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Quella di Poletti e gli universitari italiani è una polemica morta in partenza

La dichiarazione di Poletti sui fuoricorso ha fatto incazzare tutti. Ma il vero problema è che questi sono gli unici casi in cui si parla attivamente di cosa dovrebbero fare i giovani in Italia.
Niccolò Carradori
Florence, IT

Università di Bologna, foto di

Lorenzo Pardi.

Ormai fa pienamente parte del ritmo circadiano del dibattito in Italia: ogni tot mesi scatta inesorabile la polemica che coinvolge giovani/università/lavoro, quella che sui social network si traduce in prese di posizione e infamate a politici/opinionisti che "dovrebbero farsi i cazzi loro perché non hanno diritto di parlare."

L'ultima in ordine temporale è stata innescata dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti, che durante la conferenza di apertura di "Job&Orienta" ha osservato come la tendenza di alcuni giovani italiani a procrastinare gli studi per ottenere un voto di laurea migliore sia inutile e infruttuosa: "Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21," ha detto Poletti. "I nostri giovani arrivano al mercato del lavoro in gravissimo ritardo. Quasi tutti quelli che incontro mi dicono che si trovano a competere con ragazzi di altre nazioni che hanno sei anni meno di loro e fare la gara con chi ha sei anni di tempo in più diventa durissimo."

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La sua frase ha immediatamente creato due correnti: da una parte i favorevoli a Poletti, buttatisi a loro volta in critiche verso il tempo perso dai giovani, e dall'altra, molto più numerosi, i contrari.

— Pamela Ferrara ㋡ (@PamelaFerrara)27 Novembre 2015

Come è facile osservare se si ripercorrono a ritroso i tweet legati alla vicenda, quasi tutti gli utenti che criticano Poletti si concentrano sul fatto che il ministro non abbia alcuna credibilità per pronunciare un'affermazione del genere perché non si è laureato, mentre altri sottolineano le ombre che gravano sulla sua figura politica.

E ciò che evidenziano tutte quante, al di là del personaggio politico a cui fanno riferimento, è la tipica tendenza di queste polemiche di concentrarsi su chi l'ha innescata piuttosto che controbattere sull'argomento. Il fatto che a pronunciarla sia stato Poletti, in effetti, è rilevante fino a un certo punto. Perché è tutto quello che c'è dietro che dovrebbe impegnare i tweet e le reazioni infuriate.

La verità è che la dichiarazione in sé è assennata: è tutto sommato condivisibile che riuscire a ridurre i tempi di laurea sia una cosa positiva, e che spesso il percorso di molti studenti italiani presti il fianco alla procrastinazione. Ma il punto è che non si può liquidare una questione così complessa in modo tanto semplicistico, e che questo genere di polemica non arriva mai al succo autentico della questione. E per capirlo basta fermarsi a contare.

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Gli esempi del genere si sprecano, e ripercorrerli non è interessante solo per capire come degenerano, quanto per rendersi conto del fatto che negli ultimi anni si sono riverberati senza soluzione di continuità, e rappresentano praticamente le uniche occasioni (e l'unica modalità di argomentazione) in cui nel nostro paese si affronta la realtà del mondo giovani/laurea/lavoro.

Solo per citare alcune delle più note: Padoa-Schioppa contro i bamboccioni nel 2007; Martone contro gli sfigati fuoricorso nel 2012; Profumo contro l'unica specie di fuoricorso esistente al mondo, lo studente italiano, nel 2012 Fornero contro i giovani choosy nel 2012; Visco contro l'utilità dello studio in Italia nel 2013; Briatore contro i giovani che non vogliono fare i camerieri nel 2014; Feltri contro i giovani che scelgono di studiare materie umanistiche nel 2015.

Questa scia infinita di dichiarazioni, rilasciate perlopiù parlando a ruota libera e citando i dati in modo abbastanza sommario e talvolta del tutto errato (Profumo ad esempio voleva far passare il messaggio, del tutto falso, che i fuoricorso siano presenti soltanto in Italia) vengono fatte praticamente sempre durante conferenze o incontri istituzionali, e il tono delle osservazioni è sempre emotivo, mai razionale e mirato a impostare un ragionamento concreto.

E lo dimostra il fatto che la narrazione di base è sempre la medesima: sono i giovani a dover impostare in modo diverso il loro percorso di studi. Visto che il ragionamento rimane sempre nell'ambito fumoso dell'emotività, poi, è normale che le reazioni sollevate siano quasi sempre altrettanto emotive.

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E questo avviene non solo perché le dichiarazioni che creano polemica sono rilasciate in un certo tono, ma anche perché vengono cavalcate in modo strumentale dai media: che spesso estrapolano e decontestualizzano frasi del genere proprio per creare attenzione morbosa. Lo scorso giugno, ad esempio, Poletti aveva dimostrato molto meno tatto verso il mondo accademico, dichiarando che i dottorandi non avevano diritto di accedere alla DIS-COLL (un ammortizzatore sociale pensato per i contratti precari) perché quello del dottorando "non è un vero lavoro." Eppure la polemica, riguardando una questione concreta e meno estendibile all'emotività nazionale, non ha avuto lo stesso grado di attenzione.

Il punto è che Poletti si è, come sempre avviene, concentrato sugli aspetti in grado di sollevare la stessa infruttuosa bagarre, ma i dati OCSE rilasciati negli ultimi giorni attraverso il rapporto annuale Education at a glance 2015 presentano una realtà molto più complessa. Che dovrebbe spingere a riflettere in modo finalmente approfondito sulla questione. Il problema delle dieci parole di Poletti riportate ovunque è che dichiarazioni del genere sono le uniche occasioni in cui si parla attivamente di cosa dovrebbero fare i giovani in Italia. Parole che, peraltro, riguardano solo un aspetto dei problemi del sistema universitario italiano. Quando ci sono molte questioni prioritarie legate all'università di cui si dovrebbe parlare.

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Grafico sulla percentuale d'impiego del rapporto OCSE Education at a glance 2015. Immagine Via.

Al di là dei fuoricorso che rincorrono per anni un voto accademico alto, la realtà presentata dal rapporto indica come in Italia per un neolaureato sia molto più complicato trovare lavoro rispetto alla media degli altri paesi sviluppati: fra le persone laureate in un'età compresa fra i 25 e i 34 anni, ad esempio, solo il 62 percento era occupato nel 2014. Ben cinque punti percentuali in meno rispetto al 2010, e 20 rispetto alla media dei paesi OCSE.

Il nostro sistema scolastico, poi, si distingue per il record di anzianità nel corpo docente: nel 2013 il 57 percento dei docenti nella scuola primaria, il 73 percento di quelli nella scuola secondaria superiore, e il 51 percento di quelli nell'università avevano compiuto o superato i 50 anni. In compenso, però, siamo in buonissima posizione fra i paesi che investono di meno nell'istruzione: dal 2000 al 2012 solo lo 0.9 percento del pil italiano è stato investito nel sistema universitario. Solo il Lussemburgo ha investito meno dell'Italia, fra i paesi dell'OCSE.

Il dato che fa più impressione, però, è quello che in un certo senso corrobora la dichiarazione di Poletti: soltanto in Italia e Repubblica Ceca il tasso di occupazione fra i giovani compresi nella fascia di età 25-34 è più alto fra i diplomati rispetto ai laureati. Ma questa statistica, osservata in relazione ai dati citati sopra, indica come ci sia un'evidente falla strutturale nel sistema universitario italiano e nel modo in cui il mondo del lavoro si approccia ad esso, che non può essere colmata soltanto riducendo la procrastinazione della laurea.

Il cuore del dibattito, però, ruoterà ancora per qualche giorno sulla preparazione accademica di Poletti e sui giovani bamboccioni italiani, per poi spegnersi inutilmente senza alcun tipo di conclusione. Come sempre.

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