breakdance
Lil Pump, fotografia promozionale; sfondo, screenshot da Breakin' e Wild Style
Musica

Prima di dire cosa è e cosa non è il rap, fermati a pensare

Alla gente piace un sacco litigare su che cosa sia o non sia "rap", e un ragazzo italiano ha scritto un libro per risolvere la questione una volta per tutte.

Giovedì 14 novembre, alle 18:30, saremo all’Apple Store di Piazza Liberty a Milano insieme a Cesare Alemanni, l’autore del libro di cui parliamo in questo articolo, per raccontare come l'hip-hop abbia influenzato tutto quello che oggi è "contempoaneo". L’appuntamento è all’interno degli appuntamenti di Today at Apple dedicati a Book City Milano. L'iscrizione è gratuita.

In questo caldo incredibile, alle falde di una Torpignattara rovente come l'Africa nera, mentre cerco di scrivere i miei articoli mi sento come il protagonista di Summer of Sam di Spike Lee. E automaticamente, parlando di estate "nel blocco", mi ricordo quando sentii palare di hip-hop per la prima volta.

Pubblicità

Facevo la prima media e sulla solita Deejay TV passavano un video che diverrà poi storico: si trattava di "Walk This Way" dei Run-DMC, uscito nel luglio del 1986. Un brano che sdoganava alla classifica il suono black per antonomasia ibridandolo con (ma sarebbe meglio dire fagocitando direttamente) il rock bianco, nella fattispecie quello degli Aerosmith, di cui tutti all'epoca eravamo infarciti.

Fu una sensazione abbastanza strana, rivelatrice. Nonostante molto prima ne ebbi un antipasto con Herbie Hancock e la sua "Rockit", che a tutti gli effetti conteneva elementi come la breakdance dei robot e lo scratch, o l'intro totalmente in linea di "I Feel For You" di Chaka Khan, in Italia l'hip-hop arrivava molto poco ed era difficile capirne davvero qualcosa. Se la memoria non mi inganna fu però proprio l’anno dopo che divenne ai miei occhi qualcosa di diverso da un mero "disco che mettono i fratelli maggiori" o, ancora peggio, qualcosa di "esotico". Nel 1987 capii che c’era un’intera cultura dietro.

Il merito fu di un ragazzo che chiameremo P., un mio compagno di classe di seconda media che abitava nelle mie stesse lande periferiche dell'asse Primavalle-Torrevecchia. Costui era il classico ragazzo problematico: uno che metteva le mani al collo ai compagni sbattendoli contro i cofani delle macchine, non accettava l’autorità degli insegnanti, veniva costantemente punito e per forza di cose frequentava solo ripetenti. Con loro fumava cannoni e frequentava le peggio bische, trovando cosi un appoggio ai suoi comportamenti antisociali—i quali, com'è ovvio, derivavano da una situazione familiare maciullata, una condizione economica di merda e una grande sensibilità e fragilità di base che si trasformavano in rabbia.

Pubblicità

Insomma, un grande classico. P. era temutissimo in quanto nel giro di un secondo e mezzo poteva cambiare da farti scherzi sciocchi a gonfiarti di mazzate a nastro in un cortocircuito schizofrenico imprevedibile. Ragion per cui me lo misero subito come compagno di banco: gli insegnanti pensavano che, essendo io privo di pregiudizi e piuttosto socievole, lo avrei aiutato ad integrarsi e a migliorare nello studio. Ovviamente non andò cosi: lo bocciarono l’anno dopo e non l'ho più rivisto, ma fra di noi scattò un'intesa che andava oltre il discorso del rendimento scolastico: fu proprio l'hip-hop.

P. era infatti l'unico in tutta la scuola che invece di ascoltarsi il metal, i Pink Floyd o Vasco Rossi era in piena botta black. Soprattutto perché gli piaceva la breakdance, tanto che non faceva altro che fare le mosse della "electric boogie", cioè l’emulazione della scossa elettrica, durante le lezioni, allenandosi anche e soprattutto da seduto. Io tornavo a casa dai miei che la facevo anch'io e mia madre pensava stessi impazzendo. In un certo senso era vero, ma solo perché anche io cominciavo a capire che quella roba parlava al nostro vissuto, al fatto che noi non facevamo altro che stare in strada, che era qualcosa di lontano dal mondo patinato del pop rock. Il massimo di cultura street secondo i miei coetanei era espressa allora da Eros Ramazzotti, per dire come si stava messi male.

breakin

Uno screenshot dal film Breakin' (1984)

Il nostro P. si vestiva come uno dei protagonisti dei film culto dell'hip-hop: Wild Style e Breakin’. Giubbotto jeans strappato alle maniche, bandana tipo quella dei Bloods. L’unica cosa che gli interessava era questa attitudine. Allora c’era il solito saggio di fine anno in cui gli allievi potevano dare sfoggio delle loro capacità artistiche: io lo convinsi a partecipare, visto che era veramente un ottimo ballerino. Da quel momento passammo ore a casa mia a vedere al ralenti le mosse e i trucchi dei ballerini dei film sopracitati usando il mio videoregistratore—lui aveva le videocassette e probabilmente venne folgorato da una visione casuale in qualche tv privata. Fu una scorpacciata epica di b-boying, e da quel momento divenni inseparabile dalla drum machine.

Pubblicità

Il giorno del saggio P. era emozionatissimo. Io faccio partire la base, lui inizia a ballare, sbaglia una mossa ed entra in crisi. Si ferma in preda al panico. Io allora prendo il microfono e lo incalzo improvvisando un diversivo. Lui si riprende e finisce in bellezza, la défaillance un ricordo, scroscio di applausi e un grande sorriso sul suo volto. Anche se la scuola non ne voleva sapere di lui, l'hip-hop lo aveva affrancato dallo stigma di "delinquente" e mostrato quello che era veramente: una persona vera. Quello che non era Jovanotti, che l'anno dopo farà il botto in Italia appropriandosi di una cosa a lui lontana anni luce: ma d’altronde in Italia nessuno realmente capiva cosa fosse l’hip-hop. E sfido io, l'hip-hop è qualcosa che appunto va oltre al mero fatto spettacolare. E neanche ora sembra che lo capiscano.

Tutto questo c'entra con un libro che ho appena finito di leggere. Si chiama Rap, lo ha scritto Cesare Alemanni ed è edito da minimum fax: uno scritto che appunto fa un efficacissimo excursus nella storia dell'hip-hop americano mettendo in chiaro che l'hip-hop è una questione di “vita vissuta” e da questa imprescindibile. Non solo una questione di armonia tra discipline, nelle quali l’MCing il DJing, il writing e il ballo sono elementi che si sostengono a vicenda, ma anche di equilibrio, perché l'evoluzione di una si porta appresso tutto il resto.

Soprattutto è importante ricordare sempre e senza darlo per scontato che si parla di una cultura nata in America, in zone dimenticate da Dio e dal potere, dove le discriminazioni erano e sono all’ordine del giorno. La prima, quella fondamentale per lo sviluppo della cultura, è quella razziale: secondo Alemanni non c’è hip-hop senza contrapposizione tra bianchi e neri, e il sottotitolo del libro è infatti “storia di due Americhe”.

Pubblicità

Stiamo parlando dell’espressione dei ghetti neri sottoproletari rivoltosi, dei fuochi appiccati ai palazzi per protesta, ma è anche dei neri di classe media che però hanno raggiunto lo status rompendosi le natiche—non certo di pasciuti rospi bianchi (per citare una copertina di Miles Davis) come Vanilla Ice. È qualcosa che travalica in potenza anche il white trash qualunquista alla Eminem, che infatti nel libro non fa bella figura, per quanto le loro sorti siano molto simili e per questo intrecciate: non a caso il crossover tra musica bianca e nera nasce proprio grazie all'hip-hop.

Nel libro di Alemanni c’è un'accurata ricostruzione storica in questo senso. Si prende molte pagine, forse più di quelle dedicate alla musica, ma è necessaria per capire l’evoluzione di una cultura che purtroppo—appunto—si è ritrovata fagocitata dall'industria bianca come già fu per il jazz, anche a causa di una frammentazione al proprio interno fra varie scuole di pensiero e di città. New York contro Los Angeles, e entrambi contro il Sud. A volte tutti contro tutti, come dimostra l'epica tragica e delirante dell'affaire Notorius B.I.G vs Tupac.

Altri problemi li davano il consumo di droghe che andavano dal crack alla purple drank di DJ Screw, così come il linguaggio pieno di metafore sessuali senza peli sulla lingua anche a proprio rischio e pericolo—vedi i 2 Live Crew a cui dobbiamo il primo adesivo "Parental Advisory" della storia dell'hip-hop. La cultura hip-hop è insomma un terremoto costante dove le certezze sono poche e cambiano nel giro di un batter d’occhio, almeno rispetto a generi come il rock che è rimasto fedele a se stesso fino praticamente a spegnersi.

Pubblicità

Nell'hip-hop si va sempre costantemente avanti: tra un Grandmaster Flash che non voleva neanche uscire dallo steccato dei suoi block party a un Kanye West completamente fritto dal suo ego, ci sono tanti micro e macroeventi che fanno scattare delle reazioni a catena stile domino. Alemanni ci fa capire come l'hip-hop sia diventato mano a mano un fenomeno che sta perdendo i suoi connotati antisistema per essere il pop attuale, universalmente accettato anche nelle sue espressioni più discutibili—come ad esempio l’ossessione per il denaro, il sessismo, l'omofobia—e spesso giustificato per i motivi sbagliati, o demonizzato per altrettanti travisamenti.

Alemanni quindi scrive più un romanzo storico che un saggio. Riesce, con una penna chiarissima e fluida, a farci entrare nel vissuto dei protagonisti di questa saga che manco il Padrino, siano politicizzati seguaci di Malcolm X come i Public Enemy, gangsta come gli N.W.A. o portatori di autocelebrazione fine a sé stessa come Jay-Z. Ci fa capire la psicologia dietro a certe scelte, a certe situazioni al limite. Ci rivela come ogni giudizio storico, musicale e qualitativo vada soppesato rispetto alle esperienze di partenza dei singoli e della situazione storica circostante, alle quali sono legati per forza di cose.

Ed eccoci infatti arrivare alla trap, alla drill e al crunk, che con il loro nichilismo consumistico si portano in realtà appresso anni e anni di fatica, riscossa, sangue e cuore in mano. E di essi rappresentano una sintesi amara, segno che in realtà gli oppressi rimangono tali anche col successo in tasca. E questo Alemanni lo fa emergere dalle pagine con una ferma lucidità nel mettere insieme i pezzi del mosaico, senza fare sconti a nessuno.

I pregi del libro sono molti quindi: ma ci sono anche dei difetti, che in realtà lo stesso Alemanni con grande onestà ci anticipa nella prefazione. La questione del "rap femminile" è poco o nulla analizzata, e questo per il sottoscritto è un grosso difetto, dato che la rivoluzione hip-hop non sarebbe stata pensabile senza personalità come le Salt-n-Pepa, qui assenti, e Missy Elliott, qui appena citata. Lo stesso vale per la questione dei prodotti delle minoranze ispaniche, ma volendo anche delle altre minoranze dei ghetti, cosa che pero’ avrebbe prodotto forse un altro titolo: "Una storia, molte Americhe”.

L'autore ci assicura però la sua intenzione è di tornarci su. Altra pecca è forse l’assenza di alcuni nomi che mi aspettavo di vedere nero su bianco: ad esempio i Digable Planets, i PM Dawn, i grandissimi Disposable Heroes of Hiphoprisy, i Mantronix, i Dälek e gli Arrested Development, oppure delle nuove leve che sono trattate un po’ sbrigativamente, le cui sperimentazioni e commistioni hanno senza dubbio dato e stanno dando lustro al genere al pari di gente come De La Soul o OutKast. Ma forse, andando oltre la mera questione di gusti, come dice lo stesso Alemanni nella prefazione compilare una storia del genere non è affatto facile.

Probabilmente allora la cosa più sensata è apparsa al nostro il concentrarsi su alcune figure chiave ben precise che nella narrazione possano fare le veci degli altri sintetizzando i vari mood—e, in effetti, lo fanno. Un po’ come il rap in quanto tale per tutti i diseredati di questo mondo. Ma, come dice Alemanni in chiusura dopo un brillante excursus sul cloud rap, “se ancora di rap si può parlare”. Perché in fondo, il senso del libro sta proprio in questa domanda: si può ancora parlare di rap? Chissà che ne penserebbe il mio amico P.: forse direbbe che è meglio farlo, e basta. Demented è su Twitter. Segui Noisey su Instagram, Twitter e Facebook.