Secondo le stime della Confederazione nazionale dell’artigianato, in Italia il mercato della pizza fa girare circa 15 miliardi di euro. Questo porta ad avere, sul territorio intorno a 42 mila ristoranti-pizzeria, ed oltre 20 mila locali per l’asporto dando lavoro a 100 mila impiegati fissi di cui il 65%Italiani.
Con circa 80 pizze al giorno prodotte in media e 2 miliardi di pizze l’anno, l’Italia si piazza seconda come produttrice e consumatrice di pizze a livello mondiale (6,7 kg per persona, all’anno), perché la pizza la si può mangiare ovunque. Spesso, però, si dice che come in Italia, e specialmente, come a Napoli non la si trova. Ma è veramente così? L’ho chiesto a tanti di quei pizzaioli italiani che per fare una buona pizza invece, sono dovuti invece emigrare.
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Sono molti i pizzaioli italiani tra i 23-30 anni che decidono di lasciare l’Italia perché le loro possibilità di crescita professionali sono minimizzate da un sistema statico
Sui gruppi Facebook di “Italiani in Danimarca” e “Italiani a Bruxelles” la domanda dei nuovi arrivati in città è sempre la stessa, ogni settimana: “Dove posso mangiare una buona pizza qui?”. Ogni tanto qualcuno sbotta: “prendi il volo diretto Bruxelles – Napoli, meglio”.
Non ho mai veramente ordinato una pizza all’estero fino a quando il mio amico britannico Matt ha deciso di usarmi come pizza-tester a Copenhagen. In Danimarca la pizza è sempre stata sinonimo di junk food, da mangiare alle 3 di notte con una spruzzata di creme fraiche o salse, quindi capite bene perché io mi sia sempre rifiutata. “Tu che sei Italiana, la pizza la sai riconoscere se è buona!”. A lui mancava la vasta disponibilità che trovava a Londra, dove le pizzerie erano ad ogni angolo. Così tra il 2014 e 2016, dopo un’approfondita ricerca, ho testato un piccolo numero di locali pizzerie, e ho decretato che quella di Baest di Christian Puglisi fosse la migliore.
Una cosa di cui mi sono accorta, soprattutto in Belgio, è di come i clienti all’estero ormai siano stati educati alla buona pizza. È con questo boom, e con la rivalutazione del piatto come pasto sano e completo, è aumentata anche la richiesta di manodopera qualificata anche fuori dall’Italia.
Emidio, 26 anni di Salerno, NONA
“In Italia ci sono due tipi di pizzaioli: il pizzaiolo maestro e il pizzaiolo ragazzo” mi dice Emidio, pizzaiolo di Salerno ora a Bruxelles. “Tutto ciò per una questione economica, dove per passare di livello non devi acquisire esperienza, bensì invecchiare”.
In Italia, il pizzaiolo maestro viene pagato per la sua esperienza, mentre il ragazzo pizzaiolo viene sottopagato anche se svolge le stesse mansioni. Emidio ha iniziato a fare il pizzaiolo all’età di 17 anni ed essendo arrivato a 26 l’unica cosa che avrebbe dovuto fare era aspettare i 30, per passare di livello. Sono molti i pizzaioli italiani tra i 23-30 anni che decidono di lasciare l’Italia proprio perché le loro possibilità di crescita professionali sono minimizzate, da un sistema statico fondamentalmente restio al cambiamento e improntato al rispetto della tradizione e della gerarchia.
Per trovare lavoro come pizzaiolo all’estero ci sono due opzioni: i social media e il proprio network.
Emidio ha ritrovato la passione per il mestiere all’estero: “A Londra ho avuto la possibilità di lavorare con tanti maestri napoletani e ho approfondito il mio sapere e le conoscenze dell’arte della pizza”.
Emanuele Contardi, 24 anni Dalmata a Parigi
Emanuele Contardi di Cava dei Tirreni ha iniziato la sua carriera aiutando nel ristorante di suo zio all’età di 11 anni. “Ho avuto la fortuna di andare in Puglia e fare il corso di pasticcere e lì mi sono specializzato in panetteria e lievitazione”. Adesso collabora con Pizzaioli in Giro per il Mondo e, a 24 anni, tiene corsi di formazione insegnando le ultime tecniche per la preparazione della pizza. Inoltre dopo esperienze in Germania e in Francia, è rimasto a Parigi dove è diventato lo chef pizzaiolo della nuova pizzeria Dalmata.
Sebbene entrambi abbiano una grande stima per i grandi maestri, quali Paco Linus e Giurrillo, riconoscono che, in generale, soprattutto al Sud in Italia si è molto chiusi, e si tenta di svilire chi tenta di apportare qualche novità, in nome della sacra tradizione napoletana.
Nelle pizzerie Italiane, che spesso vanno avanti con le stesse ricette e prodotti, i giovani non hanno molto potere decisionale né ricevono stimoli per continuare in questo settore. All’estero, con il boom della pizza, la figura del pizzaiolo è così fortemente ricercata che i gestori guardano con brama alla forza lavoro italiana, che travalica i confini per mettersi in gioco e per aumentare la propria esperienza in ambito professionale.
Per trovare lavoro come pizzaiolo all’estero ci sono due opzioni: i social media e il proprio network. Facebook è diventato il luogo di recruitment e per ricevere visibilità, se non attraverso i propri profili, come i VIP attraverso le loro pagine Facebook.
Bernardo, 26 anni, ha lavorato da Sartori a Londra e ora è socio di Acqua & Farina
È così che Bernardo ha selezionato il suo ultimo pizzaiolo del team di Acqua e Farina a La Louviere: “Il mio profilo su Facebook conta più di 7.000 contatti. Così ho fatto un “live” dicendo che, al primo che si sarebbe fatto trovare qua fuori, avrei pagato il biglietto dell’aereo, vitto e alloggio”.
Vitto e alloggio all’estero o contratti a scatola chiusa: non sempre è un percorso facile, ma sono in molti che vanno via dall’Italia alla ricerca di stipendi decenti. Basta andare su gruppi come “Pizzaioli a Parigi” o “Pizzaioli su Londra”, dove trovi centinaia di annunci e di ricerche. Oltre al web, ovviamente, a volte bisogna ricorrere a contatti personali.
“Prima inizi a chiamare le persone che conosci, che sono comunque sparse nel mondo” mi dice Emidio. “Persone che reputi abili in un determinato tipo di pizza, capaci di adattarsi al team già presente”.
I social media non solo aiutano a trovare il lavoro, ma anche a imparare il mestiere. ”Prima per riuscire a carpire i cardini del mestiere ci volevano 2-3 anni. Adesso invece basta anche un anno” continua Emidio, “certo serve l’esperienza, però nel momento in cui hai internet hai tutto.”
I social sono enciclopedia o università. Su YouTube trovi tantissime informazioni: persone che ti spiegano come stendere la pasta, video di altri pizzaioli che provano nuovi prodotti o tecniche di lievitazione. Emidio spende molto tempo su questi canali, anche se non è molto attivo.
Quando i social non erano ancora al centro di questo mestiere, nel 2014 Bernardo aveva fatto un biglietto di sola andata e il giro di tutte le pizzerie napoletane di Londra: “Ogni mastro pizzaiolo napoletano è specializzato in qualcosa e voleva completare la mia educazione napoletana”. La dedizione lo ha ripagato. Arrivato poi a Bruxelles, i funzionari della Commissione Europea in giacca e cravatta non si facevano scrupoli a mangiare la sua pizza su sacchi di farina, quando la pizzeria in cui lavorava aveva appena aperto. “Mi sfottevano dicendo che il cornicione della pizza non si sarebbe alzato perché faceva troppo freddo in Belgio. Adesso hanno scoperto che la pizza di può fare ovunque”.
E la Coldiretti fa sapere che in Italia due pizze su tre vengono fatte con ingredienti stranieri. Questo per mantenere i costi bassi e riuscire a sbarcare il lunario. “Solitamente il prezzo del cibo nei ristoranti è il 300% superiore al prezzo di produzione” mi dice Emidio. Se paghi una pizza 3 euro, vuol dire che è costata uno, magari anche meno. “Si va alla rimanenza nei supermercati” aggiunge.
Il potere d’acquisto degli italiani scende di anno in anno e la gente non è abituata. I prezzi ovviamente variano dal Nord al Sud Italia, e i tre mi parlano soprattutto delle loro esperienze in Campania, dove anche piccoli centri urbani pullulano di pizzerie, di fascia medio bassa, che vendono pizze a tre, quattro euro, per l’appunto. Emanuele mi conferma che spesso le persone venivano esclusivamente il mercoledì, quando la pizzeria dove lavorava faceva lo sconto portando le pizze a 2,5 euro.
Per questo molti italiani quando vanno all’estero si scandalizzano per i prezzi elevati delle pizze da 17-22 euro, non considerando il costo e il sovrapprezzo degli ingredienti che arrivano direttamente dall’Italia.
“Da noi, se ti vuoi mangiare una margherita la paghi 8 euro, però intanto ti mangi il pomodoro San Marzano – il più costoso in Italia – e prodotti fatti con ingredienti biologici, come la mozzarella che viene non lontano da qui.”
Anche Bernardo si fa portare tutte le settimane prodotti dalla Campania. “La margherita e marinara qui costano più che in Italia, ma sono quelle che costano di meno nel menù, perché tutti devono avere il diritto di mangiarsi una pizza”. La qualità dei prodotti per le pizzerie all’estero è importantissimo, perché avere un prodotto di bassa qualità svaluta il ristorante. Dalmata produce solamente 101 pizze al giorno, tutte rigorosamente con prodotti DOP come il pecorino romano, o di alta qualità come la Burrata di Andria.
“Il mio obiettivo è farti uscire dalla mia pizzeria felice” dice Bernardo “So di aver fatto un buon lavoro”, ed è questo quello che conta. Alla domanda su cosa vorrebbero per il futuro, Emidio e Bernardo mi rispondono: “Aprire una pizzeria nella loro città di origine. Tutti vogliono ritornare, ma sono costretti ad andarsene”. Emanuele ci aveva provato ad aprire la sua in Italia. “Si denigra sempre la pizza che non si sa fare” mi dice notando una certa tracotanza nel settore, che non é ancora pronto a lasciare spazio ai giovani, a nuovi ingredienti, al cambiamento.
E per fare una buona pizza, fuori dai confini, in realtà non c’è nessun segreto: esperienza, prodotto e volontà di investire, sia da parte dei pizzaioli che da parte dei consumatori.
Bernardo si prepara una Marinara nella sua pizzeria Acqua & Farina
Si ringraziano:
Ruben & Matt per il tour pizza-culinario di Copenhagen e Bruxelles
Thomas per i dibattiti ed indecisioni su tutte le altre pizze a Bruxelles, Parigi e Copenhagen
Emanuele e Romain per la disponibilità al Dalmata
Ligia per la condivisione della pizza al Dalmata
Emidio per la disponibilità al NONA
Bernardo per la disponibilità all’Acqua e Farina.
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