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Il problema che ho avuto la prima volta che ho guardato The Impossible è che, nei primi tre minuti di film, Ewan McGregor parla.
Ewan McGregor parla con un accento scozzese affettato e altoborghese, con un’enunciazione delle battute che non è esattamente la più appropriata della sua carriera, ma sembra piuttosto un mash-up delle scene migliori di The Room.
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Quella prima scena sull’aereo non prometteva nulla di buono, con quei problemi da primo mondo, quella specie di Bignami del nucleo famigliare (mostriamo tutti i personaggi e tramite frecciatine nel dialogo evidenziamo loro qualità che cambieranno nel corso del film!) e con Ewan McGregor che enuncia gentrificato.
Fortunatamente, The Impossible non è tutto così.
Juan Antonio Bayona, noto agli americani come J.A. Bayona, è il regista che un giorno è andato da Guillermo del Toro e due minuti dopo si stava facendo co-produrre il suo primo lungometraggio, The Orphanage—un horror ben consapevole del proprio genere di appartenenza, ma ricercato nella forma, pieno di pianisequenza e trucchetti visivi che creavano gran parte della tensione e che hanno fatto guadagnare al film una standing ovation infinita alla sua prima proiezione al Festival di Cannes.
The Impossible è il primo capolino fatto dal regista spagnolo a Hollywood. Un ingresso atipico, benché piuttosto atteso, visto che il film è stato prodotto interamente in Spagna, con un budget ristrettissimo, o meglio, ristretto per il tema che tratta, e per come lo tratta: The Impossible parla di un vero evento e di una storia vera, la storia vera di María Belón e della sua famiglia, sopravvissuta allo tsunami del 2004 in Tailandia.
È chiaro che, in virtù delle sue componenti di storia reale, e drammatica, il film non era stato pensato unicamente come disaster movie incentrato sulla catastrofe, eppure il disaster c’è, in una delle sue forme più dolorose.
Non avendo il budget per dare il via a un festival di computergrafica, Bayona si è basato in gran parte su effetti meccanici, modellini, enormi vasche piene d’acqua, e un uso incospicuo del green-screen. Grazie a questa combinazione vecchia come il mondo, The Impossible è riuscito a ottenere, oltre a un evidente risparmio, un incredibile realismo di base, essenziale nella costruzione dell’angoscia del resto del film. Praticamente, The Impossible prende la scena dello tsunami di Hereafter, le dà un quarto d’ora di schiaffi in faccia, poi le mette un cappello da asino in testa, si volta e se ne va.
La catastrofe occupa una porzione rilevante del racconto, e ogni inquadratura di correnti inevitabili, vegetazione conficcata nei corpi, fratture esposte, è un susseguirsi di bocche spalancate e unghie che si conficcano nelle mani da parte del pubblico. Ma dopo la catastrofe si inserisce la sopravvivenza, nella fattispecie una sopravvivenza fatta di decisioni sbagliate, gruppi che si formano e si distruggono, cancrene, spine dorsali ammaccate. Il film è sostenuto da una consistente dose di sentimentalismo. Eppure c’è una scena, riguardo la quale non seguiranno spoiler, durante la quale ho visto piangere uomini che hanno accusato Nebraska di “barocchismi sentimentali.”
Questo perché nei momenti migliori, The Impossible costruisce tensioni anche e in larga parte grazie all’uso di una grammatica cinematografica appropriatissima per ciò che deve raccontare; nei momenti peggiori, Ewan McGregor dice qualsiasi parola che cominci con la “a.”
Poco dopo la sua uscita nei cinema, a fine 2012, al film è stato imputato di costruire un’epica della catastrofe utilizzando il sentimentalismo di protagonisti benestanti, stranieri (gli spagnoli della realtà nel film sono stati trasformati in inglesi) e che non hanno dovuto convivere con le devastazioni del post-tsunami di una terra che, comunque, non abitavano. Tutto verissimo: The Impossible sfiora solamente il discorso delle popolazioni locali, e non è certo un caso esemplare di antropologia dei disastri (com’era, per esempio, Himizu di Sion Sono, girato a pochissimo tempo di distanza dallo tsunami in Giappone). Insomma, tutto quello che poteva non essere bianco è stato trasformato in bianco.
Dalla sua, però, The Impossible lavora sul territorio del trauma individuale (a partire dal suo inizio ai limiti dello splatter) e lo fa anche, e consapevolmente, in virtù del fatto che i suoi protagonisti sono i bianchissimi, ricchi, comodamente hollywoodiani Naomi Watts ed Ewan McGregor. E ci mostra che l’essere umano, privato di tutto, può dimostrarsi dotato di risorse imprevedibili.
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