Música

Panico, Politica e Postumano

Abhominal – “Posthuman Structure I” – Immagine via

Uno dei pezzi di musica che ultimamente mi hanno colpito di più è stato The Great Game: Freedom From Mental Poisoning (The Purification Of The Furies) di Chino Amobi e Rabit, da poco fuori in cassetta ma già da tempo ascoltabile in streaming. Si tratta di un simil-mixtape di un’ora in cui un linguaggio da disaster movie viene schiacciato dal suo stesso militarismo per entrare nella realtà: un paesaggio HDustrial che accelera la passione distopica negativa per trasformarla in una rivolta incendiaria, in un’orgia matta. Pochi giorni fa, invece, un mio carissimo amico mi raccontava che l’unico “disco” (che poi disco non è) che ultimamente gli ha detto davvero qualcosa è stato Lexachast, di Bill Kouligas e Amnesia Scanner: una ricerca ossessiva dello straniamento attraverso input che vengono volutamente da ovunque, ma soprattutto da un’idea remota di club music.

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Entrambi i dischi hanno a che fare con un’idea che ultimamente mi interessa molto: il “panico” inteso sia come paura incontrollabile che come sensazione del “tutto” meno religiosa e romantica di, boh… “il sublime”. Il panico è figlio dell’ansia, ma è un figlio contrario, bastardo, che la supera e la rovescia: laddove l’ansia funziona bene come strumento di controllo, il panico è proprio il controllo che se ne va a puttane. “Transexual Satanic Future” dice una delle voci in The Great Game, che è una cosa molto panica, che vi paia attraente o meno.

Se qualche tempo fa mi aveste chiesto qual è il problema politico numero uno di oggi, avrei appunto risposto, con molta decisione, “l’ansia”. Mi riferisco al ricatto che ha messo una generazione intera—o meglio: gli individui, i corpi, le forme di vita che compongono quella generazione—in una superposizione tripla. Lavorativamente parlando siamo anzitutto merce, di larga offerta e scarsa richiesta, e dalla possibilità di essere comperati o meno dipende la nostra stessa sopravvivenza materiale. Di questa merce dobbiamo anche essere venditori e curarne il marketing dentro e fuori dai luoghi di lavoro, “imprenditori di noi stessi” nonché, infine, acquirenti di identità altrui, consumatori del capitale informatico che gli altri mettono sul “mercato”, sui social network quanto in strada. E lo facciamo dentro un corpo sociale collettivo che pare malato terminale, ma che si ostina a non morire. Lo farà? Boh. Ansia.

Lo scambio non è mai gratuito, che lascia impronte. La scia sociale che lasciamo è oggetto sia di controllo da un punto di vista sicuritario che di estrazione continua di dati commerciali, costituisce un genoma da cui vengono continuamente estratte informazioni, che a loro volta formano il profilo iperreale di un “io” che non appartiene a nessuno né lo rappresenta, eppure grava su di noi in quanto dotati dei dei diritti e/o dei privilegi occidentali, compresi quelli che ne hanno meno. L’ansia sta proprio nella prospettiva di perdere questi privilegi che alla lunga hanno costruito un’idea riconoscibile di vita e di bisogno, in quella ancora più pesante di finire schiacciati da un sistema indifferente, perennemente in crisi (quindi sempre in deroga ed esclusivo). Sta anche nell’impossibilità di vivere il proprio corpo secondo le urgenze del vero godimento, che, nel mondo binario in cui ancora viviamo, è sempre più problematico e contraddittorio.

Eppure, dicevamo, “ansia”, come definizione del nostro rapporto col futuro, inizia a non bastare più. Quella stessa paura che culturalmente ci aveva fatti rifugiare nella retromania e nella malinconia hauntologica, presto sfociata in una urgenza travolgente di vedere le rovine (che musicalmente ha avuto l’apoteosi con capolavori tipo l’album dei Raime) che a sua volta ci ha portati poi a rivisitare i modi in cui il passato aveva immaginato il futuro. È in parte anche grazie a questi che ora sembra ci si stia dando una smossa, che si ricominci di nuovo a fantasticare sul tempo a venire. Non mi metterò a elencare nel dettaglio come e chi lo sta facendo perché ci ha già pensato Valerio Mattioli in questo articolo su Prismo. Il problema è che, almeno per quanto riguarda le espressioni più limitate alla sfera artistica, sembra che quasi tutti i nomi citati in quel pezzo facciano un po’ di fatica a immaginare un futuro effettivamente “nuovo”, utopico o distopico che sia, le cui basi non siano già state buttate nella società di oggi o nella speculazione letteraria del passato.

Da una parte c’è sicuramente la preoccupazione che, considerata la velocità di cambiamento sociale e tecnologico, il proprio “sense of wonder” finisca smerdato in pochi mesi, dall’altra la consapevolezza che per immaginare davvero il futuro (di nuovo: utopico o distopico che sia) si debba andare a immaginare oltre l’umano, a fare i conti non solo con la possibilità che gli strati del reale possano contenere una prospettiva che non comprendiamo. Questo in molti causa una specie di terrore Lovecraftiano. Una forma di…. panico, che impedisce all’immaginazione di alcuni di andare oltre, ma che agli occhi altri , come prospettiva politica, rende il postumano davvero niente male. Da Donna Haraway a Rosi Braidotti, sono molti i soggetti pensanti che pensano che mettere al centro della cultura l’idea di “umano” sia un errore, un generatore di oppressione.

Parliamo infatti di una categoria che serve esclusivamente a definire cosa non le appartiene, che storicamente è servita a tenere fuori dall’accesso ai diritti le individualità e corporalità minoritarie/anomale (sia per questioni razziali che di genere) fino a percepirle come “non umane” o “non naturali”. È servito e serve a giustificare razzismi, sciovinismi, maschilismi, omofobie, transfobie, specismi e tutte le politiche che ne derivano. Liberarsi dell’umano significa quindi liberare i corpi. Come scrive anche Valerio nell’articolo di cui sopra, resta da vedere quali corpi: se quelli di minoranze sempre più ibride e composite, sempre più lontane da scansioni sessuali o razziali binarie, o se quelli di multimilionari cyborg tipo il Palmer Eldritch di Philip K Dick. Insomma, esistono sia diversi radicalismi postumani che diverse maniere in cui questi si rapportano al capitalismo avanzato.

Per quanto riguarda il fronte resistente, in realtà stiamo parlando di una idea di futuro i cui connotati xenosessuali stavano già nella “fantascienza” di William Burroughs prima e Samuel Delany e Kathy Acker poi. Per non parlare poi della lezione afrofuturista tenuta da Kodwo Eshun . Soprattutto, questa ricerca di una libidine postumana è praticamente da sempre la quintessenza della musica elettronica da club e di tutto ciò che ne deriva. È musica che si occupa del corpo, in primo luogo interagendoci direttamente, di conseguenza dando vita a contesti in cui i corpi si muovono mettendo in relazione tutta la loro storia politica e aggiungendo altri orizzonti di senso. Dalla mitologia del club come altromondo sicuro per le creature mutanti, a quella più psichedelica e globalista della rave culture, spesso la dance ha espresso una necessità estatica di (r)esistenza, espressa attraverso strutture sonore che spesso estremizzano quello stesso senso di paranoia usandolo per stimolare l’intelligenza di tutto il corpo e le zone erogene della coscienza.

Ma siamo nel 2016, i club sono più un’industria che una cultura, e come tutte le altre sono sia in crisi che costrette a vendere l’immagine del loro prodotto più del prodotto stesso. Il capitalismo cognitivo ha colpito anche lì, schiavizzando la musica forse più di ogni altra forma creativa. Eppure, quello che ancora per comodità chiamiamo underground non ha fatto tanta fatica a reimpadronirsi del futuro, nonostante la permanenza di fronti nostalgici, di fisse accumulatrici per l’analogico e per il vinile, di machismo straight-techno. Il fatto è che gran parte del lavoro creativo necessario alla musica elettronica si compie in un ambiente virtuale, esteticamente e funzionalmente estraneo all’umano. Guardate una schermata di Ableton mentre producete: state generando suoni non-rappresentativi in un ecosistema quasi completamente autonomo.

La generazione che se ne è accorta è apparsa continuamente su queste pagine, e ha capito che, come direbbero i Tiqqun “al ritmo binario e techno imposto dalla cibernetica devono opporsi altri ritmi”, e per cibernetica si intende la società del controllo e dell’ansia. È un mondo composito che è difficile definire musicalmente: fatto di post-post-muzak straniante, di cinematica belligerante, di evoluzioni aliene del groove hardcore, di cattivo gusto trance galvanizzato. Anche in questo Mattioli è arrivato più o meno per primo. Leggetevi lui e tornate qua.

Vi abbiamo raccontato come le queer politics siano tornate prevalentemente nella piega tra musica sperimentale e clubbing. Abbiamo parlato di come le lingue minori stiano ricostruendo una rete diasporica con dentro ritmiche ibride, portando voci non-occidentali e identità a loro volta mulatte. Abbiamo parlato di come affermare la guerra civile a colpi di basse e di come riprodurre il panico. Ne abbiamo parlato con Lotic, con Holly Herndon con Jam City, più recentemente con il collettivo Staycore. Persino l‘ecologia digitale di Fis è una ricerca di vita e libertà nel non umano (sia organico che inorganico). Ma soprattutto, ne abbiamo parlato con Chino Amobi, che tra tutti è quello oggi a fare il discorso più deciso su questi temi, attraversando trasversalmente chi sta al cuore dell’impero come chi batte sulle sue mura per provare a non morire.

Insomma, verrebbe da pensare che si stia ricominciando a capire come fare musica politicamente. Ecco, purtroppo tocca ancora andare abbastanza cauti. Se il mondo là fuori sembra a pochi passi dal panico (ancora, in entrambi i sensi), non è proprio detto che la musica “accelerazionista” (che bomba, non avevo ancora usato questo termine, oggi) sia del tutto matura, e lo dico con parecchio amaro in bocca.

Anzitutto c’è da sottolineare che stiamo parlando di una generazione che vive e tutto sommato prospera dentro un “underground” imbastardito dall’intromissione delle multinazionali e da meccaniche assolutamente non-underground. Se da un lato sarebbe come rimproverare chiunque sia vivo oggi in occidente di non fare la fame in una società capitalistica, è anche vero che prendere alcune posizioni nette servirebbe a dare l’esempio e facilitare la costruzione condivisa di un’alternativa. Insomma, se Lotic lamenta lo statuto etero-consumista dei club di oggi, mi chiedo in che modo questi discorsi possano mettersi in pratica. O ancora: se Fatima Al Qadiri non ha paura di fare album carichi di intertesti politici, mi deve anche spiegare perché due settimane fa l’ho vista suonare alla festa di un marchio di occhiali durante la fashion week.

Il legame col fashion di molti di questi musicisti non è da sottovalutare, è insieme un problema e una risorsa. Non stiamo infatti a demonizzarlo a caso: vestire è un’espressione del corpo che può essere un’arma ludica simile alla musica, e per quanto riguarda molte parti della lotta queer lo è sicuramente stata. Ciò non toglie che il sistema-fashion vada problematizzato quanto quello della musica. Non si può anche negare che il suono cyber-grime-vogue di oggi si sieda comunque anche in contesti molto in pace col loro essere fichetti (vedi Fade To Mind e compagnia bella). D’altro canto, nei DJ set di Lotic o Kablam non è raro nemmeno sentire brani di R&B commerciale, che sono sia dei significanti molto complessi da un punto di vista accelerazionista, sia una espressione camp di sfida all’underground serioso e fondamentalmente maschio/bianco/etero. Lo fa attraverso un intromissione linguistica, aliena perché recuperata nello strato più superficiale.

Comunque, è un gioco libero che a volte può accompagnarsi a uno simile ma basato sull’uso di linguaggi che di primo acchito chiameremmo “cattivo gusto” solo perché venuto da geografie che non comprendiamo. C’è però da dire che l’atto di suonare Rihanna, basandosi fin troppo sulla relazione tra gesto e contesto (AKA non sto mettendo Rihanna e basta, la sto mettendo dopo un pezzo IDM-grime feroce e straniante), rischia troppo spesso di scadere in un sensazionalismo forzato. Soprattutto si rischia che i linguaggi del “military-entertainment complex” finiscano per magnarsi quelli di resistenza. Ma appunto, il gioco di tutte queste neo-avanguardie di lotta dovrebbe stare anche nel confondere il più possibile i due fronti, e caricare al massimo la consapevolezza che tutto il vissuto occidentale è mercificato e mercificabile è uno dei tanti modi di affermare il postumano. Direbbe Grant Morrison, “creare un mondo ideale per tutti, nemico compreso”. Certo, questo non vuol dire accettare acriticamente di riprodurre l’ideologia dominante, non vuol dire finire a fare la pubblicità di McDonald’s per semplice coerenza estetica. Non vuol dire portare tutto questo a un onanismo stile PC Music (e infatti beccatevi Chino Amobi che li dissa su Twitter). Il manifesto Xenofemminista dice “vogliamo più alienazione”, non “vogliamo più annessione”.

Per come la vedo io, non vuol dire nemmeno lavorare con le popstar… Arca è un innovatore e un pirata, ma il suo lavoro con FKA Twigs e Kanye West lo fa scadere. Potremmo vederlo come un gesto di sfida alla sopravvivenza: Arca vivrà, Kanye si divorerà da solo, ma intanto comunque le major avranno guadagnato miliardi. Questa complessità di rapporti si manifesta tutta non solo quando il mondo pop tout-court si intreccia coi linguaggi dell’avanguardia, ma quando sono le stesse lotte ad affiorare nel mainstream più totale, diventa difficile capire come porsi: è il caso di “Formation” di Beyoncé e delle sue evidenti prese di posizione, a cui non sono mancate né critiche feroci né risposte più “ambigue” come quella dei soliti Amobi e Angel-Ho.

Il “problema” riguarda infine anche questioni più tecniche. Se qualcuno lamenta che la produzione HD-cinematica rappresenti uno scarto troppo grosso dallo spirito DIY e raffazzonato che dovrebbe contraddistinguere l’underground militante, una lamentazione che puzza di “popolo del folk vs. Bob Dylan”. Casomai si potrebbe buttare un occhio al fatto he un’estetica così tecnicamente complessa rischia di rinchiudersi in una tecnocrazia molto poco inclusiva, il che, direi, sarebbe politicamente contraddittorio.

Quello che non vorrei, comunque è che questi discorsi risultassero come delle prediche snob che mirano a liquidare un intero “movimento”. Al contrario: mi interessa che questo si organizzi e guadagni autoconsapevolezza, che sviluppi il suo potenziale per costruirsi su scala globale come un dibattito proattivo. Certo, che una rivoluzione possa partire da qui è fuori discussione, ma il potere che questi artisti hanno di generare fratture e da lì dare inizio a conversazioni, è innegabile. La giustificazione di James Whipple (M.E.S.H.), cosciente di avere fatto con Piteous Gate un lavoro iperpolitico, di averlo fatto solo per un suo sentito personale e non per volontà d’azione, è sia limitante che utile. Penso che il riconoscimento di un territorio comune e di un’urgenza comune sia il primo passo in questa direzione, allo stesso tempo non sarebbe un bene appiattirsi su un’ortodossia di movimento.

Il punto è che, dai videogiochi di Brood Ma all’Africa dei Faka, c’è un rizoma di idee ed energie che ricopre sia l’ansia sociale dell’occidente più privilegiato che il panico dell’annientamento che pulsa ai margini, una intersezione di necessità di esistere oltre le categorie e oltre la specie, oltre il consumo di risorse per arrivare al consumo di sé e alla distruzione ludica delle identità. Ma soprattutto: finalmente questo genere di discorsi diagonali non appartengono solo a pochi sci-fi nerd radicali, ma sono sempre più sentite come necessità vitali. Ora serve essere al contempo lucidissimi e restare ambigui sulle interpretazioni dei gesti. Serve un’ermeneutica contraddittoria e caotica, perché, come diceva Burroughs: “il panico è la scoperta che tutto è vita”.

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