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Qualche giorno fa è stato annunciato che un cinema storico di Milano, l’Apollo, nel centro della città, sarà sostituito da un Apple store a forma di cubo Fifth Avenue. Meno di 48 ore dopo è emersa la notizia di un altro progetto: l’Odeon, un multisala ancor più vicino al Duomo, dovrebbe chiudere per ristrutturazione a inizio 2016—la Rinascente l’avrebbe infatti comprato per dimezzare le sale e metterci, ovviamente, dei negozi.
Anche se non ci sono conferme, i mille rimbalzi, le critiche dei sindacati, le petizioni dei cittadini per salvare le strutture e i silenzi degli acquirenti fanno pensare che qualche trattativa in corso ci sia davvero.
Tanto che anche a Paolo Mereghetti—sì, quello de Il Mereghetti—son girati cinque minuti, e in un articolo ha spiegato che finora “i discorsi fatti per rivendicare il ruolo di guida ‘morale’ di Miliano erano tutte parole al vento.” Ogni tanto mi è capitato di incontrarlo in giro col suo zainetto: mi sono sempre immaginato che andasse a qualche anteprima nella strada conosciuta come “Via del Cinema”, e non mi piacerebbe affatto vederlo spaesato, a fare avanti e indietro in quello che potrebbe diventare al massimo un corridoio con un unico bagno in fondo a destra.
I cinema, però, quando chiudono, non chiudono a caso. Vi è mai capitato di avere una sala praticamente tutta per voi? Ecco, appunto. Sebbene una sala semivuota sia un sogno per chi ammattisce per quattro starnazzi in sala, è un incubo per chi, invece, con i biglietti ci deve pagare gli stipendi a fine mese.
Tutti questi esempi messi insieme sono la premessa ideale per un argomento che da anni tiene banco su testate di ogni tipo, e che periodicamente riemerge con le dichiarazioni del regista di turno: il cinema in Italia “è in crisi”. O “non è affatto in crisi.” Per sostenere le tesi appena citate, chi si occupa di questo filone giornalistico ricorre a una lunga serie di dati fatti di incassi, sale chiuse e biglietti staccati, senza mai giungere—ovviamente—a una conclusione univoca. Come per tutte le soluzioni così definitive, infatti, probabilmente la verità sta molto più semplicemente nel mezzo.
Secondo le tabelle excel di Cinetel, per esempio, nel 2014 le sale hanno visto una diminuzione degli incassi del 7,09 percento, e del 6,13 percento in termini di biglietti venduti rispetto al 2013. Franceschini, dal canto suo, ha dichiarato che “nei primi otto mesi del 2015 il numero di biglietti è cresciuto dell’8 percento.” A giudicare da questi dati, insomma, più che di tendenza marcatamente negativa si potrebbe parlare di una certa stabilità. Una stabilità che deve tuttavia tenere conto delle nuove modalità di fruizione da parte del pubblico e dei tanti soggetti in campo.
Dovendo chiedersi le ragioni di questi numeri, una prima considerazione è il fatto che siamo ormai nel 2015 e un film appena uscito nelle sale è subito disponibile, anche dopo 24 ore, in streaming, certe volte addirittura in HD—almeno così mi è stato detto. Se una volta andare al cinema era il modo per vedere l’ultimo film e contemporaneamente stare in compagnia, oggi spesso si propende sempre più solo per la seconda opzione. (Almeno nel mio caso, quando non mi va di parlare, una sala semibuia e silenziosa mi dà comunque l’impressione di aver adempiuto ai doveri settimanali di una vita sociale attiva). D’altronde, anche il costo di un biglietto intero è lievitato. Soprattutto se si può vedere il film comodamente da casa—almeno così mi è stato detto. Dai 6,70 euro circa del 2001 si è arrivati ai picchi—per esempio in certe zone della Toscana—dei nove euro di oggi, senza prendere in considerazione le visioni in 3D che si aggirano sui 15 euro. Queste ultime ci collegano direttamente a uno dei “nuovi” agenti in gioco nel cinema degli ultimi anni: i multisala fuori città che, a differenza magari di molti cinema più piccoli, hanno un’offerta più ampia che spesso contempla i blockbuster.
La gente infatti, al multisala ci va. E qui sorge il secondo dubbio: più che di “crisi del cinema in Italia”, forse si dovrebbe parlare di “problema” dei cinema più piccoli o storici. Al di là del caso di Milano, gli esempi sono tanti: per esempio, a Torino, nel 2009, il Cinema Adua è stato demolito per far spazio a un edificio residenziale e il Charlie Chaplin, di via Garibaldi, sostituito da un negozio Benetton. Un multisala appena fuori porta, ad Arezzo, ha decretato negli ultimi anni la morte di tutti i cinema della città, a parte l’Eden che resiste grazie a biglietti gonfiati. Oggi, a Roma, invece, dopo essere stato salvato dalla demolizione da un collettivo, il Cinema America lotta per la sopravvivenza; mentre il Nuovo Cinema Aquila al Pigneto è chiuso da diversi mesi e non è proprio del tutto chiaro il suo destino.
E se è così, oltre alle logiche di mercato, dietro potrebbe esserci anche una questione di offerta: nella top five pellicole straniere e non che sono andate meglio al botteghino a livello nazionale, questo weekend nella programmazione del cinema Apollo di Milano compare solo un film: Suburra di Stefano Sollima. Facendo due conti, si capiscono meglio un po’ di cose.
Per smuovere questa situazione, la presidente della commissione Cultura Michela Di Biase (Pd) di Roma ha proposto una sorta di soluzione: non far pagare più né Tasi, né Tari a Cinema e Teatri della capitale. A livello nazionale, invece, da settembre, al Senato, si discute il disegno di legge a prima firma della senatrice Rosa Maria Di Giorgi (Pd) per la creazione di un “Centro nazionale del cinema e delle espressioni audiovisive”, che prevede, tra l’altro, la gestione di un piccolo fondo per la ristrutturazione dei locali, ma anche una tassa di scopo legata alla singola proiezione.
Nel frattempo, la petizione per salvare il cinema Apollo ha raggiunto le 15mila firme e ieri i lavoratori hanno scioperato contro la chiusura. Ma anche se la lotta dovesse raggiungere il suo scopo, si tratterà comunque di un tentativo estremo di salvare una cosa che, vista la situazione, sembra irrimediabilmente condannata.
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