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Cibo

Il Walter White della birra

Era cominciato come un esperimento alla buona, e dopo essere passato per la cucina di una mensa scolastica si è trasformato in un business mondiale: ecco la storia di Mikkel Borg Bjergsø.

Foto di Jenny Nordquist. Questo pezzo è una versione ridotta di un articolo di Munchies, il nostro canale dedicato al cibo.

Per ogni Walter White c’è un Jesse Pinkman. Per il professore danese di chimica e scienze Mikkel Borg Bjergsø ce ne sono addirittura due. Nel corso di una festa nel liceo di Copenaghen dove lavorava, Bjergsø si è ritrovato a lamentarsi con due dei suoi studenti della scarsa qualità della lager che veniva servita (siamo in Danimarca, qui i ragazzi non sono costretti a nascondere i fusti nel bosco). Dopo aver convinto la scuola a investire in un kit per la fermentazione, il trio ha iniziato a organizzare corsi nella cucina della mensa. A volte queste sessioni si protraevano fino a tarda notte, con i tre che crollavano sul divano o tiravano dritto andando direttamente a lezione.

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Se Aristotele diceva che i frutti della cultura sono dolci, Bjergsø ha declinato la massima in versione alcolica: “Io e i miei studenti abbiamo lavorato alla birra anche durante le lezioni,” ha spiegato. “Era diventata un’attività curriculare.”

Oggi le birre di Bjergsø sono parte del curriculum di diversi intenditori di birra artigianale. Gli anni dei corsi scolastici sono storia, e le birre Mikkeller sono note in tutto il mondo. Così, quello che è cominciato come un esperimento alla buona in un appartamento di un 38enne di Copenaghen si è trasformato in un business mondiale. Ci sono cinque Mikkeller bar in tutto il mondo—anche a Bangkok e San Francisco—e nel 2013 sono state prodotte una cosa come 125 nuove birre, molte delle quali non sono create in Danimarca. Bjergsø è un "nomad brewer"; inventa le ricette ma appalta il processo di birrificazione ad altre strutture, in particolare alla De Proef Brouwerij, vicino a Ghent, in Belgio.

Mikkel Borg Bjergsø si sbronza con le sue stesse scorte nel retro del Mikkeller Bar, a Copenaghen. Foto di Jenny Nordquist.

Tutto ciò che ha a che fare con il marchio Mikkeler è profondamente radicato nella passione per i sapori forti. “La birra in sé non è percepita come particolarmente cool,” sostiene Bjergsø. “Tradizionalmente è una bevanda proletaria, ma anche un po’ da vecchi. Non volevano creare solo una birreria classica, dice Bjergsø. “Quelle sono sempre buie e piene di uomini e musica rock. Noi vogliamo fare altro. Un posto illuminato, accogliente e anche un po’ femminile.”

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Alcuni hanno definito la sua attività la controparte liquida del ristorante Noma, uno dei punti di riferimento internazionali per la cucina danese. Un paragone assurdo, secondo Bjergsø, ma che lo ha aiutato a costruirsi una reputazione. Una delle svolte è avvenuta nel 2009, quando una birra Mikkeller ha sfidato un vino durante una degustazione al ristorante thailandese di Copenaghen Kiin Kiin; il testa a testa è durato per più di due giorni.

Da allora Mikkeler produce birre per ristoranti in tutto il mondo, tra cui Noma, Kiin Kiin, il Mission Chinese Food a San Francisco, e El Celler de Can Roca in Spagna—al momento il ristorante numero uno nella classifica mondiale dei top 50. “Abbiamo molte cose in comune con Mikkeller,” mi ha spiegato Alfons Bonet Carbó, l’incaricato alla selezione delle birre all’El Celler. “L’innovazione e la passione sono gli ingredienti migliori. La birra che fa per noi si abbina perfettamente ai nostri piatti.”

Quando ci siamo incontrati al ristorante Schønnemann di Copenaghen, Bjergsø si è accontentato di una non-Mikkeler “half & half” —una pils alla spina mischiata con una porter—mentre pranzava con una costoletta di maiale brasata alla stout accompagnata da barbabietole sottaceto e pane di segale.

Come Heisenberg che produce chili e chili di purissima Blue Sky, Bjergsø è orgogliosissimo dei suoi prodotti. Un orgoglio e una cura che trova carenti in quei ristoranti che trattano con poco riguardo la loro lista di birre. “È stupido farsi in quattro per il cibo e il vino e poi servire pessima birra. Chi ha una buona cantina di vini ma serve Tuborg alla spina è davvero privo di ambizioni,” dice. Così Bjergsø ha lanciato una sfida agli chef, quella di capovolgere il pensiero convenzionale creando piatti che accompagnino le birre e non viceversa. Secondo lui,  tra chi ci è riuscito c'è lo chef Jakob Mielcke. Insieme hanno lanciato una serie di birre chiamata MAD (“mad” è "cibo" in danese), dove ogni tipo punta a completare uno dei cinque gusti: dolce, salato, amaro, aspro e umami.

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Al Mikkeller Bar di Copenaghen ci sono venti birre alla spina a rotazione. Foto dell’autore.

Bjergsø  mi spiega che parte dell’ambizione che lo caratterizza arriva dall'avere un gemello. “Abbiamo dei geni competitivi, probabilmente già dal periodo in cui ci contendevamo il cibo nell’utero.” Il gemello di Mikkel, Jeppe Jarnit-Bjergsø, è a sua volta un birraio molto apprezzato e cofondatore del bar Tørst, a Brooklyn. Il suo marchio, “Evil Twin” allude ad una rivalità tra i due, ma Mikkel placa subito gli animi. “Mi fa piacere che lui faccia un buon lavoro, così come gli altri,” dice Mikkel. “Io la vedo più come una sfida con me stesso. Non sono troppo preoccupato di quello che fanno gli altri. Preferisco il confronto con me stesso.”

La Kansas State University conosce bene la determinazione di Mikkel Borg Bjergsø. Nel 1994 il danese vinse il premio Wildcat per le matricole nella corsa sulle brevi distanze. Da ragazzino, in Danimarca, Bjergsø si allenava senza sosta; la birra non gli interessava ancora. Ha vinto i campionati nazionali e una borsa di studio alla Kansas State, ma a 22 anni ha lasciato perché ha capito che non sarebbe mai stato il migliore. Quando ha capito di non aver mai vissuto una vita da ragazzo normale, ha scoperto la birra. L’esperimento della birra fatta in casa risale al 2003, lo stesso anno in cui ha iniziato a insegnare alla scuola superiore Det Frie. Tre anni dopo ha messo in piedi Mikkeller con l’amico Kristian Keller. Nel giro di un anno Keller ha mollato per inseguire la carriera da scrittore, ma Bjergsø ha deciso di tenere il nome, e Mikkeller ha proseguito la sua ascesa.

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Secondo Bjergsø alcuni produttori di birra sono restii a parlare degli aspetti tecnici della loro arte. “Lo facciamo perché dev’essere divertente,” dice. “Non devi complicare le cose. Metti tanto luppolo, sarà buonissima. Pensare che produrre birra sia una scienza è sbagliato. Devi provare e vedere cosa succede.” A volte le cose che accadono per caso si rivelano benedizioni inaspettate. Quando Bjergsø ha commesso un errore di battitura in una ricetta, uno stabilimento in Norvegia ha aumentato di 100 volte la quantità di zucchero vanigliato per una partita di imperial stout. Bjergsø credeva di aver rovinato almeno 10.000 bottiglie, ma poi ha deciso di lanciare il prodotto sotto il nome ‘Beer Geek Vanilla Shake.’ “Le gente è impazzita. L'anno scorso è diventata la più popolare delle nostre birre. Adesso la facciamo sempre così.”

Anche se la produzione della Mikkeler è dislocata in posti come la Norvegia e il Belgio, Bjergsø non ha smesso di usare il piccolo impianto da 100 litri con cui produsse alcune delle sue prime birre. Oggi sforna ancora partite di X Imperial Stout, prodotta senza controlli di temperatura o regolazioni del PH dell’acqua. Potrebbe essere l’equivalente della metanfetamina cucinata in un camper nel deserto, fatto sta che su Rate Beer la X Imperial Stout è ancora tra le prime 50, e non è mai stata fatta con altri sistemi. “È assolutamente basilare, l’acqua non viene trattata, fermenta in secchi di plastica. Se chiedi a un birraio professionista, dirà che è impossibile.” Aggiunge: “Ma è così che ho sempre fatto. E ho ottenuto risultati eccellenti.”

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John Jensen ha usato le birre Mikkeller per creare i condimenti dei suoi Hot dog. Foto dell’autore.

Accanto al piccolo birrificio lavora un altro collaboratore di Bjergsø. John Jensen gestisce un baracchino dove serve salsicce con salse di sua produzione. Ha fatto una mostarda con la X Imperial Stout, immerso le cipolle sottaceto nella birra, avvolto gli hot dog con un foglio dorato, e una volta ha fatto bollire 40 chili di peperoncino piccante con la Mikkeller Black—una stout selvaggia a 17.5 gradi—per creare una salsa piccante.

Gli esperimenti di Jensen potrebbero preoccupare i più tradizionalisti, ma la collaborazione con Mikkeller gli è valsa un esercito di clienti devoti. Jensen non è uno che la manda a dire (ha messo in chiaro con Bjergsø che la loro birra acida è buona soltanto per disincrostare la macchinetta del caffè), e apprezza il coraggio del suo partner. “Io per primo ho sfruttato l’occasione,” dice Jensen. “Mikkel produce la birra che gli piace. Grandioso. Non devi preoccuparti troppo degli altri. Devi pensare a cosa piace a te.”

John Jensen. Foto dell’autore.

A Bjergsø non interessa molto dell’opinione degli altri. In effetti preferirebbe che non si parlasse molto di lui e si bevesse semplicemente la sua birra. “Non sono troppo socievole. Non mi piace attirare l’attenzione, nemmeno se positiva. Mi imbarazza.”

“Abbiamo una certa cultura del lavoro, e i dipendenti l’hanno imparato.” Che tipo di dedizione bisogna avere per lavorare con te? “Be'… credo… devo piacerti io. Questo è il punto.” L’ufficio principale di Mikkeller è a Vesterbro, a pochi passi dal primo dei loro bar aperto nel 2010. Vicino alla sua scrivania c’è una sedia di Verner Panton. “Panton era un ribelle, ha fatto ciò che nessuno si aspettava e per questo non è stato accettato, qui in Danimarca. Ha fatto ciò che gli piaceva e non ha pensato alle conseguenze.”

Due altre figure di spicco nell’ufficio sono Tore Gynther e Tobias Emil Jensen, i due studenti della scuola superiore Det Frie che dalla produzione notturna di birra sono passati al lancio del loro birrificio “nomade”, To Øl (in danese, “due birre”). Bjergsø adesso è socio di To Øl e Gynther e Jensen sono partner del secondo bar Mikkeller di Copenaghen, Mikkeller & Friends. Gli allievi hanno superato il maestro? Sono la concorrenza? “Sì, ma io partecipo a un terzo dei loro affari,” ride. “È una situazione particolare. Finché producono birra buona, sono dei buoni competitor. I peggiori sono quelli che producono birra schifosa, perché scoraggiano le persone dal berla. Finché ci saranno birrifici di qualità che fanno bere birre artigianali alla gente, o che le convincono, è sempre una buona cosa.”