Col sake si fa presto a ubriacarsi, perché ci muoviamo su gradazioni alcoliche medie dai 15 ai 20 gradi. Però, mi dice Alessandro forte della sua personale esperienza, la sbornia da sake non è pesante come quella da vino,
Il mio debutto nel mondo del sake giapponese avviene in uno di quelli che a Milano si chiamano “spazio eventi”, dove tutto è dipinto di bianco, la luce dei faretti è gelida e i suoni impastati dal rimbombo. L’unica cosa che riempie la navata sono dei tavoli lunghi e stretti, coperti da tovaglie bianche, su cui sono messe in fila 300 bottiglie di sake. Siccome si tratta di una degustazione alla cieca, per diverse ore le bottiglie restano avvolte da sacchetti neri in tessuto sintetico marchiati col nome dell’evento: Milano Sake Challenge.
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La Sake Challenge è organizzata dalla Sake Sommelier Association, ed è la prima volta che si fa in Italia, mentre il suo equivalente londinese va avanti dal 2012. Lo scopo dell’evento è eleggere i migliori sake secondo il palato italiano, ed è proprio questo assunto relativista che mi ha attirato qui. Per farlo: hanno radunato 70 sommelier di sake, li hanno sequestrati nel suddetto “spazio eventi” per molte ore, divisi in gruppi, e hanno chiesto a ognuno di assaggiare e giudicare 50 sake.
Noi occidentali siamo abituati a sapori più intensi, mentre il palato giapponese è in grado di trovare sfumature dentro a una gamma di gusti che a noi sembrano tutti uguali.
Quando arrivo io stanno già assaggiando da 5 ore, sono quasi tutti uomini e sono arrivati al punto di fatica in cui si allentano la cravatta. Mi inserisco al tavolo della categoria Junmai, dove i sommelier stanno compilando schede di degustazione a ritmo di catena di montaggio, anche se gran parte del loro slancio creativo è concentrato sul suggerire abbinamenti sake-cibo (tempura con sale al tè macha, risotto zucca e timo, carpaccio di pesce crudo in salsa kozo, sanguinaccio alla barbabietola…), e mi permetto di dedurre che hanno molta fame. Se proprio qualcuno dovesse chiedermelo, so articolare una generica definizione di sake in due o tre frasi (bevanda alcolica a base di riso fermentato, per cominciare), ne ho assaggiato qualcuno, ho letto un libro sull’argomento, ma rientro a pieno titolo nell’area dell’ignoranza in merito.
Finita la fase di gara rompiamo le righe, d’ora in poi ognuno può assaggiare quello che gli pare e i sake vengono liberati dai sacchetti neri, manifestando grande varietà di forme e colori. La bottiglia più diffusa contiene 72 cl, ma ne trovi qualcuna da 50 cl e mi dicono che in Giappone va molto la taglia grande: 180 cl. Sull’estetica invece non ci sono vincoli, hanno le forme e i colori più diversi, non a caso oggi vengono valutati non solo i sake più buoni, ma anche i più belli, secondo una giuria di designer che più tardi mi dirà: “abbiamo premiato le bottiglie che esprimessero meglio l’identità giapponese”. Sempre secondo l’opinabile e relativo gusto italiano, s’intende.
Tra i sake sommelier presenti ce ne sono due che conosco, si chiamano Giada Talpo e Alessandro Marzocchi, vittime inconsapevoli del mio piano, ovvero: attaccarmi a loro come un koala al tronco e accompagnarli nel giro di assaggi. È dunque grazie a loro se quello che segue è il racconto di come ho messo qualche pezza alla mia ignoranza, per l’utilità generale.
Non so se è il nostro gusto italiano a renderci così prevedibili, fatto sta che ci fiondiamo prima possibile sulle bottiglie più costose presenti in sala. Siamo nella categoria Junmai Daiginjo, che con uno sforzo di semplificazione possiamo definire la più pregiata. Parentesi: questo è tutto ciò che dirò in merito alle categorie di sake (chi se ne interessa, può iniziare da qui), perché la logica tassonomica con cui sono pensate richiederebbe, per essere ben illustrata, almeno uno spazio tridimensionale rotante. Constatazione che almeno ci dice qualcosa sull’approccio giapponese al dettaglio nonché su quello italiano, qui incarnato da me, del mandare tutto in vacca.
Tornando a noi, una delle bottiglie più costose presenti oggi (e che risulterà tra le più votate della degustazione alla cieca) ha un’estetica a dire poco pacchiana. La sua particolarità, mi spiega Alessandro, è vantare un’altissima percentuale di raffinazione del riso (o sbramatura, o macinatura) che qui arriva al 7%. Cioè il 7% è quanto rimane del riso nella lavorazione, tutto il resto viene scartato o usato per altro (mangimi per animali, ad esempio).
Nel Sake non conta solo la varietà di riso, ma quanto riso scarti
Prima grande verità appresa sul sake: la percentuale di riso utilizzata è l’informazione a cui ti devi interessare ed è una grande discriminante per capire tutto il resto. Alessandro mi aiuta a estrapolare le informazioni cruciali: la sbramatura serve a togliere la parte esterna del chicco, composta da grassi e proteine, e isolare la parte centrale composta di amidi. Questo perché gli amidi, attraverso il processo di fermentazione, sviluppano sapori più delicati (fruttati, fioriti) mentre la parte esterna porta un gusto più amaro. Un sake 7% (ma addirittura ne abbiamo assaggiato uno all’1%, che è più che altro un gioco da Guinness dei primati) costa tanto perché richiede più materia prima e un processo produttivo più complicato. Il gusto finale è estremamente sottile, delicatissimo, vorrei altri sinonimi degni ma il fatto è che il mio specifico palato italiano, al netto del sapore di alcol, lo trova quasi impercettibile.
Se non senti sapori, non è colpa tua
Alessandro mi consola che non è solo per via della mia ignoranza: “noi occidentali siamo abituati a sapori più intensi, mentre il palato giapponese è in grado di trovare sfumature dentro a una gamma di gusti che a noi sembrano tutti uguali. Non solo nel sake, pensa al cibo crudo. Questo si accorda a una caratteristica più generale della cultura giapponese, che è più portata ai significati sospesi, non espliciti, un meccanismo ben incarnato dagli haiku.”
Esempio di haiku:
Nello stagno antico
si tuffa una rana:
eco dell’acqua.
Seconda grande verità appresa sul sake: il mio specifico palato italiano principiante scoprirà di apprezzare nel sake qualcosa che ad esempio non ama nel vino, come l’affinamento in legno (di cedro, nel caso del sake), perché capace di darmi qualche appiglio di gusto riconoscibile. In una stanza piena di segni indecifrabili e sapori impercettibili, riuscire a nominarne qualcuno, qualsiasi esso sia (funghi, mandorla, olive in salamoia) è un momento di conforto, facile da equivocare col piacere.
Giada, che conosce i miei gusti di vino, mi porta ad assaggiare un sake giallo e torbido. È prodotto da Terada Honke, una sagakura (cioè azienda che produce sake) nella prefettura di Chiba, 90 km a nord di Tokyo. Stando ai pareri dei presenti, è un sake che piace solo a me e Giada, ed è la cosa più simile al sake “naturale” che si possa trovare in commercio. Giada mi spiega che viene fatto col riso biologico coltivato dalla stessa azienda e da alcuni produttori della zona, concentrati nel recupero di alcune varietà antiche. La fermentazione si fa con lieviti e microrganismi naturalmente presenti nell’ambiente (compreso il koji, che è l’elemento chiave di tutta la fermentazione) e non c’è filtrazione. Risultato: un gusto fresco e agrumato, leggermente più selvaggio, vivo.
Questo sake è un’eccezione. Normalmente, mi spiega Giada, il riso non è coltivato dalla sagakura e può arrivare anche da lontano. I lieviti e il koji sono selezionati e aggiunti con uno specifico obiettivo di gusto finale. Non esiste niente di simile alla fermentazione “naturale”, ogni segmento del processo di produzione è controllato nel dettaglio e prevede una o più pastorizzazioni, una o più filtrazioni, in alcuni casi l’aggiunta di alcol.
Non paragonare il sake al vino
Il che ci porta alla terza grande verità appresa dal palato italiano della vostra cronista: nel sake il concetto di territorio è, a volere essere generosi, molto debole. L’informazione che leggerete in etichetta, quando avrete imparato il giapponese, è dove si trova la sagakura; sapendo che la sagakura, a parte alcuni rari casi come quello di Terada Honke, prende gli ingredienti altrove, in modo simile a come fa un birrificio. Verità da cui discende il consiglio della vostra cronista: per avvicinarvi al sake col giusto approccio, dimenticate il paragone col vino.
L’unica cosa che identifica il territorio, precisa Giada, è l’acqua. Nelle zone dove l’acqua è più dura, cioè più ricca di sali minerali, si producono sake più strutturati; le zone dove l’acqua è più leggera, come ad esempio la prefettura a ovest di Kyoto, si prestano a dare sake più delicati. Il palato giapponese traduce questa distinzione in sake mascolini vs. sake femminili, una similitudine che riporto per dovere di cronaca ma che mi annoia come solo sanno fare le stigmatizzazioni di genere apparentemente innocue.
Nuova tappa del nostro safari è davanti a un altro sake consigliato da Giada. Lo produce la sagakura Yukikoibana nella prefettura di Yamagata. È un sake frizzante (cioè rifermentato) e torbido, perché non viene filtrata la parte solida del riso, il sake kasu. Anche a me piace ma l’avrei bevuto più freddo, per via delle bollicine. Giada mi offre dunque una breve panoramica sulle temperature di servizio: “è vero che i sake rifermentati vanno bene freddi, ma questo no, perché renderebbe il sedimento solido, separandolo dal resto. In generale, i sake di alta qualità col gusto più elegante (specie i Ginjo e Daiginjo) si servono freschi, intorno ai 10-12 gradi, per bilanciare lo spettro delle sensazioni olfattive e gustative, e anche perché spesso si abbinano al cibo crudo. I sake Junmai (cioè quelli senza aggiunta di alcol) si bevono a temperatura corporea. Quelli che a volte vengono riscaldati, a bagnomaria a circa 50 C°, sono i Futsu-shu cioè i sake da tavola. Ma questa regola generale è complicata da numerose eccezioni e varianti, o dall’abbinamento col cibo, dove la temperatura è considerata tanto quanto il gusto.”
Col sake si fa presto a ubriacarsi, perché ci muoviamo su gradazioni alcoliche medie dai 15 ai 20 gradi. Però, mi dice Alessandro forte della sua personale esperienza, la sbornia da sake non è pesante come quella da vino, forse per via dell’assenza di solforosa, forse perché in generale è più digeribile.
Lascio a chi legge la prova sul campo e mi domando se un po’ più ubriaca mi sarei meglio predisposta all’ascolto di questa grammatica del gusto tutta nuova, lieve e cangiante. Proprio come ci si dovrebbe avvicinare alla lettura di un haiku, e cioè senza il capriccio di interpretarlo.
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