente importante della catena alimentare oceanica. L’idea è che i pesci mangino la plastica, la espellano e questa si depositi sul fondale dell’oceano. Degli studi precedenti hanno scoperto che i pesci che mangiano plancton spesso hanno della plastica nello stomaco, quindi non si tratta di un’ipotesi così inverosmile. 

“I contenuti intestinali dei pesci che mangiano plancton vengono evacuati come delle lunghe feci viscose che, affondando a grande velocità, assumono forma sferica,” scrive. “I microscopici frammenti di plastica potrebbero raggiungere i fondali anche attraverso la defecazione, ipotesi che ha bisogno di essere testata maggiormente.” 

La risposta complessiva è probabilmente una combinazione di queste quattro possibilità. Dovremmo capire se abbiamo almeno una possibilità remota di riuscire a pulire gli oceani. Forse potremmo usare i frammenti che troviamo per alimentare le stampanti 3D