Fabrizio Faggi e il sèmelle
Tutte le foto di Irene Tempestini per Munchies
Cibo

Il panino per ricchi (quasi) dimenticato di Firenze

Ripercorrere la storia del sèmelle, panino tondi ormai scomparso, è ripercorrere la storia della Toscana.

“Mangiare il pane con il sèmelle” significa atteggiarsi da raffinati pur non essendolo: infatti il sèmelle, pur essendo un pane di lusso, era comunque pane.

Quando varchiamo la soglia del forno Profumi di pane, il proprietario Manlio Salaorni sta facendo girare in impastatrice i cornetti per il giorno dopo mentre il maestro Fabrizio Faggi, che rapisce subito lo sguardo per i mocassini blu totalmente infarinati con i quali presta servizio, sta stendendo una bella schiacciata.

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Ma non siamo qui né per i cornetti, né per la schiacciata. La ragione per cui Irene Tempestini e io siamo giunti fino a Caldine, una frazione di Fiesole (via San Martino, 2/5,Fiesole, Firenze), sopra Firenze, è una soltanto: trovare qualcuno che produca ancora il sèmelle, il panino fiorentino che avevo dato ormai per estinto. Ma andiamo per gradi. 

Noi si prendeva il pane normale e anche qualche sèmelle, che era un panino bianco e sopra era lucido. Noi si chiamava il panino con le puppine perché era un po’ allungato e alle estremità aveva tipo delle puppine, come dei capezzoli

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​Tutte le foto di Irene Tempestini per Munchies

Tutto è iniziato dalla lettura de Il quartiere di Vasco Pratolini. In una delle prime pagine del romanzo infatti, il giovane protagonista Valerio è affacciato alla finestra di casa sua. Davanti ai suoi occhi transitano gli abitanti e i lavoratori del suo quartiere, Santa Croce a Firenze: c’è il bacalaro Egisto – colui che si occupava di badare ai cavalli –; i fiaccherai – i conducenti delle carrozze pubbliche. Oltre a loro «passava il venditore di pane fresco: “Semellaio!” gridando, con la gerla sotto il braccio».

Quando ho letto la parola “semellaio” mi è tornata alla mente una conversazione con mia madre. A metà anni ’70, quando aveva sì e no cinque o sei anni, abitava a Zambra, una frazione di Poggibonsi, un paese di modeste dimensioni in provincia di Siena appena superato il confine con Firenze. Quella era una vita diversa, trascorsa in una vecchia casa colonica con l’aia, gli animali e una quantità indecifrabile di parenti (dove mia nonna già sapeva fare i migliacci). In mezzo ai discorsi nostalgici, trovava posto anche il pane.

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C’era Mario —il semellaio appunto— che arrivava col suo furgoncino bianco e faceva il servizio alle famiglie. Funzionava così, mi ha detto mia madre: lui portava il pane e prendevi quello che ti serviva; poi Mario segnava sul libricino e rimetteva il conto ogni quindici giorni. Noi si prendeva il pane normale e anche qualche sèmelle, che era un panino bianco e sopra era lucido. Noi si chiamava il panino con le puppine perché era un po’ allungato e alle estremità aveva tipo delle puppine, come dei capezzoli. Noi si mangiava come fosse pane normale oppure ci si metteva dentro un po’ di affettato. Però mi ricordo che la nonna Ezelina, se avanzava, la mattina a colazione lo inzuppava nel latte. Nonna Ezelina, tra l’altro, era cieca e mi ricordo che quando si rientrava in casa col pane di Mario diceva «è arrivato il sèmelle»? Ne sentiva il profumo appena si passava l’uscio.

Di sèmelle in giro non se ne trovano più

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Ecco —mi sono detto— voglio sentire anch’io quel profumo, quindi ho iniziato a compiere qualche ricerca ulteriore. Per inciso, non pensavo minimamente che questa operazione mi avrebbe portato via così tante energie. Il perché è presto detto: di sèmelle, in giro, non se ne trovano più. 

È una delle prime cose che confessiamo a Manlio e Fabrizio: è stata dura trovarvi, è stata dura trovare questo benedetto sèmelle. Loro ci rispondono in coro che sì, è vero, il sèmelle non lo fa più nessuno. Anche loro lo preparano solo su ordinazione, data la poca richiesta. I trippai ormai hanno optato per la rosetta, ci dicono, molto più funzionale per il panino al lampredotto. La rosetta è più vuota dentro, è molto più leggera, e i trippai levano la mollica. Che senso avrebbe usare il sèmelle, che è più compatto e mollicoso?

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È quindi il momento di lavorarlo, questo sèmelle. L’impasto è semplice: farina, acqua, lievito, sale e olio. Quando ci presentiamo al laboratorio la massa sta ultimando la sua lievitazione ed è quasi pronta per la formazione dei panetti. (Mentre Fabrizio procede con questa operazione noi facciamo merenda, io con un budino di riso fenomenale, Irene con un cornetto integrale da paura.) La forma dei panini del signor Fabrizio è rotonda, diversa da quella che mi aveva raccontato mia madre. Quando chiedo lumi su questa differenza, mi risponde che la versione allungata è più una variante senese. Quella fiorentina è più rotonda ma prevede comunque un taglio centrale, motivo per cui il sèmelle veniva anche chiamato passerina. 

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Mentre i panini fanno una seconda lievitazione è interessante approfondire proprio alcune questioni linguistiche. L’etimologia della parola sèmelle, come recita l’Enciclopedia Treccani, viene dal tedesco Semmel, che è dal latino medievale simila «panino», che è a sua volta dal latino classico simĭla «semola». Per quanto riguarda la semola, Fabrizio mi fa notare che il panino, oltre ad avere la conformazione della passerina, è anche molto simile alla forma del chicco di grano, da qui un possibile riferimento appunto alla semola. 

Molto più interessante è la parentesi che si apre attorno al Semmel di regione germanofona. Quando ero ancora un giovane studentello dell’Istituto Alberghiero, il prof. Pierucci in una delle sue lezioni di tedesco di indirizzo professionale, ci spiegò le varie parole per indicare il pane: das Brot ci disse, termine utilizzato per comunemente il pane; poi die Brötchen, i panini. Successivamente però, dall’alto della sua impeccabile precisione, tenne a rimarcare delle ulteriori differenze. In determinate regioni – ci disse – i vocaboli cambiano: ci sono gli Schrippen a Berlino, mentre nella Germania del sud – a Monaco di Baviera per esempio e soprattutto in Austria – i panini sono chiamati Semmeln.

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Quello che solo recentemente ho scoperto è che il Semmel in realtà – e in particolar modo il Kaisersemmel – non è solo il modo in cui vengono chiamati i panini in quella determinata area geografica, ma una vera e propria istituzione viennese.

Perché i’ pane a semelle l’er’un pane, più da… gente che stava bene. Il famoso pane a semelle, la lo pò scrivere. Era i’ pane di lusso.

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Finita la seconda lievitazione il signor Fabrizio spennella di olio la superficie liscia dei sèmelle, dopodichè inforna. La cottura è breve, ma ci consente di avere il tempo di ripercorrere la dualità e il rapporto tra il sèmelle fiorentino e quello austriaco. La questione, in realtà, appare abbastanza semplice e logica: tra il 1737 e il 1859 il Granducato di Firenze fu sotto il dominio della casata degli Asburgo-Lorena. Durante la ricerca di materiali che confermassero come il punto di contatto tra i due pani dovesse ovviamente essere questo, però, qualcosa è andato irrimediabilmente storto. Difatti, da quello che ho potuto constatare personalmente e anche da quanto confermatomi dal professor Giovanni Cipriani dell’Università di Firenze, docente di Storia moderna specializzato proprio sulla storia di Firenze, non esistono fonti scritte che attestino che il sèmelle fiorentino sia stato importato dall’Austria, niente che non sia un “si dice che”. 

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L’assenza di fonti mi ha lasciato un po’ perplesso, soprattutto quando ho scoperto che sia il Semmel austriaco che il sèmelle fiorentino venivano considerati panini di lusso. È interessante e divertente riportare qualche voce del vocabolario del fiorentino contemporaneo che può aiutarci ad attestare quanto appena detto: L’era un tondino... però sopra, ’nvece d’èsse bellino, tutto pari tondo, a regola gni davano una botta e diventava... noi la si chiama anche la... la passerina, vero? Noi la si chiamava anche la passerina. Voleva dire fatto come la natura. La passerina per noi l’è la natura […] Un morso a questo, un morso a quest’altro. / Perché i’ pane a semelle l’er’un pane, più da… gente che stava bene. Il famoso pane a semelle, la lo pò scrivere. Era i’ pane di lusso.

Prendo un sèmelle e lo apro a metà. Dose generosa di burro e marmellata di mirtilli

Massimo Montanari, nel suo celebre Il cibo come cultura, scrive che «le società di tradizione scritta, come quelle europee, per lungo tempo hanno tramandato solo e soprattutto testi prodotti da e per le élite sociali, le aristocrazie di corte e gli alti ceti cittadini». Allora perché non c’è traccia scritta del sèmelle nonostante fosse un panino per ceti benestanti? Forse – ma è solo un’ipotesi – si potrebbe pensare come, nelle società germaniche, per tradizione, il ruolo della carne fosse molto più centrale rispetto a quello del pane. Oppure ancora, sulla scorta del saggio Cibo e patrimonio, una questione politica di Laura Di Fiore (contenuto nel volume Cucina politica a cura di Massimo Montanari), la tesi potrebbe riguardare la non volontà da parte dei fiorentini —quantomeno la maggior parte, in una prospettiva storica— di appropriarsi del prodotto Semmel e del suo patrimonio. Ma sono solo ipotesi e forse non ha senso spingersi oltre.

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io che mi brucio le mani.JPG

L’unica cosa certa però è che l’occhio esperto del signor Fabrizio vede che i sèmelle sono cotti a puntino ed è il momento di sfornarli. La crosta è liscia e lucida e i panini bruciano tanto da dovermeli far saltare tra le mani per non spellarmi le dita. Ne apriamo uno ma è ancora troppo presto, la mollica ha ancora bisogno di un po’ di tempo per perdere umidità e compattarsi. 

Ne approfittiamo per scambiarci le ultime parole, tra cui un altro piccolo ma interessante risvolto linguistico. Il signor Fabrizio mi mette a conoscenza di un modo di dire fiorentino di cui ero all’oscuro. Esiste infatti l’espressione “mangiare il pane con il sèmelle”. Significa atteggiarsi da raffinati pur non essendolo: infatti il sèmelle, pur essendo un pane di lusso, era comunque pane. 

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Dopo questo inciso, Fabrizio ci dice che è meglio se i panini li apriamo a casa e ce li mangiamo per merenda. Ecco che a casa si fa l’ora giusta. Prendo un sèmelle e lo apro a metà. Dose generosa di burro e marmellata di mirtilli biologica. Nel frattempo Irene mette su il caffè e scalda il latte. Nel caffelatte ci piace il miele e quindi lo aggiungiamo. Poi facciamo come nonna Ezelina: prendiamo il sèmelle e lo inzuppiamo. Non sarà colazione ma va bene lo stesso.

Sono sicuro però che il profumo è questo, il profumo del sèmelle. 

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