Diego Levy trasforma gli incidenti stradali in opere d’arte

Qualche ora prima di scrivere questo articolo ero in coda all’aeroporto JFK di New York nel tentativo di imbarcarmi su un aereo. Intorno a me regnava il caos. Una donna in sedia a rotelle gesticolava nervosamente circondata da almeno otto poliziotti, e più avanti un’altra passeggera litigava con un impiegato: “Questa non è la città migliore del mondo, questa è la città più schifosa del mondo! Vergognatevi!”

La domanda è: cosa rende una città migliore o peggiore? Ne esiste qualcuna senza disordini, violenza e altre forme di caos? Quando vedo il lavoro del fotografo di Buenos Aires Diego Levy finisco per convincermi che è esattamente questo il cuore delle città. 

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Per questo ho parlato con lui della sua serie CHOQUES.

VICE: Come sei arrivato a questo tipo di fotografia?
Diego Levy:
Tramite Weegee: sono rimasto colpito dalle sue foto di New York. All’epoca lavoravo come reporter e mi occupavo di cronaca nera. Ho deciso di cominciare una serie, che poi si è estesa fino a Rio de Janeiro, Medellin, e Città del Messico.

E quando sei passato dal fotogiornalismo alle foto d’arte?
Non è che sono passato da una cosa all’altra, semplicemente le circostanze mi ci hanno portato. Per me gira tutto intorno al lavoro, i miei progetti sono nati per vari motivi, ma la ragione principale è che ho sempre bisogno di avere la mente altrove. Ho bisogno di stimoli, e questo comprende tutto: la fotografia d’autore, i reportage, i video e i film. 

Cosa ti ha spinto a realizzare CHOQUES?
Gli incidenti mi attiravano, e a Buenos Aires c’è un alto tasso di morti per incidenti stradali. L’aspetto più strano è che la cosa è vissuta come un fatto normale, come qualcosa di immodificabile. Mi sembrava interessante lavorarci.

Nel testo che accompagna questa serie parli del tentativo di esorcizzare le tue paure, quali sono?
Ho paura degli imprevisti, di uscire di casa per andare a lavorare e incrociare la tragedia per strada.

Quanto tempo ci è voluto per fare questa serie?
Due anni, tra il 2006 e il 2008.

Come scoprivi gli incidenti?
Mi alzavo presto e ascoltavo la radio. Spesso mi presentavo sul posto e avevano già rimosso le macchine, altre volte invece arrivavo in tempo e potevo fotografarle.

Nelle foto non si vedono persone o molto movimento intorno alle macchine, come mai?
L’idea era farle senza gente, quindi se al momento dello scatto c’erano persone intorno chiedevo loro di spostarsi.

Sembra che nelle grandi città siamo abituati alle situazioni violenteaggressioni, incidenti, mortiche passano inosservate, come se fossero quasi invisibili. Eppure queste situazioni prendono tutta un’altra piega se poste in un contesto diverso, come un libro o una galleria. Cosa ti aspetti dal pubblico e qual è stata la reazione a questo lavoro?
Mi aspetto una riflessione, ma non sono ingenuo. Non credo che la fotografia possa cambiare qualcosa, per lo meno nell’immediato. Pretendere di modificare il comportamento della gente nella grandi città con una mostra o un libro è chiedere troppo, penso che questo richieda molti anni, e magari alcuni lavori potranno contribuire a questo cambiamento.

Oltre alla fotografia fai anche cinema, come sei passato da immagine fissa a immagine in movimento?
Il primo passo verso la tecnologia è stato usare la mia macchina fotografica per girare video. Ho cominciato a sperimentare un formato che mescolasse video e foto. Poi con mio fratello minore ho cominciato a registrare la vita quotidiana al negozio di nostro padre, un negozio di sete che vende stoffe alle spose, e da lì è nato il nostro primo film.

C’è differenza tra la maniera in cui fotografi e fai cinema?
Io la vivo nello stesso modo. Tutto quello che ho imparato dal lavoro lo applico nei film. Ci sono delle differenze, ovviamente, ma lo sguardo e il registro sono in relazione diretta con la mia maniera di fotografare.

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