“La botanica principale di questo gin doveva essere il fiore d’acacia. Poi ha piovuto troppo, in più c’è stato un incendio e siamo stati costretti a cambiare. Ci adeguiamo a quello che la natura consiglia.”
Di cosa parliamo quando parliamo di sostenibilità? Si può definire “sostenibile” ogni tipo di attività che riesce a far conciliare le necessità economiche con una produzione che limita molto i danni recati all’ecosistema o al territorio circostante, quasi azzerandolo.
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Ad oggi molte realtà del settore alimentare si stanno muovendo verso una produzione più responsabile: tracciabilità (specialmente per le carni), rispetto dell’ambiente e quindi controllo delle emissioni, limitazione degli sprechi, ma soprattutto, più banalmente, packaging riciclabili e/o con materiali riciclati.
Discorso diverso, invece, per il mondo del beverage, specialmente per gli alcolici. Se da una parte c’è un impegno significativo, da parte delle aziende, nell’utilizzare packaging ecosostenibili, dall’altra c’è ancora poco spazio per una produzione responsabile nell’uso degli ingredienti e nel processo di lavorazione (ad esclusione di vini naturali o simili). Non ci pensiamo spesso, ma il primo vero impatto ambientale che hanno le industrie di alcolici è legato all’agricoltura degli ingredienti principali, come l’orzo per la birra o l’agave per la tequila, per non parlare della quantità di energia usata nel processo di distillazione e quello che concerne imballaggio, stoccaggio e refrigerazione.
Poche settimane fa, però, ho toccato con mano i cambiamenti che, seppur lenti, stanno arrivando anche dal mondo degli spirits italiani. L’ho fatto assaggiando un gin tonic sostenibile che mi ha fatto disprezzare tutti quelli (normali) bevuti finora.
Il nostro è un foraging di tipo conservativo: cooperiamo con l’ambiente, andando a raccogliere le specie che danno fastidio all’ambiente stesso, quelle invasive
Ho incontrato Valeria Margherita Mosca, esperta di foraging e fondatrice di Wood*Ing Lab (laboratorio di ricerca e sperimentazione sull’uso del cibo selvatico per l’alimentazione), Charles Lanthier, imprenditore specializzato negli spirits e Stefano Tosoni, sempre di Wood*Ing. Insieme hanno dato vita a Selvatiq, un progetto unico nel suo genere – e non per modo di dire, sono proprio gli unici a fare una cosa simile.
Selvatiq sviluppa e mette in commercio bevande (alcoliche e non) sostenibili da tutti punti di vista: ambientale, alimentare e packaging. Nella produzione vengono utilizzati ingredienti vegetali – fiori, bacche, rami o radici – che provengono da ambienti il più possibile, incontaminati.
Parliamo di un alcolico composto al 100% da vegetazione selvatica, e dai suoi scarti.
Provo il gin tonic, con un gin 40° floreale e speziato, e poi bevo anche il vermouth e il bitter in dei contagocce, tipo quelli dei medicinali.
Vermouth e bitter sono diversi rispetto a quello che mi sarei aspettata o a quello che bevo abitualmente: intensissimi di sapore.
“Queste produzioni si ripetono ogni 6 mesi ma cambiano ogni volta il territorio di raccolta e quindi le botaniche usate. Il sapore di ogni alcolico può essere completamente diverso da quello precedente”
Il merito di questi sapori così sfaccettati è degli ingredienti raccolti grazie al foraging. ”Oggi si sente molto parlare di questa attività in maniera superficiale, un po’ per moda. In realtà, se fatto nella maniera sbagliata, può creare danni importanti all’ambiente. Il nostro è un foraging di tipo conservativo: cooperiamo con l’ambiente, andando a raccogliere le specie che danno fastidio all’ambiente stesso, quelle invasive” mi risponde Valeria. “Adesso Selvatiq sta sviluppando una marea di altre bevande, spirits analcolici e bevande di vario genere. Per iniziare, abbiamo deciso di entrare nel mercato con tre spirits molto tradizionali, però fatti a nostro modo”.
Il forager è una persona che entra in sinergia e armonia con l’ambiente, lasciando decidere alla natura
Avendo dietro uno studio e un processo di preparazione molto lunghi, i prodotti vengono prodotti in “small batch”: piccoli stock da 5000 bottiglie per ogni tipologia di bevanda. Una delle cose che mi fomenta di più, è che queste produzioni si ripetono ogni 6 mesi, ma cambiano ogni volta il territorio di raccolta e quindi le botaniche usate. Il sapore di ogni alcolico può essere completamente diverso da quello precedente.”
Ad esempio il Beyond Gin è fortemente floreale perché la botanica principale sono i fiori di tiglio, mentre nel Beyond Vermouth prevalgono i sapori freschi del Pino Silvestre; Beyond Bitter è caratterizzato dalla forte aromaticità della Gramigna. Le botaniche questa volta provengono tutte dalla Valtellina. La prossima volta, è probabile che i sapori abbiano note più acide, visto che verranno utilizzate le radici acquatiche, e l’area di raccolta identificata sarà l’area fluviale del Mincio.
Realizzo di avere una cotta enorme per Selvatiq e che, come me la sono presa io, se la prenderanno la maggior parte delle persone che assaggeranno questi spirits. Chiedo quindi a Valeria se sarà possibile, in un ipotetico futuro, incrementare la produzione nel caso in cui aumentasse la domanda. “La nostra produzione rimarrà così. Avremo dei prodotti fatti in grandi quantità perché la natura ce lo permette, altri invece saranno in quantità minori. Preferiamo rispettare le regole del foraging, che ci dicono di essere moderati. Il forager è una persona che entra in sinergia e armonia con l’ambiente, lasciando decidere alla natura”.
Continua poi parlandomi anche dei problemi relativi a una produzione di questo genere: “Ovviamente in questo percorso ci sono un sacco di compromessi con la natura o di cambiamenti improvvisi, ad esempio la botanica principale di questo gin doveva essere il fiore d’acacia. Poi ha piovuto troppo durante la primavera e i fiori erano privi di polline, in più c’è stato un incendio grandissimo nell’area in cui avremmo dovuto raccogliere, e siamo stati costretti cambiare zona e a cambiare botanica. Ci adeguiamo a quello che la natura consiglia. Noi siamo degli osservatori, entriamo in sinergia con la natura e cerchiamo di adattarci.”
Non so bene perché, ma quest’ultima frase mi fa venire in mente le sere d’estate, quando dopo cena ti metti sul balcone a sorseggiare qualcosa e a parlare di tematiche più o meno rilevanti. Qui Selvatiq ci starebbe una bomba, penso.
Parlare di sinergia con la natura selvaggia e incontaminata, associandola ad un alcolico, è tremendamente affascinante. Chiacchiero un po’ con Charles, che con il suo accento tutto francese mi spiega gli aspetti più pratici, come, ad esempio, il packaging ideato e realizzato insieme ad uno studio di grafica e art direction di Milano.
La bottiglia è in vetro, pulita e semplice, mentre l’etichetta non è incollata ma semplicemente tenuta da una fascia rossa che gira intorno e che, oltre a essere un bel modo per poter togliere facilmente l’etichetta e riutilizzare la bottiglia, sta anche a rappresentare il segno rosso che si vede in montagna lungo i sentieri di trekking. Poi, nel caso qualcuno si domandasse come è fatta la botanica utilizzata per fare quell’alcolico, sull’etichetta trova una banda verticale con sopra la scannerizzazione della pianta. Io per queste cose divento matta.
Verso settembre 2020, mi confessa Valeria, verrà lanciata una soda fatta con gli scarti delle foreste, mentre è in fase di progettazione una linea di spirits non alcolici e altre bevande alcoliche più sperimentali. Incuriosita e un po’ brilla vi lascio dicendo che i prodotti di Selvatiq non sono reperibili negli store fisici, ma possono essere acquistati online sul loro store online.
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