Il messicano Ernesto Muñiz si muove tra fotografia e collage, e nel 2011 il suo lavoro non fotografico è diventato parte del festival PhotoEspaña, esposto accanto a 14 fotografi latinoamericani nella mostra Peso y levedad. Fotografía latinoamericana entre el humanismo y la violencia.
Si dice che nella fotografia, a differenza che in pittura, si cominci da una tela piena e l’autore debba decidere cosa lasciare fuori. Per Muñiz questo accade in entrambi i casi, solo che quello che rimane fuori non smette mai di essere presente. Quella che segue è una chiacchierata via email dove parliamo della sua serie Imagen terminal e del suo lavoro su carta.
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VICE: Come hai iniziato a lavorare da professionista nella fotografia e nel fotogiornalismo?
Ernesto Muñiz: Nel ’93 studiavo graphic design, e mi piaceva molto leggere La Jornada, mi piaceva vedere le foto di Elsa Medina, Frida Hartz, Panchito Olvera, José Antonio López e Victor Mendiola, per citarne alcuni. Facevano foto sentite e valide dal punto di vista estetico: non si limitavano a informare, anche la composizione era eccellente. A quel tempo avevo appena comprato la mia prima macchina fotografica e dal momento in cui l’ho avuta tra le mani ho deciso di diventare un fotografo. Facevo foto di tutto quello che vedevo, e passavo ore nella camera oscura dell’università. Il primo gennaio del ’94 è scoppiata l’insurrezione zapatista e mi sono lanciato nel Chiapas con pochi soldi e la mia macchina fotografica. Sono rimasto lì qualche mese e poi sono tornato a finire gli studi. Nel ’97 sono entrato all’agenzia fotografica Cuartoscuro.
Parlami della tua serie Imagen terminal.
Quando sei nel fotogiornalismo, raffigurare la morte è una cosa di tutti i giorni: incidenti, omicidi, calamità naturali… le opportunità non mancano, e queste scene mi disturbavano un po’. Violenza, sangue, corpi inerti, a volte la famiglia che piange, il suono delle pattuglie, la polizia, i soccorritori … be’, era sempre tutto molto caotico, mentre la mia idea di morte era qualcosa di pacifico. Sai, il riposo finale, il famoso “andare verso la luce”. È questo quello che ho cercato di fare con Imagen Terminal. Ovviamente avevo alcune restrizioni: non fotografare le facce in tutta la loro totalità, non fotografare la famiglia e via dicendo, così ho optato per scatti chiusi e dettagliati. Imagen Terminal mi ha messo di fronte ad una delle nostre più grandi paure, la morte, e mi ha insegnato che di noi, alla fine di questa vita, rimane solo un involucro, e il famoso “fantasma nella macchina” non è più lì. L’unica cosa che importa è andarsene lasciando un mondo migliore di quello che hai trovato.
C’è una grande presenza di morte e religione nel tuo lavoro. Da dove arriva?
La morte è il fine ultimo ed è un problema che noi come esseri umani mettiamo sempre in discussione, che amiamo e temiamo, per questo è molto presente nel mio lavoro. Per quanto riguarda la religione, sono di estrazione cattolica. Da bambino vedevo ogni mattina mio padre fare una specie di rituale: prendeva vari fogli che stavano sulla sua scrivania, se li passava su tutto il corpo, li guardava da vicino, parlava con loro, chiudeva gli occhi, se li stringeva al petto, faceva il segno della croce e lasciava la stanza. Ovviamente, da curioso quale ero, andavo sempre a sbirciare le carte, che erano immagini di vergini e santi, tutte con bei costumi, corone sostenute da angeli, volti perfetti. Penso sia per questo che li uso tanto nel mio lavoro; in più siamo in un paese in cui l’80 percento della popolazione è cattolica e il nostro sincretismo religioso è unico. Tutti preghiamo, come se per santi e vergini non ci fossero né buoni né cattivi. Si chiedono favori agli uni e agli altri, e anche i cattivi possono essere santi.
Come sono legati il tuo lavoro fotografico e il collage?
Cerco di non legarli. La fotografia è sempre stata, nel mio caso, un modo per esprimere l’esteriorità, il mondo in cui vivo, la realtà con la quale mi confronto tutti i giorni; il collage è qualcosa di più introspettivo, più pacifico. Mi prendo il mio tempo, passo ore a tagliare, raccogliere materiale e incollare, è terapeutico. La foto è adrenalina, il buttarsi verso l’esterno. Penso sia per questo che non riesco a trovare una connessione. Non ho mai fatto un collage con le mie foto, per esempio.
Nel fotogiornalismo ci si aspetta sempre una certa obiettività. Se non ricordo male sei stato mandato via da un giornale per aver espresso le tue idee nel bel mezzo di un evento presidenziale. Tuttavia nei tuoi collage questa posizione è molto chiara. Cosa cerchi quando fotografi e cosa cerchi quando fai collage?
Con la fotografia sei un testimone. Certo, si può dare la propria opinione e criticare variando il modo in cui si scatta una foto, i tempi, le espressioni… cerchi di esprimere il modo in cui hai visto quella realtà. Da un lato si suppone che il fotogiornalismo debba aderire alla “realtà”, ma dobbiamo ricordarci che come fotografi ne selezioniamo solo una piccola parte. Nel collage tu sei il creatore dei tuoi mondi, scegli in che rapporto stanno i fogli gli uni con gli altri, quello che vuoi esprimere, fin dove vuoi spingere le tue storie: si tratta di un lavoro molto più personale e interiore. E poi la critica è più diretta.
Anche se hai una formazione da graphic designer ti riconosci più come fotografo, al punto che i tuoi collage sono stati esposti in mostre prettamente fotografiche come PhotoEspaña. Perché, secondo te?
Per un colpo di fortuna? Ahah! Be’, è solo che ho più anni di esperienza come fotografo che come designer, ma adesso sto raggiungendo sempre più cose grazie al collage che alla fotografia. La verità è che preferirei mi riconoscessero come un buon essere umano, e lì spero di arrivarci.
Come ti consideri?
Quante domande difficili! Il mio unico problema è che sono un perfezionista. Scherzi a parte, sono una persona con una grande gioia di vivere, creare e amare. Forse utilizzo le immagini cattoliche come promemoria di ciò che Dio stesso dice nella sua parola: “Inginocchiarsi davanti a un’immagine fatta dall’uomo è adorare l’opera delle nostre mani”—un grave peccato: adorare quello che abbiamo fatto noi, invece di adorare il Dio che ci ha fatto.
Che progetti hai per il futuro?
Ho in ballo due mostre dei miei collage in Texas e a settembre sarò a Liverpool per la Biennale, alla Corke Art Gallery.
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