Il ciauscolo è un insaccato di maiale con pasta fina e breve stagionatura. Sua caratteristica fondamentale è l’imprescindibile spalmabilità
Partiamo da un presupposto: le Marche non esistono. Le Marche sono un’espressione geografica che unisce territori frammentati e genti molto eterogenee tra loro. C’è più distanza tra Fano e Ancona che tra Fano e Roma; se per una metà dei marchigiani la provincia di Ascoli è un’enclave abruzzese per l’altra metà chiunque, da Senigallia in su, è mezzo romagnolo. Questo caos da sempre genera grossa confusione nella testa del povero marchigiano che, se posto davanti alla domanda “Ma cosa vi distingue?”, si ritrova spiazzato bofonchiando nel tentativo di dare una risposta. Bene, allora chiariamo una cosa: il ciauscolo è roba nostra, di tutti. Dal sud al nord della regione, dall’Appennino alla costa, con l’eccezione della provincia di Pesaro. Però loro hanno la pizza Rossini.
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Davanti alla domanda “Ma cosa vi distingue?”: il ciauscolo. È roba nostra, di tutti. Dal sud al nord della regione, dall’Appennino alla costa, con eccezione della provincia di Pesaro.
Il ciauscolo è un insaccato di maiale con pasta fina e breve stagionatura. Sua caratteristica fondamentale è l’imprescindibile spalmabilità. Ne vengono prodotte circa 600 tonnellate l’anno nelle province di Ancona, Macerata e Ascoli Piceno. Fun fact: il nome deriverebbe dal latino cibusculum, piccolo cibo, spuntino insomma. La sua origine è stata fissata in un punto particolare: il paesino di Visso e i suoi dintorni, la valle del fiume Nera ai piedi dei monti Sibillini, in provincia di Macerata. Visso che è stata epicentro del terremoto del 2016, comune distrutto in attesa di rinascita, patria di pastori e norcini, terra di montanari ostinati, attaccati alla loro terra come patelle sugli scogli. Inamovibili.
“Noi abbiamo scelto di continuare a fare i salumi come si faceva una volta, senza l’aiuto della chimica, ma non ci sono incentivi. Dobbiamo portare un campione alla ASL ogni volta che insacchiamo, basterebbe usare il salnitro per evitare questa procedura”
Questa, nello specifico, è la storia di Giorgio Calabrò e della sua famiglia, norcini da quattro generazioni, da quando nel 1936 Sante e Lucia aprirono una piccola bottega nel centro di Visso. La storia di chi continua a lavorare come si faceva una volta o, come dice lui, “al tempo di prima”, senza nitrati e senza sofisticazioni, solo sale e pazienza.
Da Senigallia servono un paio d’ore per arrivare a Visso. Quando esco dall’autostrada iniziano a comparire le crepe sulle case, che procedendo diventano sempre più larghe, sempre più profonde, peggiorano chilometro dopo chilometro, inesorabili. E ancora: pareti semidistrutte, balconi scomparsi, tetti sprofondanti. Ecco comparire i moduli abitativi in legno, spuntano come funghi, a famigliole, uno poggiato sull’altro, sparpagliati un po’ ovunque. Strutture asettiche, esuli tra i monti come esuli sono i loro abitanti.
Prima del terremoto avevamo il negozio in piazza Capuzi, nel centro del paese, e stagionavamo tutto in una cantina del tredicesimo secolo. C’erano muffe che vivevano da secoli, l’università di Ancona veniva spesso a fare campioni da studiare e i salumi venivano diversi, non c’è paragone
Tutto il paese di Visso si sviluppa lungo un’unica via. Le le case di legno occupano un intero lato della strada, poco più avanti una transenna blocca la carreggiata: è la zona rossa. L’intero centro storico è inagibile e gli edifici sono tutti impalcati. Sopra il paese una torre spunta dal bosco, è lontana ma ben visibile, anche questa pesantemente danneggiata.
Il negozio dei Calabrò si trova in una struttura nuova, sopra cui un’insegna reca la scritta: Compagnia dei mastri artigiani di Visso. L’immobile è stato costruito dopo il sisma e ora ospita diverse attività commerciali che prima stavano in centro. Mi avvicino ed entro. Un lungo bancone corre per tutto il negozio ed una signora bionda mi accoglie con un sorriso delicato; è Claudia, la moglie di Giorgio. Mi dice che il marito e il figlio mi aspettano nel retrobottega, il laboratorio.
Appoggiato al tavolo un signore sta disossando un prosciutto, impugna il coltello come l’assassino di Psycho, affondando la lama di forza mentre con precisione disegna una linea lungo l’osso. Alza lo sguardo: ecco Giorgio, sessant’anni, sopracciglia folte sopra gli occhi, buoni e azzurrissimi, e baffi generosi che allargano il sorriso che mi rivolge. Mi avvicino e gli stringo la mano: i quasi cinquant’anni di norcineria si rivelano all’istante, dita spesse e palmo calloso.
Il figlio Samuele sbuca da una porta a lato della stanza, porta con sé un secchio pieno di rifilature di carne che riversa in una grossa lastra d’acciaio poggiata sul tavolo e saltando inutili convenevoli mi dice: “Vuoi vedere come si fa un ciauscolo?”.
Si parte dalla selezione della carne, rifilature, ma solo di parti nobili dell’animale: spalla, coscia, lombo, pancetta. “Una volta si metteva dentro un po’ di tutto, adesso si cerca di stare attenti, carni diverse conferiscono diverse consistenze e questa è la composizione ideale”. Samuele prende una bilancia e pesa sale e pepe con precisione, dopo di che sbuccia un grosso spicchio di aglio fresco e lo frulla insieme a del vino bianco. Mette tutto sopra la carne e inizia a massaggiarla per spargere il condimento; non aggiunge altro. In seguito la carne viene macinata tre volte, diminuendo sempre più la dimensione del macinato, alla fine esce dalla macchina finissima, sembra un paté ed ha un profumo incredibile.
“Ognuno ha scelto la denominazione che ha preferito ma molti piccoli artigiani della zona hanno rifiutato l’IGP; il ciauscolo è roba nostra e sappiamo noi come va fatto! Queste leggi sono per l’industria e non ci rappresentano!”
Senza dire una parola, furtivo, prendo un pezzetto dell’impasto e lo porto alla bocca. Velluto. “Noi abbiamo scelto di continuare a fare i salumi come si faceva una volta, senza l’aiuto della chimica, ma è scoraggiante, non ci sono incentivi a farlo. Dobbiamo portare un campione alla ASL ogni volta che insacchiamo mentre basterebbe usare il salnitro per evitare questa procedura. Abbiamo anche rifiutato di stare dentro l’IGP e l’abbiamo fatto sempre per cercare di portare un prodotto che sia il più fedele possibile alla tradizione”.
Li guardo perplesso: “Ma allora non potete nemmeno chiamarlo ciauscolo!“. Giorgio ride sotto i baffi e Samuele mi spiega: “Che importa, avremmo potuto chiamarlo ciauscolo ma per noi non lo sarebbe stato. Le razze di maiali da usare secondo il disciplinare sono poco grasse, non vanno bene, il ciauscolo che verrebbe fuori non si riuscirebbe a spalmare e questa per noi è una cosa imprescindibile, è l’essenza del prodotto. Allora lo facciamo come vogliamo noi, come va fatto, e lo chiamiamo Vissuscolo. Ognuno ha scelto la denominazione che ha preferito ma molti piccoli artigiani della zona hanno rifiutato l’IGP: il ciauscolo è roba nostra e sappiamo noi come va fatto! Queste leggi sono per l’industria e non ci rappresentano!”.
A questo punto la carne passa nell’insaccatrice e Samuele va a prendere un budello naturale di bue, lo ribalta e lo mette nella bocchetta da cui uscirà la carne. Preme una leva e il budello inizia a gonfiarsi, in pochi secondi è pieno e con rapidità Samuele ne lega il fondo, poi ne fa un altro e da ultimo li lega assieme. “Ecco, questa è una coppia, li leghiamo due a due per appenderli meglio e metterli a stagionare” e mi fa cenno di seguirlo.
Apre una porta, l’odore della camera di stagionatura mi arriva nelle narici come uno schiaffo, chiudo gli occhi e gonfio i polmoni neanche fossi in alta montagna. Avete presente l’odore che c’è dal salumiere? Ecco, moltiplicatelo per cento, mille volte. La stanza è piccola, saranno una decina di metri quadrati, ma ovunque stanno salumi appesi: salami e salcicce (non dite salsicce!), lombi e prosciutti, poi ciauscoli, ciauscoli ovunque.
Entra anche Giorgio ma il suo sguardo diventa triste. “Ti piace tutto questo? – mi fa – Prima del terremoto avevamo il negozio in piazza Capuzi, nel centro del paese, e stagionavamo tutto in una cantina del tredicesimo secolo. C’erano muffe che vivevano da secoli, l’università di Ancona veniva spesso a fare campioni da studiare e i salumi venivano diversi, non c’è paragone. Nel terremoto la mia famiglia ha perso quattro case: quelle si possono rifare, la cantina no, è ancora là che aspetta ma dicono ci vorrà almeno vent’anni prima che torni agibile ed io ne ho sessanta. Samuele, sarà lui a tornarci, a riprendersela!” E io sento che qualsiasi cosa possa scrivere sarebbe inadeguata.
Samuele appende i ciauscoli appena preparati. Due mesi di stagionatura per avere un buon ciauscolo. Spunta Claudia con un tagliere regale, è pieno di ogni loro prodotto e un bicchiere di vino rosso accompagna affettuoso il tutto.
Prendo una fetta di pane con spalmato sopra quello che mi sembra ciauscolo. Lo addento e non capisco, qualcosa non mi torna. Guardo perplesso Giorgio che ridendo mi fa: “Quella è trota. Io cerco di valorizzare il territorio e qui da noi scorre il Nera (affluente del Tevere, N.D.R.), le sue acque sono purissime e ricche di pesce. Io sono norcino, ma perché non dovrei provare a fare quello che faccio anche con il pesce?”.
Alle volte capita (o quantomeno capita a me) di associare all’artigianalità, al rigore della tradizione, una necessaria e parallela chiusura alla sperimentazione. Ecco, non c’è nulla di più sbagliato e l’esperienza, l’assaggio, la realtà empirica insomma, mi fanno sempre ricredere. Solo chi è vero custode del sapere è libero di provare il nuovo, sperimentazione che così non diventa mai pretestuoso abbandono all’eccesso, quanto piuttosto un sempre gentile abbraccio con l’esigenza di rinnovarsi. Agostino d’Ippona diceva: “Qui semel dicit sufficit, periit” (colui che dice anche una volta sola “Mi basta”, è finito) e Giorgio dimostra di saperlo bene.
Procedo negli assaggi continuando a ricevere conferme: il ciauscolo classico, burro che si scioglie non appena tocca il palato, delicatissimo e aromatico; i “cotti” di Samuele, prosciutti al forno e mortadelle, buonissimi!; poi assaggio quella che mi sembra una salciccia passita e questa subito mi esplode in bocca, paprika, peperoncino e la carne incredibilmente ematica, non è maiale, ne sono sicuro. A rispondermi è ancora Giorgio: “Quella è una salsiccia di pecora, ne ho pensata anche una coi semi di lavanda ma ancora non è pronta. Qui da noi la norcineria e la cultura del maiale si sono iniziate a sviluppare solamente nei primi secoli avanti Cristo, prima era la pastorizia a caratterizzare queste terre e la popolazione sapeva già come conservare la carne ovina, sono state le popolazioni celtiche a portare il maiale e le tecniche per lavorarlo. Noi continuiamo a preparare salumi di pecora. Anche questo fa parte del nostro territorio e della nostra storia.” Non ne avevo mai sentito parlare, incredibili.
“E forse è stato anche il resistere dei ciauscoli, secolo dopo secolo, a temprare questi montanari, uomini che vivono boschi, pascoli e montagne, immersi in una valle piena di magia: la loro casa”
Mangio tutto, mangio troppo, prosciugo l’ultimo sorso di vino e con il volto gongolante ringrazio. Sono le sette di sera, insieme alla notte è scesa anche la temperatura e soltanto adesso mi accorgo dei settecento metri sul livello del mare. Davanti alla porta del negozio ricompaiono le casette. Visso è un paese che resiste grazie alla tempra dei suoi abitanti. Dietro ogni resistenza sta una trasformazione e dietro ogni trasformazione si nasconde un nocciolo di resistenza.
Anche i salumi resistono: il sale trasforma la carne e la carne trasformata resiste al tempo che trascorre. Poi si sa, un focolare di resistenza ne accende sempre altri. E forse è stato anche il resistere dei ciauscoli, secolo dopo secolo, a temprare questi montanari, uomini che vivono boschi, pascoli e montagne, immersi in una valle piena di magia: la loro casa.
Finché ci saranno persone come Giorgio le case, e anche le norcinerie, torneranno sempre in piedi.
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