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Musica

La superonda musicale italiana

Abbiamo intervistato Valerio Mattioli, autore della "storia segreta" della nostra musica, quando i nostri prodotti culturali oltrepassavano i confini nazionali.

Domani uscirà per Baldini & Castoldi Superonda di Valerio Mattioli, vecchia conoscenza di queste pagine. Se il titolo non è chiarissimo, ci pensa il sottotitolo, "storia segreta della musica italiana," a spiegare di cosa stiamo parlando. Gli anni presi in esame sono quelli a cavallo tra Sessanta e Settanta, e le musiche sono quanto di meglio la nostra Penisola avesse da offrire. Nel libro si parla di Area e Cramps, Piero Umiliani e library music, Luciano Berio e classica contemporanea, Sensations' Fix, Le Stelle di Mario Schifano, Ennio Morricone, Franco Battiato e Claudio Rocchi, Goblin e Dario Argento, Aktuala, Canzoniere del Lazio, Anima Latina, free jazz e un'infinità di altre meraviglie.
Insomma, sapevo già nel momento in cui ho letto l'indice che avrei apprezzato il contenuto di questo libro, quello che non sapevo è che mi sarei trovato davanti a un'opera di grande portata storiografica, in cui davvero a volte sembra di stare leggendo un saggio di storia contemporanea. Approfondiremo il punto nell'intervista, ma c'è da specificare che in questo racconto la musica è davvero sempre parte di un contesto molto più ampio, osservato da vari punti di vista e narrato con grandissima attenzione.
Lo dico senza troppe remore: Superonda è un libro molto importante. Non mi vengono in mente libri di "critica rock" scritti negli ultimi decenni (insomma, dopo certi titoli di Bertoncelli che furono) di questa portata critica, riassuntiva ed enciclopedica a 360 gradi, in grado di mettere un punto e di storicizzare anche per i posteri un periodo così importante e così drammaticamente ignorato (sono più i cultori stranieri a impazzire per certe scene nostrane che non noi che ce le abbiamo avute in casa).
Il libro, scritto con una formula narrativa e non a schede, è assolutamente scorrevole nonostante la mole (seicentocinquanta pagine), anche se un difetto ce l'ha: si legge andando continuamente a consultare Discogs, Amazon, YouTube e similari (non solo per i dischi, ma anche per libri, film e quant'altro).

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Visto che Valerio ultimamente non gira più da queste parti, concentrato sul suo (ottimo) lavoro nella redazione di Prismo, abbiamo colto l'occasione per trattarlo come un vero e proprio autore "esterno" e fargli qualche domanda sul suo primo figlio rilegato.

Noisey: Ciao Valerio. Parlami della genesi del libro: quanto ci hai messo a partorire il tomo?
Ho cominciato a scriverlo un po' più di cinque anni fa, semplicemente perché avevo voglia di provare a raccontare una serie di vicende e personaggi che mi interessavano. Non sapevo neanche che cosa poi ne avrei fatto, e se mai qualcuno l'avrebbe pubblicato. In cinque anni in effetti qualche materiale che veniva dalle stesse ricerche è comparso qua e là—per esempio su Blow Up.

Non vorrei che passasse l'idea di un libro-mattone. Tu hai voluto scrivere un libro che fosse anche divertente, mi sbaglio?
Non so se divertente sia il termine giusto… Diciamo che mi sono divertito a scriverlo e spero che un po' di questo divertimento traspaia anche dalle pagine, ecco. Mi andava di scrivere un libro di musica che potesse eventualmente interessare anche chi, di cose musicali, non legge mai. Immagino anche che qualcuno potrebbe trovare alcuni capitoli un pizzico dissacranti, ma non c'è mai stato un intento di quel tipo, davvero. "Un libro serio ma non serioso" potrebbe essere una formula appropriata, oltre che opportunamente paracula.

Come hai deciso quale taglio dare al libro? I capitoli sono tematici e l'ordine più o meno cronologico. A volte il tema è un singolo artista, o al massimo una "scena". Però il libro non dà mai l'impressione di essere strutturato "a schede", ha comunque uno sguardo d'insieme, un taglio narrativo, e—soprattutto—una contestualizzazione estrema. A tratti, soprattutto all'inizio, sembra più di stare leggendo un saggio di storia contemporanea che non un libro di musica. La musica è sullo sfondo, è parte del tutto, ma è sempre e comunque inserita in un contesto storico, sociale, artistico… Immagino che questa impostazione sia figlia di una visione critica che vede la musica anche e soprattutto come un fenomeno sociale.
Sì, il taglio è fondamentalmente narrativo, è uno di quei libri che si spera uno legga "dall'inizio alla fine": racconta una vicenda, nella quale magari ci sono capitoli più autoconclusivi, e altri in cui ritornano personaggi, nomi o situazioni che già erano comparsi in capitoli precedenti, e che poi magari si sviluppano in capitoli ancora successivi.
Poi sì, in generale mi piace parlare e leggere di musica anche in relazione ai contesti sociali, sociologici, culturali, politici, di cui le musiche sono figlie. Quindi se parliamo di visione critica (è un argomento mooolto scivoloso), mi piace quando qualcuno prova a "unire i puntini", a fornire un quadro più ampio di un fenomeno che di primo acchito uno è sempre portato a ridurre allo stretto perimetro della disciplina di riferimento. Questo ovviamente vale anche per la musica, e a maggior ragione per le musiche trattate in Superonda: perché insomma, sarebbe stato assurdo non tenere conto di quello che fu l'Italia del periodo, no? Cioè, lo sappiamo tutti che gli anni tra Sessanta e Settanta sono stati anni molto particolari per la storia italiana. Anzi, se vogliamo il libro può anche funzionare come un tentativo di rileggere i cosiddetti "anni di piombo"—che solitamente vengono dipinti con queste tinte scure, paranoiche e claustrofobiche—per provare a ragionare su come si trattò anche di un periodo di grandi spinte non solo politiche e sociali, ma anche creative, artistiche e così via. In fondo, piombo a parte, furono anni molto colorati…

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Credo che per scrivere un libro così ci voglia anche una certa dedizione (grafomania?) e disciplina, nonché una certa dose di studio e documentazione. Hai immagazzinato informazioni per anni, o è stato invece più un lavoro di scoperta in fieri?
Oddio, come puoi immaginare in cinque anni ci sono state diverse fasi. Però sì, è stato perlopiù un lavoro in fieri: mi è capitato spesso di ritornare a capitoli che avevo scritto in precedenza, modificandoli sulla scorta di scoperte, ristampe o letture intervenute nel frattempo. Anche perché in cinque anni, specie sul versante "ristampe e riscoperte", come saprai c'è stato l'inferno.

Nell'introduzione al libro la risposta c'è già, però visto che lo stiamo presentando: quali criteri di scelta hai utilizzato? Sia riguardo all'arco temporale, sia sui temi da affrontare (va bene, la psichedelia; ma anche jazz, library… anche il prog, sì, ma poco). Gli anni presi in considerazione sono tutto sommato pochi, ma succede un sacco di roba.
Mettiamola così: all'inizio, un po' (tanto) scherzosamente, pensavo di concludere quell'ipotetica "Trilogia dell'Asse" inaugurata da Julian Cope con Krautrocksampler e Japrocksampler. Dopo Germania e Giappone mancava solo l'Italia, quindi perché non provarci? Ok, è uno scherzo, ma alla fine è anche una traccia. Perché cosa fa Cope in quei libri? Racconta le musiche psichedeliche, strane, d'avanguardia, di Germania e Giappone tra anni '60 e '70. E alla fine Superonda è un po' la stessa cosa, anche se la realtà italiana è parecchio più complessa e magmatica. Un po' lo spiegavo in questo vecchio pezzo proprio per Noisey. Si mescolavano percorsi talmente vari e stratificati che alla fine diventava quasi obbligatorio sconfinare dal mero recinto "rock" per affrontare quello della musica applicata, della musica colta, del jazz, del folk. Considera anche che ci sono alcuni àmbiti—per esempio quello delle colonne sonore—che sono tuttora considerati i lasciti più importanti dell'Italia più o meno "pop" anche in termini di influenza esercitata all'estero… Ecco, un amico/scrittore di cui non farò il nome, Superonda l'ha descritto come "un libro che parla della musica italiana che si filano anche fuori dall'Italia". Che è una definizione un po' drastica e non del tutto corretta, ma un pizzico di verità ce l'ha…

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Parco Lambro, 1976 Un altro modo di leggere Superonda è quello di considerarlo come una specie di storia alternativa della musica italiana. Quindi una storia che volutamente tiene sullo sfondo Sanremo, i cantautori, il prog mainstream, e che si concentra su tutto quello che di altro c'è stato, e che la critica "ufficiale" ha sempre faticato non dico a sistematizzare, ma proprio a riconoscere. Anzi, all'inizio pensavo proprio di fregarmene, che ne so, dei cantautori e di non citarli nemmeno. Poi invece ai cantautori ho dedicato un capitolo a parte perché sarebbe stato oggettivamente stupido fare finta che non siano esistiti e che non abbiano avuto un impatto anche sulle musiche trattate nel libro. Certo, rimangono delle – diciamo così – eccentricità: Superonda è un libro in cui a Guccini vengono dedicate quattro righe e ai Sensations' Fix venti pagine (di cui metà su Superstudio e l'architettura radicale a Firenze, ok). Per quanto riguarda i criteri temporali: l'arco va dal 1964 (l'anno dei primi gruppi beat ma anche dell'edizione "pop" della Biennale di Venezia, del Morricone western ecc) al 1976, che è l'anno di quella specie di suicidio generazionale che fu l'ultima edizione del Festival di Parco Lambro, e che è comunemente considerato un grande spartiacque, "la fine di un'era". Poi sì, tutta la prima parte racconta come si arriva al 1964, e quindi di mezzo ci finiscono anche Studio di Fonologia, nascita delle colonne sonore all'italiana, i primi timidi tentativi di rock'n'roll tricolore… Chiudere col 1976 invece ha significato lasciar necessariamente fuori dischi che, pur se successivi, mi sarebbe piaciuto affrontare con più compiutezza, e che sono veramente tra i miei preferiti in assoluto. Tipo Antico Adagio di Lino Capra Vaccina, che viene menzionato, ma in modo un po' laterale.

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Certo, parlando di un disco del '78 allora avresti dovuto parlare anche del '77, e a quel punto avresti dovuto scrivere un altro volume.
Esatto. Anche se poi di Capra Vaccina si parla a proposito di Aktuala e Telaio Magnetico. Ma gli esempi sarebbero tanti. Però, insomma, a un certo punto uno deve chiudere da qualche parte.

Mi sembra che, leggendo il libro, a tratti venga fuori un po' il problema del pubblico. Mi colpisce per esempio che Battiato, gli Area e (il primo) Alan Sorrenti siano accomunati da reazioni finanche violente ai loro concerti da parte del pubblico. Cosa che oggi lascia un po' basiti, perché sono considerati mostri sacri, capitoli fondanti. Roba che in molti darebbero un braccio per potere andare indietro nel tempo a vedere quei concerti. Invece in pratica venivano apertamente osteggiati. Era un problema specificamente italiano? Erano semplicemente TROPPO avanti ed è normale così? Del resto si dice che pure alle prime esecuzioni di Stravinsky…
Non credo che il pubblico italiano fosse particolarmente indietro rispetto ad altri pubblici di quegli anni. O forse sì, magari lo era pure, però non credo che sia questo il motivo per cui le esibizioni di personaggi come gli Area o il primissimo Battiato scatenavano reazioni tanto accese: erano proprio quei progetti ad essere pensati e concepiti come provocazioni, e non a caso sia Area che Battiato erano prodotti di Gianni Sassi, che veniva da tutto un retroterra (Fluxus, i situazionisti…) che lavorava molto sull'idea di provocare il pubblico, di suscitare reazioni anche violente. Poi, certo, uno prende il modo in cui la critica ufficiale tratta questi nomi adesso, e ti ritrovi con queste agiografie all'acqua di rose in cui gli aspetti più problematici (e anche interessanti) di questi personaggi vengono bellamente tralasciati. Pensa a Battiato: ok, nel frattempo è diventato una delle popstar più popolari della nazione; ma l'immagine del Battiato-santone, del cantautore mistico dalla vaga aura new age, fa semplicemente a botte coi tempi in cui ai suoi concerti si scatenavano risse e la gente prendeva d'assalto il palco in mezzo a una bolgia di noise e rumori elettronici sparati a palla.
Devo però dire che Battiato è sempre molto felice di ritornare con la memoria a quegli anni: anche quando lo intervistai per XL, passò tre quarti dell'incontro a raccontarmi di Gianni Sassi, Pollution e tutto il resto. Forse—ipotizzo—è lui stesso infastidito dall'immagine che la stampa mainstream dà del suo personaggio.

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Lebel, Sassi, Cage

Parlando di Area, una cosa che mi sono sempre chiesto (e sulla quale prima o poi vorrei scrivere qualcosa) è: quanto c'era di costruito? Addirittura nella biografia di Sassi uscita qualche tempo fa, l'autore praticamente gli attribuisce la stessa identità politica del gruppo, una sorta di boyband ante litteram: ragazzi riempiti di contenuti di un certo tipo. Mi ha stupito molto scoprire, leggendo quella biografia e poi I Padroni della Musica (Stampa Alternativa, 1974), che quella che ritenevo l'etichetta alternativa per antonomasia era invece considerata all'epoca, nei giri più underground, alla stregua di robaccia finta e commerciale. Però mi sembra che, anche con tutto il lavoro sulla comunicazione e il marketing da parte dell' "americano" Sassi, sia comunque innegabile il valore dei dischi; si trattava in fondo di una persona che, pur con tutta la furbizia di questo mondo, tirava fuori le collane "nova musicha" e "DIVerso", che anche con tutta la buona volontà faccio molta fatica a vedere come furbe e facili o di scarso valore.
Gianni Sassi era innanzitutto un pubblicitario, e questo è un particolare che non può non essere preso in considerazione quando si analizza il suo lavoro di quegli anni. Era senza dubbio un tipo spregiudicato, certo. Ma non credo proprio che, come veniva accusato dall'underground dell'epoca, le sue operazioni fossero in malafede, o che tentasse di cavalcare il movimento a fini biecamente commerciali (anche perché è noto che dal punto di vista commerciale Gianni Sassi era un tipo molto "distratto", diciamo). Era un creativo interessato all'arte d'avanguardia e dagli intenti se vogliamo nobili, forse un pizzico romantico, forse addirittura un po' ingenuo, che al tempo stesso studiava tutte queste tattiche parecchio audaci e non sempre cristalline, e che alle volte ti facevano dubitare sulle sue reali intenzioni. Alcune sue trovate ricordano da vicino quelle che di lì a breve avrebbe attuato un personaggio per altri versi diversissimo come Malcolm McLaren, che non a caso veniva da un retroterra situazionista anche lui. Nel libro mi dilungo parecchio su Sassi, la Cramps e gli Area, e credo che, leggendolo, il mio giudizio personale su quella vicenda sia molto chiaro. A dire il vero, per me gli Area non sono il progetto più interessante di Sassi, anche se di sicuro furono la sua creatura più fortunata. Però, anche qui: non è che gli Area fossero dei poveri sprovveduti nelle mani del mefistofelico gran burattinaio. Per loro Sassi fu innanzitutto una guida e la fonte di innumerevoli stimoli, musicali e no. Devi anche tener conto dell'Italia di quegli anni, del fatto che un'intera generazione provava ad allargare il proprio panorama esperienziale e il proprio bagaglio sia politico che culturale. E in quella temperie immagino che gli Area, che non erano proprio giovanissimi ma abbastanza giovani sì, abbiano trovato in Sassi un riferimento in grado di instradarli su percorsi che forse, senza di lui, non avrebbero mai intrapreso. Poi chi lo sa, magari Demetrio Stratos sarebbe passato da Pugni chiusi a Cantare la voce anche senza l'aiuto di Sassi e dell'intero giro Cramps.

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Originariamente ti ho sempre visto legato a altre musiche, principalmente al noise. Come si passa alla distanza siderale da quelle sonorità che c'è in tanta della roba trattata in Superonda? Anche se in fondo credo che tutto si tenga: uno potrebbe formularla tipo "dai Wolf Eyes a Alvin Curran", ma i Wolf Eyes stessi sono passati dall'abravisità più totale a una cosa che si ispira molto allo spiritual jazz, e Alvin Curran prima di darsi alla placidità del Giardino Magnetico veniva dal casino assoluto di Musica Elettronica Viva.
L'artista su cui più ho scritto in assoluto è Paul McCartney, altro che Wolf Eyes! [Ride]
In effetti negli anni Zero ho scritto un sacco di roba su quella che all'epoca veniva genericamente chiamata "scena noise"; per Blow Up ho compilato persino una guida, chiamata Noisers, proprio su quei materiali lì. Però sotto la sigla "noise" andava praticamente l'intera scena "rock sperimentale" dell'epoca. Di mezzo c'era di tutto: dagli Animal Collective ai Black Dice, dal folk alla psichedelia, dalla musica improvvisata all'elettronica freak out. Da quella scena vengono per dire personaggi come James Ferraro e Oneohtrix Point Never che sono i principali riferimenti della nuova elettronica anni Dieci. Quindi se tu hai questa immagine di me come di un tizio che a vent'anni passava 24 ore al giorno a martoriare i timpani dei vicini con qualche insostenibile megabox di power electronics, mi spiace deluderti: quello non sono io, quello è Demented Burrocacao! Scherzi a parte: in realtà, la cosiddetta "scena noise" anni Zero altro non era che la naturale prosecuzione dei materiali trattati in Superonda. E cioè un ulteriore capitolo di tutta quella tradizione che nasce con la prima psichedelia, prosegue con l'underground freak, si contamina con l'avanguardia più eccentrica, passa per il post-punk, e così via. Come ricordi tu stesso, l'Alvin Curran delle bucoliche reiterazioni minimaliste di Giardino magnetico, è lo stesso Alvin Curran che tre anni prima faceva tremare i muri di Trastevere coi MEV. Che a impatto sonoro, erano se possibile più devastanti degli stessi Wolf Eyes.

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Franco Falsini (Sensation's Fix)

Forse non si dovrebbe mescolare il tuo ruolo di giornalista con quello di musicista, e quindi dovremmo evitare di tirare in ballo gli Heroin In Tahiti; però è difficile non pensare a Sun And Violence quando nella parte su Alan Lomax e Diego Carpitella si legge di "una terra spaccata dal sole e dalla solitudine dove l'uomo cammina sui lentischi e sulla creta mentre scricchiola e si corrode ogni pietra da secoli". Alla fine penso che il gruppo si sia sviluppato proprio mentre lavoravi a questo libro e, insomma, è una cosa che si sente nella musica e anche nel libro. E non vedo perché dovrebbe essere un male.
Questa proprio lasciamola stare [Ride]. Veramente, non mi va di parlarne… Forse ti posso dire questo: ho cominciato a scrivere il libro nello stesso periodo in cui con Francesco De Figuereido cominciavamo a suonare come Heroin In Tahiti e, sì, immagino ci sia stata una dialettica tra questi due progetti. Ma dovresti chiedere anche a Francesco cosa ne pensa!

Quella di non mettere discografie consigliate è una scelta precisa? Così a uno tocca leggerselo per davvero?
Diciamo di sì, [Ride] così a uno tocca leggerselo per davvero: potrebbe essere una buona risposta. Ma la verità è che in generale non sono tanto bravo con questo tipo di liste, anche da lettore non faccio molto caso a listoni del genere. Rimanderei semmai alla già citata lista scritta per Noisey un paio d'anni fa, anche se chiaramente ora aggiungerei qualche titolo in più.

Chiudiamo con una questione "problematica": siamo sempre più invasi da un'infinità di ristampe, che complessivamente vendono più dei dischi nuovi. E se penso a chi si compra solo ristampe di library e colonne sonore credo che sia uno degli ascoltatori, beh, più… borghesi possibile. Ma il problema è che si tratta di una figura a me vicina, che a volte sono addirittura io. C'è anche l'annosa questione della musica rivoluzionaria venduta a centinaia di euro: il collezionismo è sicuramente un hobby da salotto, ben lontano dallo spirito rivoluzionario di molti artisti.
Seguire oggi queste musiche contiene in sé già un controsenso?
Abbiamo preso per il culo per anni i patiti di prog italiano, roba da giapponesi, e poi ci è bastato che arrivasse roba un po' più storta per fare lo stesso?
Eh, bella domanda. Mettiamola così: è senz'altro buona cosa che materiali che si credeva dimenticati, o che anche all'epoca stessa della loro uscita erano passati sotto silenzio, tornino a circolare. Anche perché senza tutto questo lavoro di indagine e di scavo, avremmo una visione della storia della musica pop molto parziale, per non dire superficiale. Cioè, senza ristampe e robe assurde come, non so, la Nurse With Wound List (che è del 1979!), probabilmente molti di noi starebbero ancora a quel semplicistico pantheon da piccola enciclopedia del rock per il quale dopo Beatles, Dylan e Pink Floyd è il nulla. Ora: io sono molto felice di sapere che, per esempio, hanno appena ristampato Tecnologia di Farlocco (compratelo!), o che i dischi di Egisto Macchi incisi quarant'anni fa siano così apprezzati dal pubblico di adesso. Però: schiacciare i propri ascolti unicamente sul passato, o peggio ancora idealizzare i bei tempi andati e arrivare alla conclusione che "ah, la musica di una volta sì che era tanto bella, altro che quella merda che gira oggi!", ecco, questo è un atteggiamento che personalmente trovo proprio deleterio. O più che deleterio, reazionario—che ovviamente è pure peggio.
Capisco che possa sembrare un discorso paradossale da parte di uno che ha scritto 650 pagine su musiche di quaranta e cinquanta anni fa… Ma anche qui, qual è il senso di un libro del genere? È chiaro che chiunque lo può vedere come gli pare, e quindi ci sarà quello che Superonda lo leggerà come "il libro su quando in Italia succedevano cose fiche". Però mi auguro che ci sarà anche chi in quelle pagine troverà spunti e stimoli da applicare all'oggi, possibilmente non limitandosi alla mera emulazione nostalgica. È per questo che nel libro ho insistito tanto sul contesto, sul rapporto con le altre arti, sul legame coi movimenti sia politici che culturali del periodo. Perché nel 1965 la nascita di un posto come il Beat 72 era tanto importante? Perché i festival di Re Nudo non erano solo rassegne musicali ma "qualcosa di più"? La risposta alla fine è molto semplice, ed è: perché rispondevano a tensioni e slanci caratteristiche di quegli anni. Quindi va da sé che se io, nel 2016, dovessi ipotizzare un "nuovo" Beat 72, non starei a fare le rassegne con Carmelo Bene o i lunedì di musica con MEV, ma proverei a, boh, capire chi possano essere i Carmelo Bene e i MEV di oggi. Con l'ovvia possibilità che magari è gente che di Bene e MEV non gliene frega un cazzo—che va benissimo! Cioè, anche negli anni Sessanta e Settanta era pieno di gente fissata con dada, coi surrealisti, coi movimenti artistici degli anni Trenta… Ma non è che leggessero solo Breton e basta (oddio, forse qualcuno sì). Piuttosto ne proiettavano lo spirito ai tempi che vivevano.
E questa cosa per fortuna c'è ancora, anche se magari non nelle dimensioni a cui l'Italia era abituata quarant'anni fa.

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