Attualità

Le quattro scuse più ridicole dei razzisti da stadio

"I fischi non sono razzismo", "È stato lui a provocare" e le altre scuse.
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Grab via Youtube.

Sicuramente vi sarà capitato di ascoltare il grande classico “non sono razzista ma”, usato sostanzialmente da chi invece lo è eccome. Ma all’interno del mondo del calcio—dove ormai il fenomeno del razzismo è piuttosto sdoganato da tempo—si è addirittura riusciti a produrre una maggiore varietà di giustificazioni per passarla più o meno sempre liscia.

Le polemiche che girano attorno al razzismo nel calcio sono dovute in gran parte a questo: un sistema di comunicazione che riesce a farsi percepire da non poche persone come molto più innocente di quanto in realtà non sia. Proviamo a capire come.

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SCUSA 1 - “I FISCHI NON SONO RAZZISMO”

Nel tempo le tifoserie di estrema destra hanno pensato che fosse più "sicuro" insultare i giocatori neri in maniera più indiretta, passando da "sporco n****" ai versi da scimmia e fischi.

A un livello di analisi superficiale, infatti, nessuna di queste cose si qualifica a priori come razzista: un verso può somigliare a una qualche bizzarra forma di incitamento alla spartani del film 300, mentre i fischi possono essere usati per colpire qualsiasi giocatore, a prescindere del colore della pelle—e il fatto che per tutto questo manchi un termine giornalistico ad hoc crea soltanto ulteriore confusione.

Così, quando si alzano le polemiche, i razzisti possono uscirsene con la scusa che non è successo nulla di grave, solo “tanti fischi e sfottò”, derubricando il tutto a un normale momento di tifoseria.

Questi casi però non riguardano più solo i tifosi, ma si sono diffusi a macchia d’olio nel mondo del calcio—l’esempio più recente consiste nelle dichiarazioni sui cori contro Balotelli di Ivan Juric, tecnico dell’Hellas Verona.

A loro volta le critiche a queste dichiarazioni, poi, trovano puntualmente come risposta il “non si può più fare nulla,” e/o l’evocazione di una censura ottusa e paranoica per far passare gli altri come i cattivi di turno.

SCUSA 2 - “NON LI ABBIAMO SENTITI”

Incredibile, ma ogni volta che si verificano episodi di razzismo in uno stadio, troverete un sacco di gente pronta a dirvi di non aver udito nulla, e che siccome voi non eravate lì allora dovreste stare zitti.

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Potremmo parlare dell’architettura degli stadi e del funzionamento dell’acustica al loro interno, o dire che basta un gruppetto in un settore abbastanza prossimo al campo per far sì che un insulto possa essere sentito da chi gioca ma non da chi siede nel terzo anello. Ma la verità è che, semplicemente, emergono sempre altre testimonianze, spesso anche dei filmati, che smentiscono i razzisti.

Nel già citato caso degli insulti a Balotelli, questi non sono stati sentiti dall’allenatore del Verona Juric, dal presidente del club Maurizio Setti, e nemmeno dal sindaco di Verona Federico Sboarina. Ma li ha sentiti l’arbitro, che ha fermato la partita, e anche gli ispettori federali. E, se vi va, potete giudicare anche voi se ci siano stati o meno, perché esistono dei video.

Quando si parla di razzismo negli stadi, casualmente, tifosi e dirigenti della squadra la cui tifoseria è sotto accusa reagiscono spesso negando il fatto, ma non hanno la stessa celerità nel fare dietrofront dopo che le testimonianze contrarie vengono fuori.

Il fatto che la prima reazione sia la negazione del fatto in attesa di smentita, invece che la condanna, la dice lunga sull’atteggiamento verso il razzismo nel mondo del calcio.

SCUSA 3 - “EH, MA È STATO LUI A PROVOCARE”

È quello che disse il presidente del Cagliari Tommaso Giulini, davanti ai microfoni di Sky, nel commentare i cori razzisti verso Moise Kean, sostenendo che la colpa fosse del giocatore e della sua provocatoria esultanza dopo il gol segnato. Ma ne troverete altri, di casi simili: ad esempio, i cori contro Kalidou Koulibaly in Inter-Napoli, che sarebbero arrivati solo dopo un suo brutto fallo.

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Si chiama victim blaming, e cioè colpevolizzare la vittima. Perché quando “ridistribuiamo” le colpe, implicitamente stiamo assolvendo il colpevole e spostando l’attenzione negativa sulla vittima. A ben vedere, qualcuno troverà sempre una scusa nel comportamento di un calciatore vittima di razzismo per giustificare chi lo odia: il gol segnato, le proteste, un atteggiamento notoriamente antipatico. Una persona subisce insulti per il colore della sua pelle, reagisce, e implicitamente passa dalla parte del torto e le offese vengono dimenticate.

SCUSA 4 - "MA NOI SIAMO CONTRO IL RAZZISMO"

Si tratta della versione calcistica del tanto celebrato e già citato “non sono razzista ma.” Nel commentare episodi di questo tipo, il giustificazionista tende a esordire mettendo in chiaro di essere contrario alle discriminazione sul colore della pelle. Il più delle volte, però, il suo antirazzismo si esaurisce nella dichiarazione stessa: il presidente della Lazio Claudio Lotito ha affermato di essere tra i più attivi su questo fronte, eppure la sua società non brilla affatto per i provvedimenti contro i tifosi razzisti.

La straordinarietà di questa scusa consiste nella sua capacità di ignorare i dati di fatto con una sicurezza a cui è molto difficile controbattere: come si può rispondere logicamente a uno che sostiene che la tifoseria dell’Hellas Verona non sia in nessun modo razzista, nonostante tutta la sua storia? Semplicemente, queste persone non stanno discutendo del nostro stesso piano di realtà.

Un’analisi della comunicazione dei razzisti da stadio, come accennato prima, ci dice molto anche di come funziona oggi il linguaggio della politica di estrema destra. Si concentra tutto sulla negazione della realtà, creando un corto circuito che impedisce un dibattito serio e, spostando la discussione sul piano dello scontro di opinioni—e non di fatti—mira a far passare chi condanna il razzismo come un fanatico a caccia di streghe. Dentro e fuori dagli stadi.

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