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Cibo

Un giovane cuoco ci spiega come riconoscere una vera (nuova) trattoria

Tommaso Melilli racconta in un libro cosa sono le nuove trattorie italiane, e cosa dicono di noi.
Diletta Sereni
Milan, IT

"Melilli vuole spiegarsi da dove viene questa ritrovata passione collettiva per le trattorie, e perché da questi luoghi antichi sembra arrivare la migliore creatività "

Ho capito che Tommaso Melilli era davvero un cuoco prima ancora di vederlo cucinare o di assaggiare un suo piatto. È stato nella mia cucina, quando rivolgeva sguardi discreti ma pieni di apprensione alle mie mani intente a sminuzzare delle verdure con un grosso coltello. “Fai così, tieni le dita piegate… appoggia le nocche sul tagliere, no, non i polpastrelli…”.

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“I piatti che mangiamo in trattoria non hanno nulla di diverso dalle cose che si fanno a casa, e questo perché la trattoria nasce quando una persona che cucina a casa piuttosto bene decide di farlo per più persone in un luogo più grande”

A ripensarci adesso, quell’episodio era rivelatorio del suo ideale di cuoco, e cioè una persona che, prima di tutto il resto, si prende cura di chi mangia, e di chi cucina con lui. Ed è utile tenerlo a mente, mentre ci si avvia lungo i suoi passi, nel racconto del suo viaggio tra le trattorie italiane, che è diventato un libro, appena uscito per Einaudi col titolo “I conti con l’oste”.

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Il libro è un “viaggio sentimentale” come dice lui, in alcuni ristoranti che “stavano cambiando la cucina italiana” negli anni in cui lui era lontano, e cioè faceva il cuoco in Francia. Un viaggio di ritorno in Italia, con una tappa a Parigi da Passerini prima di sconfinare, e poi da Consorzio, Trippa, Reis, Santo Palato, Il Portico, e anche nella provincia dove è nato e cresciuto, nella storica trattoria La Crepa e nel rinato Bolero. Luoghi che, per quanto diversi, sono tutti riconducibili alla famiglia delle trattorie.

”La trattoria non sente il bisogno di stupire, di impressionare e far capire alla gente quanto è difficile quello che fai”. Perché il cibo può somigliare al cibo, serenamente.

Melilli si ferma a lavorare per brevi periodi in queste cucine, o in sala, col dichiarato scopo di tradurre la sua esperienza in scrittura, di osservare da vicino quali ingredienti, quali umanità, quali pensieri, vi si agitano dentro. Di spiegarsi da dove viene questa ritrovata passione collettiva per le trattorie, e perché da questi luoghi antichi sembra arrivare la migliore creatività. Di spiegarsi cos’è che lo fa sentire un oste, lui che ha lavorato solo nelle cucine parigine, mentre delle trattorie e degli osti italiani, ha solo dei vaghi ricordi.

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Tommaso Melilli

È un viaggio sentimentale e non critico, ci tiene a sottolineare l'autore, perché il libro non ci consegna una mappa delle “nuove trattorie”. Ci consegna semmai un’indagine amorosa su cosa la trattoria rappresenta per la cultura italiana, per la cultura del cibo, e soprattutto per lui, un oste-cuoco di neanche trent’anni che vuole capire le ragioni della sua vocazione e immaginarsi che futuro ha.

Forse lui non sarebbe d’accordo, ma per me, prima di essere cuoco, il Melilli è scrittore, non a caso questo libro porta la scrittura gastronomica fuori dal luogo marginale del “glamour” e del “colore” in cui troppo spesso viene relegata; la porta dritta in mezzo allo scaffale della narrativa, quello di una gloriosa casa editrice, per giunta. E, come mi auguro, molti ne parleranno come un romanzo del reale (altrove la chiamano non fiction), prima ancora che come un saggio di cultura del cibo (quale anche è).

Non volevo fare una recensione e invece guarda come mi ci sono impantanata. Taglio corto per dire che dentro ai “I conti con l’oste” c’è anche un’altra cosa: sparso tra le pagine, in un mosaico di aneddoti vissuti e riflessioni colte, si rintraccia una specie di manifesto politico, su cosa una vera trattoria può e deve essere. Insomma in pratica: come riconoscerla, per tutti noi che ci piace mangiare, ma siamo distratti.

Il menu è corto, e cambia spesso

Pretendere da un ristorante una scelta molto ampia nel menu significa rassegnarsi a mangiare cose vecchie, oppure surgelate. (…) Fra un’ampia scelta e la freschezza, la freschezza è sempre più importante.

Un menu corto, che cambia spesso, è generalmente un buon segno, se ci interessa mangiare cibi freschi, idealmente di giornata. Condizione della freschezza è, ovviamente, la stagionalità. Non è una deduzione certa, ma è certa quella tra menu lungo e assenza di freschezza. Scrive: “pretendere da un ristorante una scelta molto ampia nel menu significa rassegnarsi a mangiare cose vecchie, oppure surgelate. (…) Fra un’ampia scelta e la freschezza, la freschezza è sempre più importante. Anche perché la freschezza dei prodotti, cucinati e serviti il giorno stesso, è anche la freschezza delle idee”.

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Il-Portico

Si impiatta col mestolo

Sarebbe sbagliato, ci fa notare il Melilli, dire che nelle trattorie non si impiatta, perché impiattare vuol dire dare una forma al piatto, che è inevitabile. Ma è anche cruciale, perché a quella forma si attaccherà la nostra immaginazione e il nostro desiderio del cibo. Il grande sforzo della cucina negli ultimi cinquant’anni, e in particolare dell’alta cucina, è stato dare al cibo una forma altra, spesso astratta e svincolata dalla sostanza del cibo che conteneva.

È stata una battaglia per un riconoscimento culturale, per rivendicare una superiorità, per assegnare al cibo “un’emozione estetica e intellettuale pura”. La trattoria non si pone questo problema, e forse oggi può farlo anche grazie a quella battaglia. Perché “non sente il bisogno di stupire, di impressionare e far capire alla gente quanto è difficile quello che fai”. Perché il cibo può somigliare al cibo, serenamente.

Le verdure sono importanti

Il modo in cui un ristorante tratta le verdure è un buon sintomo di come tratta tutto il resto

Il mio fidanzato, un po’ scherzando un po’ no, sostiene che “in ogni paese, la stabilità della democrazia è inversamente proporzionale alla bontà di frutta e verdura”. In Italia abbiamo frutta e verdura buonissima. E una vera trattoria questo non se lo dimentica. Il modo in cui un ristorante tratta le verdure, ci dice il Melilli, è un buon sintomo di come tratta tutto il resto: “se c’è cura in quello, ce ne sarà inevitabilmente anche nel pesce e nella carne.” Ad esempio le verdure possono diventare la portata principale, e la carne un contorno, perché la carne è “quella cosa che potrebbe non esserci, che quando c’è rende tutti più felici, ma che non c’è sempre” (a dirlo, nel libro, è Juri Chiotti, di Reis). E anche quando c’è, la carne si è liberata dall’ossessione “moderna” e illogica per il filetto, per andare a scavare nelle frattaglie, tra diaframma e trippa, matrice e cervello.

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Non c’è bisogno di insegne

Melilli cita lo scrittore Mario Soldati “La buona osteria non ha bisogno di insegne”, ma sposta questa regola su un piano più generale che provo a parafrasare: la buona osteria non ha bisogno di insegnare. Non ti rifila la sua filosofia, la sua appartenenza, la sua missione. Ad esempio, non ti sventola in faccia il feticcio della tradizione, perché la vera trattoria (così come il Melilli) sa che la tradizione non esiste. “La cosa che quasi tutti chiamano tradizione in realtà vuol dire pigrizia, abitudine, e a volte anche insicurezza. Chi fa una cucina antica nel modo giusto, invece, come la fanno qui, non fa niente di diverso dai grandi chef famosi che inventano cose nuove.”

Si condividono i piatti

Anche quando ordini un piatto solo per te, finisci a pescare dal piatto del tuo vicino, che ricambia. Il risultato è una tavola confusionaria, dove il cibo non è un’esperienza individuale ma il collante di un incontro tra persone.

In alcuni casi i piatti si condividono davvero: da Passerini, i secondi sono animali interi, da spartire tra i commensali; al Portico di Lopriore la portata, destinata a tutto il tavolo, arriva separata in varie ciotole (elemento principale, salse, condimenti) e ognuno se la ricompone a piacimento nel piatto. Più in generale, anche quando ordini un piatto solo per te, finisci a pescare dal piatto del tuo vicino, che ricambia. Il risultato è, in molti casi: una tavola confusionaria, dove il cibo non è un’esperienza individuale ma il collante di un incontro tra persone. Scrive il Melilli: “Nei dieci anni in cui sono stato lontano sono successe tante cose, ma ce n’è una che mi ha turbato più di tutte, anche perché sono convinto che sia la causa di molte altre: le persone non si incontrano più.” Alle orecchie ciniche suonerà come un cliché, ed è un peccato. La trattoria (così come l’osteria, la differenza è spiegata nel libro) deve essere prima di tutto un luogo d’incontro.

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È come a casa, ma meglio

Per sentirsi come a casa però, il cibo è importante ma non è tutto, il resto lo fa il fattore umano, riassunto nell’imponderabile, rara e preziosa intelligenza emotiva dell’oste e dell’ostessa.

Melilli ce lo dice a varie riprese: “I piatti che mangiamo e abbiamo sempre mangiato in trattoria non hanno nulla di diverso dalle cose che si fanno a casa, e questo proprio perché la trattoria nasce quando una persona (o una famiglia) che cucina a casa piuttosto bene decide di farlo per più persone in un luogo più grande.” Questa “forma di vita alimentare” l’abbiamo trascurata e lasciata agonizzare per decenni, mentre la nuova ricchezza, dagli Ottanta in poi, ci ha portato a desiderare il filetto e i piatti di lavagna, a volerci sentire internazionali e a dimenticare il nostro passato contadino. Ma il desiderio, si sa, è volubile. Così, in un’epoca dove la nostalgia tampona l’assenza di futuro, eccoci qui a desiderare una cosa che è diventata rara: mangiare come a casa. Più precisamente: andare fuori e sentirci come a casa di quelli più bravi a cucinare, dove il cibo era più buono e anche più digeribile.

Per sentirsi come a casa però, il cibo è importante ma non è tutto, il resto lo fa il fattore umano, riassunto nell’imponderabile, rara e preziosa intelligenza emotiva dell’oste e dell’ostessa. Costui, ci insegna il Melilli, lo riconosci perché sa guardarti negli occhi per capire cosa ti serve, studia ma non si mette in cattedra, sa guidarti senza il bisogno di impressionarti.

Per farla breve, e per tornare a dove abbiamo cominciato, sa prendersi cura. A chiusura di questo manifesto incompleto (nel libro c’è dell’altro) mi sento di dire che Tommaso Melilli non solo ci fa riflettere su cosa sia una trattoria oggi, ma ci aiuta anche a riconoscere un vero oste quando lo incontriamo, ci dà consigli per diventarlo, o almeno per farci i conti.

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