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The Report è un film potentissimo sull'orrore della tortura

Il film, co-prodotto da VICE Studios e in uscita in Italia a novembre, ricorda che stiamo ancora facendo i conti con l'orrore delle torture della Cia durante la "guerra al terrorismo."
Leonardo Bianchi
Rome, IT
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Adam Driver in The Report. Immagine via VICE Studios.

Se avete visto 24 o Zero Dark Thirty potreste esservi convinti che la tortura è sbagliata e crudele, ma nel mondo post-11 settembre è giustificata perché funziona. Di fronte a una minaccia imminente, dicono, seviziare un detenuto è l’unico modo di ottenere informazioni per salvare vite.

Sia la serie che il film pongono lo spettare di fronte a un dilemma (è giusto fare del male per un bene superiore?) e ti dicono che purtroppo sì, è così, mica possiamo farci qualcosa. Solo che, come rivelato da varie inchieste giornalistiche (inclusa una di VICE), quello non è un dilemma: è propagandata della CIA, che fa comodo solo a loro.

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La realtà è che la tortura, oltre a essere inconcepibile in uno stato che si definisce democratico, non funziona proprio a livello investigativo; anzi, fa solo danni. A sancirlo una volta per tutte ci ha pensato il famoso rapporto sulle torture e rendition (deportazione extralegale) operate dalla CIA, che il Senato americano ha diffuso nel dicembre del 2014 in versione ridotta (circa 525 pagine sulle quasi 7mila complessive, ancora secretate).

È proprio su questo rapporto che si incentra The Report, film che uscirà in Italia il 18 novembre al cinema e il 29 su Amazon Prime. Co-prodotto da VICE Studios e diretto dal regista Scott Z. Burns, The Report segue l’indagine lunga ben sette anni di alcuni investigatori del Senato guidati da Daniel J. Jones (interpretato da Adam Driver), l’estenuante battaglia per renderlo pubblico e le sue conseguenze politiche.

Per chi non conoscesse la vera storia, ecco un riassunto. Tutto inizia nel 2007, quando il New York Times pubblica un articolo sulla distruzione di 92 videocassette della CIA che avevano ripreso gli interrogatori di due uomini sospettati di far parte di Al-Qaeda, Abu Zubaydah e Abdel Rahim Nashiri. Il comitato di controllo sull’intelligence del Senato rimane di stucco: non sapevano nemmeno che la CIA registrasse gli interrogatori.

Jones—che prima di fare il ricercatore per il Senato ha lavorato nell’FBI per qualche anno—viene così incaricato di fare luce su questi interrogatori, effettuati nel 2002 (ossia il primo anno del programma segreto di rendition della CIA). Quello che trova nei cablogrammi della CIA è agghiacciante: tra le varie cose, Zubaydah è stato denudato, tenuto sporco, infilato in una cassa di legno, sottoposto a waterboarding e lasciato completamente solo per 47 giorni.

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Che la CIA rapisse e torturasse i sospettati di terrorismo era già noto all’epoca (in Italia lo si è saputo in maniera eclatante con il caso Abu Omar); così come era pacifica l’esistenza delle “tecniche di interrogatorio avanzato,” elaborate dagli psicologi James Mitchell e Bruce Jessen e sprovviste di qualsivoglia validità scientifica.

Mancavano però le prove; prove che Jones cercherà e troverà per ben sette anni, scavando tra i 6,3 milioni di documenti che gli ha fornito la CIA, ricostruendo per filo e per segno le torture a 119 detenuti, e smontando le menzogne che i servizi hanno rifilato a una nazione trascinata in guerra da George W. Bush e dai neocon. La più grande delle quali, per l’appunto, era l’efficacia del programma: la stessa CIA sapeva perfettamente (e l’aveva scritto in vari documenti) che gli “interrogatori avanzati” non portavano a nulla ed erano palesemente illegali, nonostante le pseudo-giustificazioni giuridiche e morali.

Posti di fronte alla concreta possibilità di veder svelate le loro porcherie, la reazione dei servizi è rabbiosa—al punto tale che arriva addirittura a spiare su Jones e il comitato, provocando quella che la senatrice democratica Dianne Feinstein (interpretata da Annette Bening) ha chiamato una “crisi costituzionale.” Crisi che si protrarrà fino alla pubblicazione del rapporto, in mezzo a pressioni dalla Casa Bianca (nel frattempo passata a Barack Obama) e lotte politiche tra democratici e repubblicani.

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Come si può intuire, una storia di questo genere è lunga e parecchio complicata. La sfida di Burns è dunque stata quella di trasporre su schermo una vicenda basata su un documento molto tecnico, e che si svolge principalmente in ambienti chiusi: il seminterrato di un edificio della CIA in Virginia dove Jones svolge l’indagine, le stanze della tortura sparse in tutto il mondo, gli uffici dell’intelligence americana e quelli del Senato.

Per evitare drammatizzazioni alla Homeland o dialoghi troppo verbosi alla The West Wing, la scelta del regista è stata quella di procedere per sottrazione. Anzitutto, non c’è alcun riferimento alla vita privata o sentimentale del protagonista; né ci sono scene di Jones in mutande davanti a un frigorifero vuoto. “Una delle cose che volevo fare era catturare l’isolamento di una persona, chiusa in questa stanza decisa a fare il suo lavoro in una singola stanza,” ha detto Burns in conferenza stampa a Roma. “Mettere altri luoghi o altri ambienti avrebbe sottratto forza al film.”

Così facendo, The Report riprende e aggiorna la tradizione del cinema politico americano degli anni Settanta; e non a caso il regista ha riconosciuto il suo debito a film come Tutti gli uomini del presidente e I tre giorni del Condor, nonché a registi come Sidney Lumet, Sidney Pollack e Alan Packula. Il rapporto è sempre al centro: l’intero film si attiene ai fatti ed è tutto votato alla denuncia civile.

Se i colpevoli del film sono evidenti—i due psicologi, i neocon di Bush e i vertici della CIA (impersonati anche da Michael C. Hall, Dexter)—l’amministrazione Obama, condensata nel capo di gabinetto della Casa Bianca interpretato da Jon Hamm (Mad Men), non ne esce per niente bene: al netto dei proclami contro le torture, sul rapporto ha tenuto un atteggiamento troppo opportunistico e prudente, quando non ai limiti della connivenza.

Tuttavia, guardando il film è difficile non pensare a quanto nel frattempo sia peggiorato il contesto politico globale; tant’è che oggi ci ritroviamo con il presidente degli Stati Uniti che elogia il waterboarding e promette di implementare pratiche “pure peggiori.” Per non parlare dei vari Duterte o Bolsonaro, che sognano direttamente di instaurare dittature militari.

Nonostante la versione incompleta, Dan Jones è comunque convinto che “se non fosse uscito il rapporto sarebbe stato molto più semplice ricadere nella tortura.” E The Report, sopra ogni cosa, è un esercizio per tenere viva la memoria. “Spero che questo film raggiunga un pubblico più ampio,” ha spiegato Dan Jones a Roma, “e che rafforzi l’idea che tutto ciò non debba più accadere.”

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