Cibo

Il piatto a base di pecora dell’Alta Murgia che racconta una Puglia inedita

pecora alla rizzola

Tommaso comincia a tirare fuori gli ingredienti della sua rizzola: ogni macellaio ha una ricetta particolare e c’è chi ci mette perfino le alici.

Noi pugliesi siamo ormai abituati a sentire turisti che trattano la nostra regione come un’unica, lunga striscia di terra. Dove il pasticciotto non è più una specialità salentina, ma viene persino servito nei borghi che s’arrampicano sul Gargano (e questa è colpa nostra, solo nostra).

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Faccio mea culpa: da pugliese, solo negli ultimi anni ho esplorato meglio alcuni territori della mia regione, come l’Alta Murgia, scoprendo una terra ricca di storie e ricette straordinarie. In passato vi ho già parlato di alcune meraviglie pugliesi meno conosciute: per esempio, del Pallone di Gravina,

Perciò oggi mi piacerebbe parlare di un piatto meno noto, fuori dai confini pugliesi, che vi spingerà a organizzare una capatina in Alta Murgia alla velocità della luce. 

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La Pecora alla Rizzola

La Pecora alla Rizzola, anzi, “alla r’zzaul”. Una preparazione la cui origine si perde nel tempo e che unisce alcune delle caratteristiche migliori di questa terra.

Cos’è, quindi, questa Pecora alla Rizzola?

Donato e la sua famiglia sono custodi di una razza in estinzione, la pecora altamurana — ne conservano 10 capi

Più comunemente la chiameremmo “pecora in pignata” (la rizzola è il nome dell’anfora di terracotta) — e leggendo fino a qui potreste tacciarmi di campanilismo — ma ciò che rende così unica questa versione murgiana è la combinazione fra qualità della carne, erbe utilizzate e la modalità di cottura, lentissima.

Per farmi svelare ogni segreto e caratteristica della Pecora alla Rizzola, ho chiesto aiuto a due local, entrambi altamurani DOC: Donato “Il Panda” Mercadante, quarta generazione alla guida dell’agriturismo La Calcara, e Tommaso Pinto della Bottega del Macellaio.

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Azienda Agrituristica La Calcara: azienda agricola alla quarta generazione (Donato e suo cugino), nasce con principi della conduzione famigliare azienda agricola multifunzionale
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In una mattina di fine agosto, Donato mi accoglie, insieme al cugino Ciccio Colonna, nella sua masseria fortificata del 1877, appartenuta ai conti Raiola-Pescarini di Napoli. Insieme a loro potrò toccare con mano cosa vuol dire allevare pecore in modo genuino, costruendo una filiera corta che gli permette di produrre canestrato di pecora senza conservanti e, naturalmente, la carne utilizzata per la rizzola. “La nostra azienda agricola è partita nel 1944 e si è evoluta anno dopo anno, fino al 1988, quando i nostri genitori hanno deciso di tramutarla in un agriturismo, i quinti in tutta la Puglia, riducendo sensibilmente il numero di capi allevati — ai tempi 1200 pecore circa” — mi racconta Donato. Anno dopo anno l’agriturismo è cresciuto e i progetti si sono moltiplicati, tanto che Donato e la sua famiglia sono custodi di una razza in estinzione, la pecora altamurana — ne conservano 10 capi. Per tutelarla hanno anche lanciato un progetto di “adozione”, riconoscendo 5 chili di carne o prodotti caseari in cambio di una donazione.

Uno dei nostri obbiettivi è far avvicinare proprio i giovani a questa ricetta, dimostrando che la pecora non ha un sapore sgradevole come si pensa.

Nel suo agriturismo, Donato serve la Pecora alla Rizzola specialmente nel periodo estivo, quello in cui è più prelibata. “Sai come si dice in dialetto? “A San Giuan lass ‘u figgh’ e pigghj’ a mamm’” (spero di averlo scritto bene Ndr) che vuol dire “A San Giovanni lascia il figlio e prendi la mamma”. Questo detto si riferisce al periodo di trebbiatura, che inizia a San Vito – 15 giugno – e finisce a San Giovanni – il 24 -, e che corrisponde al momento migliore per alimentare il gregge con le ristoppie, i residui della trebbiatura.” Infatti, mangiando paglia e chicchi di grano la pecora raggiunge la sua forma migliore ed è pronta, dopo circa un mese, ad essere macellata e servita nella rizzola. “Oggi, in realtà, si può servire un’ottima pecora tutto l’anno, grazie all’alimentazione secca con foraggio misto e fave”, ma io, caro Donato, sono un tradizionalista, e sono venuto da te proprio nel periodo ideale per gustarla, quello che va da luglio a metà settembre.

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Quindi, quali sono le caratteristiche migliori per una pecora? Un tempo si utilizzavano le pecore più vecchie, quelle che avevano dato tutto ciò che potevano. Donato e Tommaso, al quale è deputata per la preparazione, preferiscono invece la “ciavarra”, le pecore più giovani di 2 o 3 anni che non hanno partorito. Gli chiedo perché. “Il motivo è semplice: questa pecora ha un sapore meno intenso, e più compatibile col palato delle persone più giovani. Uno dei nostri obbiettivi è far avvicinare proprio i giovani a questa ricetta, dimostrando che la pecora non ha un sapore sgradevole come si pensa.” E continua: “Noi, di solito, usiamo la comisana, originaria di Comiso in Sicilia. Vanno al pascolo tutti i giorni mangiando le nostre erbe locali, camminano tanto e per questo sviluppano grasso all’interno. Una buona pecora ha la carne di colore rosso, con una marezzatura del grasso omogenea.”

Se non la sgrassi bene, il grasso si scioglie dentro alla pignata, e non è una cosa buona

Ora basta parlare, però. Voglio provarla: Donato, carichiamo la pecora e andiamo da Tommaso, per favore. Raggiungiamo la sua macelleria in centro ad Altamura. Tommaso è un macellaio di vecchia data: ha iniziato da piccolo dando una mano a suo zio e preparando le prime rizzole per la famiglia; oggi, quarant’anni dopo, ha la sua bottega nella quale la prepara con la ricetta che ha perfezionato negli ultimi dodici anni.

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Taglio misto, cercando di sgrassarlo il più possibile

Osservo Tommaso mentre fa a pezzi la carne, temendo per l’incolumità delle sue dita. Mentre è alle prese coi coltelli, Tommaso mi racconta dell’importanza di questo gesto, la sgrassatura. “Se non la sgrassi bene, il grasso si scioglie dentro alla pignata, e non è una cosa buona”. E, a quanto mi dice Donato, Tommaso è un maestro della sgrassatura. Spezzettata la carne, passiamo in cucina per la preparazione vera e propria. Iniziamo prendendo un grosso contenitore, dove unirà tutti gli ingredienti prima di passarli in terracotta.

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La pignata è fatta in terracotta a misura, prodotta da un artigiano di Terlizzi. Le pignate venivano utilizzate per conservare olio ecc. la forma veniva data in base all’utilizzo. Trattiene molto bene il calore e rimane tiepida per ore. Ha una bocca che parte da 15 cm.

“Della pecora non si butta via niente: spalla, lombata, spatuccia (le più richieste), la pancetta,” spiega “ogni pezzo ha il suo sapore.” Tommaso comincia a tirare fuori gli ingredienti della sua rizzola: ogni macellaio ha una ricetta particolare e c’è chi ci mette perfino le alici.

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Partiamo dal sale, 12-15 grammi al chilo e un pizzico di pepe. Non dev’essere molto speziata, perché sono carne e verdure a dare sapidità. Ci vuole giusto un tocco di peperoncino e pecorino. Poi, ovviamente, l’olio extra vergine d’oliva. E le verdure, sopra e sotto: in quella di Tommaso ci vanno cardo, cicoria e finocchietto selvatici, carote, zucchine, sedano, cipolla, patate, pomodori. “Di solito ci metto più erbe selvatiche, ma quest’estate torrida ha praticamente seccato tutto.” Ma a fare davvero la differenza sono le dosi, che ovviamente non mi rivela, perché “la nostra cucina è semplice, ma non è facile, eh”. 

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Mentre mescola tutto grossolanamente a mano, gli chiedo se conosce la storia della rizzola, visto che la sua famiglia ha origini contadine: “Nasce ai tempi della tosa manuale (oggi si fa elettrica, invece NdR). Un tempo, per la tosa si chiedeva aiuto ad altre persone e per questo il proprietario prendeva una pecora a fine carriera e la cucinava per sdebitarsi. Inizialmente, si scavava un fosso, si accendeva un fuoco e si metteva lì l’anfora di terracotta, da circa 35 kg. La pecora cuoceva per almeno 6 ore, il tempo necessario per la tosa, ma anche per intenerire la carne, molto dura, delle pecore vecchie.”

Mentre travasa il contenuto nell’anfora, gli chiedo se la sua ha qualche caratteristica particolare. “Non proprio. È una classica anfora da rizzola, con la bocca da 15 cm: la mia l’ho fatta realizzare da un artigiano di Terlizzi per poter cucinare il quantitativo esatto per le tavolate”. Chiedo a Tommaso di quante tavolate parliamo in media: “Fortunatamente le persone oggi apprezzano molto la pecora: ormai vendo circa 40 pignate da 10 kg a settimana”.

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La pignata è pronta: un tempo l’avremmo sigillata con un panetto di pane d’Altamura, da far cuocere insieme alla pecora, facendolo impregnare bene. Oggi questa tradizione si è un po’ persa e Tommaso, infatti, si limita a chiudere la rizzola con della stagnola. Dove finiremo, quando tutta questa poesia sarà svanita?

Arrivati a questo punto,, la pignata è pronta per essere infornata. Nel secolo scorso, ad Altamura si è sviluppata una tradizione molto affascinante: portare le anfore a cuocere nei forni a legna dove si cuoce il tradizionale pane. Potrebbe sembrare strano, ma i forni sono spenti: per cuocere lentamente la pecora è sufficiente il calore accumulato in mattinata per la cottura del pane. Noi, però, abbiamo scelto di cuocerla in un altro forno a legna: quello della masseria di Donato. Perciò, riprendiamo l’antico vaso che andava portato in salvo, e torniamo sulla provinciale Altamura-Ruvo Km 6.500.

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In masseria fervono i preparativi per la serata: la cena è sold-out e stasera assaggeremo la pecora prenotata da una comitiva. Mi sorge, quindi, una domanda: quanto costa una pecora? Risponde Ciccio: “È un piatto tutto sommato economico: parliamo di 160€ per 12 persone, una media di 13€ per 500 grammi. Rigorosamente servita con pane d’Altamura DOP per scarpettare”.

Donato, che è anche cuoco nella masseria, posiziona l’anfora nel forno. Ora c’è poco da fare, se non aspettare cinque-sei ore.

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Vi risparmio il racconto di queste ore (ho lavorato, benefici del lavoro in remoto). Perciò facciamo fast-forward, ore 20:30: la pecora è pronta, è il momento di servirla. Quando Donato la estrae dal forno, sfrigola che un piacere e si è formato un sughetto delizioso. “È tutto sughetto naturale, non abbiamo aggiunto un filo d’acqua, scrivila questa cosa” mi dice Donato mentre prepara la mia porzione nel tradizionale piatto rizzulo.

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Ecco, finalmente ce l’ho di fronte. È bellissima: la carne mi chiama, le verdure hanno un profumo e dei colori fantastici. Voglio sbranarla: afferro le posate, taglio la carne — è tenerissima, troppo per essere mangiata con le mani — raccatto qualche verdura qua e là e ingurgito. E… e il sapore è delicatissimo, addirittura dolce a tratti: la cottura lenta e le verdure hanno fatto il loro dovere, creando un’alchimia unica, per nulla sgradevole, anzi. Ne vorrei un bis, ma poi mi ricordo che sto scroccando la pecora di altri.

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E allora, fra me e me, mi dico: pensa se avessi ascoltato le persone, che cosa mi sarei perso.

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