Qualche tempo fa parlavo con alcuni amici e dicevo: “Se io fossi un musicista famoso, di cui un locale o, ancora meglio, un festival ha assolutamente bisogno per attirare il pubblico, tirerei la corda tantissimo. Vieterei i telefonini, riempirei di gente il backstage e ogni lista possibile, renderei la vita impossibile alla security”. Perché l’unica cosa che conta, da un certo punto in poi, è il rapporto tra artista e pubblico. Non sto sputando sopra al music business, è una cosa molto utile che aiuta a raggiungere quante più persone possibile e a guadagnarsi da vivere. Quello che voglio dire è che questa tensione è necessaria; naturalmente è impossibile che una pop star stabilisca un contatto personale con ogni singola persona che compone il suo pubblico, ma, se smette di provarci o di desiderarlo, il declino è dietro l’angolo. Il compito di manager, promoter e indotto vario è di tentare di contenerlo e soffrirne le conseguenze. C’est la vie.
Non so se vi è giunta voce di quello che è successo al festival Mad Cool di Madrid la settimana scorsa, durante il concerto dei Queens Of The Stone Age. È successo che, come abbiamo visto succedere ormai troppe volte, l’area del pit, quella immediatamente sotto il palco e riservata ai possessori dei biglietti più costosi, era mezza vuota. E invece l’altra area, quella dei biglietti “normali”, strabordava di persone.
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Come abbiamo avuto modo di notare al concerto di Milano un mesetto fa, il frontman Josh Homme non accetta di buon grado ipocrisia, regole e costrizioni, e ci tiene molto a stabilire un rapporto stretto con il suo pubblico. Così, si è detto: ehi, chi è che ha diviso il mio pubblico? Io e il mio pubblico siamo una cosa sola, chi si è permesso di separarlo per reddito o stato sociale?
Josh non ha torto. I festival possono darci tutte le giustificazioni che vogliono sul valore economico, organizzativo e di soddisfazione del pubblico per avere una o più aree VIP, ma non sono disposto a stare a sentire. Quella dell’area VIP è una spia che indica un cambiamento a livello di psicologia di massa, che fotografa una società sempre più a disagio con il contatto e la vicinanza umana.
“Abbiamo fatto migliaia di miglia per suonare alla vostra festa e per farvi vivere una serata che non ricorderete mai [sic]”, ha detto Josh Homme dopo aver fatto aprire l’area VIP. “E non ce ne andremo finché non sarete distrutti e fatti, finché non starete tutti ballando, limonando o passando la più bella serata della vostra vita. Altrimenti non siamo altro che animali addomesticati” ha concluso, introducendo uno dei pezzi dell’ultimo album dei QOTSA Villains.
E chi può negare il problema del contatto? Stiamo vivendo anni in cui parlare in diretta con un’altra persona è fonte di disagio. Lo spazio privato personale si allarga sempre di più, e allargandosi diventa sempre più sottile, fragile. Alzi la mano chi non ordina la pizza se non può farlo online, o chi si sente perduto se ha il cellulare scarico durante un viaggio sui mezzi pubblici. Soffro anch’io di questo problema.
Possiamo fare in modo che le strutture della nostra vita si adattino a questo cambio, per cui sempre più persone sono disposte a spendere più soldi per entrare meno in contatto con altre persone e godere di un’esperienza come quella di un concerto nella maniera più sicura e asettica possibile (la posizione più esclusiva di tutte, quella riservata ai veri VIP per cui i biglietti non si possono acquistare, è spesso d’altronde su una terrazza lontana dal palco). Oppure possiamo esporci a una certa quantità di disagio e vivere un’esperienza con un certo livello d’intensità, qualcosa che faccia sì che ce la ricordiamo e non ci limitiamo ad archiviarla sulla nostra cloud.
A Josh non fa mica tanto piacere essere osservato come un animale allo zoo. Lui, per scrivere queste canzoni, ha vissuto una vita di introspezione dura e sanguinolenta, e non apprezza di essere chiuso in una teca per essere osservato da gente che più di ogni altra cosa ama scorrere le dita su superfici lisce e trasparenti.
Il grande orco Josh Homme, con le sue simpatie conservatrici e la sua passione per le armi e la sua retorica anti-correttezza politica, ha fatto i capricci sul palco, sì. Ha trattato male la security che stava facendo solo il suo lavoro (“Voi lavorate per me stasera”; “Andateci piano con questi ragazzi, altrimenti sbatto fuori tutta la sicurezza e lascio questo posto a se stesso. Siate gentili o ve ne potete anche andare”), ma l’ha fatto con l’afflato disperato di un artista che non si rassegna a un pubblico freddo e assente.
Richiede uno sforzo collettivo, ma se la smettessimo di comprare quegli stupidi biglietti a prezzo maggiorato forse i festival si sbarazzerebbero di questa pratica classista e ridicola. Potremo ritornare a sentire la musica come qualcosa che colpisce in maniera profonda, a vivere il concerto come un’esperienza che lascia qualche cicatrice. Come ha detto una persona saggia, che, casualmente, era anche uno dei musicisti che suonava al volume più alto della storia, non voglio vivere per sempre.
Giacomo, in aperta contraddizione con quanto scritto qua sopra, è su Instagram.