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Finalmente ho intervistato Neffa

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Come la maggior parte dei nati nel 1995, scoprii il rap italiano grazie a Fabri Fibra e Mondo Marcio. Il primo a quei tempi era fuori con lo strepitoso “Applausi per Fibra”, il secondo era in rotazione su TRL con quella piccola perla di storytelling chiamata “Dentro alla scatola”. Da questi due ceffi poco raccomandabili a Neffa il passo fu breve: erano gli anni in cui i nuclei territoriali dell’hip-hop italiano—dal Muretto a Piazzale Flaminio—iniziavano progressivamente a venir soppiantati dai forum, luoghi virtuali di discussione in cui gli infottati potevano parlare con altri infottati come loro degli ultimi dischi e mixtape in uscita, e magari passarseli in privato.

Uno dei forum che aggregava più nerd del rap italiano era stranamente un forum di videogiochi, e più precisamente una sezione di questo dedicata alla musica: nell’Angolo del rap italiano—così si chiamava il topic che riuniva i fanatici, peraltro ancora aperto—conobbi Karas, beatmaker e co-ideatore de Lo Swagghetto e soprattutto Lorenzo, un ragazzo di Lecco depresso almeno quanto me che mi fece conoscere per la prima volta i Sangue Misto con “Senti come suona”.

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Non mi piacquero subito, dovetti fare il giro largo per arrivarci, e li riascoltai solo dopo aver consumato Neffa e i messaggeri della dopa, un disco che nel frattempo avevo imparato ad amare. Il resto ve lo leggete in questa chiacchierata che ho fatto a Neffa qualche giorno fa, quando abbiamo pranzato insieme in una trattoria in quel di Bologna.

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La copertina di Neffa e i Messaggeri della Dopa, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Noisey: Dopo faccio il fan, adesso faccio la persona professionale. I dischi da firmare te li do dopo. L’intervista la facciamo in freestyle, non ho preparato nessuna domanda, così è più divertente. [Arriva la cameriera. Chiedo dei tagliolini alla cipolla. Neffa prende un’insalata verde, grande: ci mette quaranta secondi ad ordinarla. Mi spiega di essere a dieta.] Ci vai sempre così leggero o solo a pranzo?
Neffa: Sto cercando di perdere qualche chiletto. Ho un po’ di pancia; ultimamente mangio troppa pasta.

A quindici anni ho promesso a me stesso di parlarti di questa cosa se mai avessi potuto incontrarti, e adesso devo mantenere quella promessa [Tiro fuori il disco dei Messaggeri della dopa, in cd]. Questa copia qui la comprai a quindici anni con la mia prima ragazza, che si chiamava Sara. Lei mi prendeva in giro perché c’era scritto “Solo un’altro giorno”, con l’apostrofo.
Se è per questo, anche nel pezzo che c’è nel booklet c’è scritto “messageri”, con una g sola. Non l’avevi notato? Nota e apprezza [ride]. Quel pezzo lo ha fatto Ciufs, della storica crew S.p.a., uno di quelli del vecchio giro hip-hop che con me è sempre rimasto super tranquillo, ci vogliamo un grande bene. Su quella cosa, a posteriori, ci siamo fatti un sacco di risate.

“La felicità non è un’ipotesi che ho mai messo in conto nella mia vita. Sono sempre stato mosso dall’insoddisfazione, anche nel mio lavoro.”

Ma di queste cose vi siete accorti quando?
Di quello quasi subito. Dell’apostrofo neanche ci avevo fatto caso. Considera che fino ad un paio di anni prima, un altro si scriveva con l’apostrofo… No, forse mi sbaglio. Però è possibile. Ad esempio, qualcun altro lo facevano scrivere con l’apostrofo quando ero alle elementari. Comunque, di che vuoi parlare?

Parliamo di te. Sei felice? Ci sono così tante cose che vorrei chiederti che adesso non me ne viene in mente nessuna, sono nel panico.
La felicità non è un’ipotesi che ho mai messo in conto nella mia vita. Sono sempre stato mosso dall’insoddisfazione, anche nel mio lavoro. Devi considerare anche questo, comunque, così il Jumanji-pensiero ti arriva per intero e non solo dal lato dell’amarone: io sono sempre stato una persona con due forti poli, positivo e negativo. Fra questi due corre l’elettricità, che mi fa scrivere. Senza di loro avrei avuto una vita tranquilla, rilassata, impiegatizia e che non implica la fantasia; invece, questa corrente mi rende creativo. Sono insoddisfatto di natura perché l’insoddisfazione, qualsiasi cosa abbia fatto o farò, è il mio motore: sarei insoddisfatto anche se fossi Bono Vox! C’era questa frase che mi girava in testa qualche anno fa (perché io ho le mie frasi del momento, vado a periodi): “l’agitazione è la benzina del mio motore”. Proprio per questo sono piuttosto sospettoso nei confronti della terza e ultima parte della mia vita.

“Sono una persona che non ha figli e che non ha lasciato un’eredità personale al di fuori di quella musicale. Vivo per la musica.”

Perché sospettoso? In che senso?
Mi trovo in un momento particolare, siccome sono una persona che non ha figli e che non ha lasciato un’eredità personale al di fuori di quella musicale. Vivo per la musica. Sono sempre stata una persona molto febbrile nel modo di fare le cose, e questa fase per me non è facile da gestire perché chiaramente la vecchiaia è l’età dello stai calmo, dello stai tranquillo, e devo vedere come mi adatterò a questa situazione.

Devi stare molto calmo.
Sì! D’altra parte c’è la fortuna che, alla fine, anche se si tratta di un granello di sabbia in una grande spiaggia, ho lasciato e continuo a lasciare musica. Questa possibilità, questo mondo parallelo in cui posso svagarmi, è una buona valvola di sfogo anche riguardo a questo fatto dell’invecchiare.

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La copertina di Molto Calmo di Neffa, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Poi c’è il polo negativo.
Quel polo certi giorni rende tutto nero, ma poi arriva l’altro polo e dice: “facciamo una canzone,” e allora in un modo o nell’altro si procede anche nella vecchiaia. Tanto la retromarcia non ce l’ha nessuno, quindi tanto vale! C’è una frase che tutti dicono perché sono costretti ad accettare la propria natura mortale, ed è: “Io non vorrei vivere per sempre”. Magari un sempliciotto all’inizio può dire di sì, ma poi se ci pensi bene vedresti morire tutte le persone che ami, sarebbe un incubo. Io invece penso di aver trovato l’utopia perfetta, ed è questa: pensa se tu potessi vivere e morire a cinquant’anni per sempre. Cioè: tu vivi, arrivato a cinquant’anni muori, poi rinasci e ti fai altri cinquant’anni. Potrebbe essere un modello di immortalità meno impegnativo.

Però tu ne hai già vissute un bel po’ di vite, ti sei reinventato continuamente: sei passato dalla batteria dei Negazione al rap, fino ad approdare al pop…
Sì, infatti io penso sia meglio vivere più vite possibili all’interno della propria vita.

Un altro aforisma.
Io sono stressato per l’invecchiamento, ma se mi guardo indietro realizzo di aver vissuto tante vite. Sono stato sia un invisibile che un personaggio sotto ai riflettori, diciamo, anche se non sono diventato—per citare Forrest Gump—”famosissimo come Pinocchio”. Ma non vorrei neanche essere troppo famoso, perché è una condizione che ti impedisce di vivere. Quando mi sono trovato ad affrontare un po’ di fama nella vita, ho constatato come i rapporti con le persone vengano irrimediabilmente falsati, e questa cosa non mi andava giù. Forse per questo motivo mi sono sentito dire dalla gente, a volte, che sembro antipatico. Io voglio essere più umano e meno personaggio, ed è anche per questo che non sono sui social network. Su internet la penso un po’ come Umberto Eco. Poi figurati, io già ho patito a suo tempo i cellulari, quindi! Sono uno abituato al fatto che se la cabina telefonica era rotta, tu chiamavi dopo. Ho fatto dei viaggi perso in giro per l’Europa senza il telefono: una cosa che adesso ti farebbe venire le crisi di ansia a vent’anni. Rimango un uomo di pensiero, sono perennemente sveglio e alleprato.

Bello il termine “alleprato”, l’hai coniato tu?
Viene da un film, I soliti sospetti, con Gassman e Manfredi. Gassman dice a Manfredi di stare “alleprato”, e mi piace il termine perché rende l’idea. Devi essere pronto a scattare, attento ad ogni minimo segnale che c’è nell’aria, con i baffi che si muovono.

“Sono stressato per l’invecchiamento, ma se mi guardo indietro realizzo di aver vissuto tante vite. Sono stato sia un invisibile che un personaggio sotto ai riflettori.”

Secondo me, del periodo pop, Sognando contromano è il disco più bello che tu abbia fatto.
Per me da quel disco in poi non ho mai fatto dischi con tracce di troppo. “Il mondo nuovo” è sicuramente la canzone più originale che abbia scritto. Le altre, sai, assomigliano più a qualche altra cosa… Invece c’è pochissimo che assomiglia a quella canzone lì. Forse, però, Molto calmo è il mio disco preferito. Comunque c’è da sottolineare una distinzione importante. Io non faccio pop, io faccio canzone popolare. Per me pop è un aggettivo che significa “precotto”, fatto per piacere alle masse. Io in questi anni ho fatto canzone popolare. Io ero pop quando facevo il rap. Personalmente ho sempre visto il pubblico come un insieme di persone, non come materiale a cui spillare soldi.

Mi pare un po’ manichea questa cosa. Per esempio, ti piacciono i Baustelle?
Non ho sentito moltissimo. Sono uno che sente poco di roba attuale. Preferisco la musica dei padri.

Allora Battiato. Battiato è molto pop.
Ma Battiato non è pop.

Beh, La voce del padrone è un disco ultra-pop.
Spesso è anche il successo di massa che ti fa diventare pop per un po’. Bowie, quando ha fatto “Let’s Dance,” era pop. Era una canzone apparentemente semplice, ma Bowie non aveva fatto un disco pop. A parte che Bowie non è mai stato semplice. Quando si dice pop io penso ad un prodotto assemblato da produttori, musicisti, arrangiatori, cantato da un interprete adatto. Anche l’interprete che si presti deve avere poi certe caratteristiche. I dischi di Katy Perry e Rihanna. Prendi i migliori autori, produttori, una cantante bella e brava… Se io da produttore mi fossi visto arrivare Rihanna a quindici anni in studio, avrei pensato: con lei si fanno i soldi.

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La copertina di Sognando contromano di Neffa, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify



Io quando penso al pop penso anche ad esempio a Lucio Dalla. “Disperato erotico stomp” secondo me è il pezzo pop più bello mai scritto in Italia.
Quella è canzone popolare, ripeto. “Aserejé” è pop.

Che mi dici invece sul tuo periodo coi Negazione? Mi racconti un aneddoto?
Mi ricordo che una volta abbiamo fatto un concerto assieme a Mano Negra e Litfiba. Io vidi il batterista dei Litfiba col metronomo in testa, pensai a Ringo Starr e a Charlie Watts, vidi quella scena lì e dissi: perfetto, devo andare in America. Il batterista col metronomo è come vedere un porno col preservativo. Tecnicamente tu stai vedendo un pisello dentro una vagina, però in realtà poi è tutto sintetico. Togli la vita da quel gesto. Con la differenza che il preservativo salva vite, mentre il metronomo le uccide e basta.

Siamo a quota tre aforismi. Comunque, tornando un attimo sul discorso del pop: ti piacciono le nuove uscite italiane? Calcutta, Thegiornalisti.
Calcutta me l’hanno fatto ascoltare, è figo e fatto bene. Considera che adesso è facile fare tanti discorsini, ma mentre io crescevo… cioè, quando feci Isola Posse All Stars quelli dello studio non avevano mai lavorato con batteria elettronica, per dirti. La musica italiana per uscire fuori da un certo vecchiume che si portava addosso ci ha messo trent’anni. E quel vecchiume ancora sopravvive. Io ho sempre spinto perché la musica italiana assomigliasse un po’ di più al pop internazionale.

“Il batterista col metronomo è come vedere un porno col preservativo. Tecnicamente tu stai vedendo un pisello dentro una vagina, però in realtà poi è tutto sintetico.”

Ghemon è un artista dal percorso simile a quello che hai avuto tu. Come ti sei trovato a lavorare con lui nel pezzo “Dove sei“?
Mi sono trovato molto bene. Penso che Ghemon abbia fatto una cosa molto stile anni Ottanta vecchia scuola, e cioè non si è fermato davanti ai primi buoni risultati ma ha sentito il bisogno di prepararsi e di studiare. Io, come studente, devo ammettere di essere stato sempre molto pigro. Da ragazzo provai ad imparare a leggere la musica attraverso il solfeggio ritmico, ma era veramente complicatissimo—e alla fine sono approdato prima alla batteria e al rock ‘n roll, perché non avevo abbastanza pazienza per mettermi ad imparare la musica seriamente, e poi al rap. Alla fine ho ricominciato ad armeggiare con chitarra e tastiera dopo essermi innamorato della musica contenuta nei dischi che campionavo per le strumentali, è un ciclo che si chiude. Ghemon mi pare abbia fatto la stessa cosa, che oggi mi sembra rarissima, almeno nell’ambiente del rap. Mi ricordo che, da ragazzo, venivo spesso al ristorante con la buon’anima di Pino [Daniele]… si può parlare di qualcuno che non c’è più?

Penso che si possa fare, sì.
Con Pino passavamo le giornate a tavola, a parlare delle persone che ci stavano sul cazzo. Lui mi faceva nomi e io gli dicevo “Ma no Pino dai, quello è figo”, e poi litigavamo. Io gli dissi solo una volta: “Pino, non ti far mai vedere con quello lì.” E lui qualche anno dopo ci fece un pezzo! Però in realtà ai tempi di quel pezzo già non ci parlavamo più. Io con lui ho avuto una storia di amore e abbandono. Tu considera che per me parlare al telefono con Pino era… tu potresti dirmi anche: questo è l’ultimo tuo giorno da cantante, domani fai il pizzaiolo, e io ti dico va bene, però Pino mi ha detto che sono figo e va bene così, ho già sentito quel che dovevo sentire. Lui si era innamorato di me, artisticamente.

E perché non vi siete più parlati, poi? Che era successo?
In quel periodo un mio amico, il comico Dario Cassini, era fidanzato con Marina Rei; un giorno mi chiamò e mi disse che Marina mi voleva in un pezzo. Era veramente un brutto periodo, con il conto in rosso e la banca che mi chiamava quotidianamente perché avevo cambiato casa anche se non potevo permettermela. Per dirti, la prima volta che ha piovuto mi pioveva in casa. E tutto per una donna, perché io di mio stavo bene dove stavo, no? Però questa donna aveva problemi nella casa dove stavamo e io le ho detto va bene, andiamo lì, guarda [ci scambiamo un brofist e mi trattengo dall’abbracciarlo fortissimo].

Insomma Pino—e l’ho saputo dopo anni—si prese male del fatto che uscì questo mio pezzo con Marina Rei perché in un certo senso lui si sentiva un po’ il mio scopritore. Pino aveva quel carattere lì, era molto geloso dei suoi pupilli, perché in generale aveva motivi personali fondati per non fidarsi troppo degli altri, e probabilmente questo fatto qui lo aveva reso sospettoso anche nei miei confronti. Io poi ero in un periodo in cui mi servivano soldi. Per concludere il discorso su Pino, pensa che addirittura io avevo un pezzo molto pinodanielistico, quello che chiude Resistenza, che incisi attorno a Capodanno. Una mattina di quei giorni pensai: “Cavolo, qua faccio fare un assolo di chitarra a Pino.” Il giorno dopo arriva la signora delle pulizie a casa e mi fa: “hai sentito di Pino Daniele”? Io, che come altre quattro persone al mondo non ho i social network, pensai: sicuramente resuscitato non è, quindi sarà morto. Quando mi dicono: hai sentito di quello là? Non è che penso “Si è sposato Brangelina”, penso “È morto”. E anche quella volta purtroppo è andata così.

In Italia siete in quattro a non avere i social, tra cui Giovanni Lindo Ferretti, che vive su un monte, a Cerreto Alpi.
Sì, però… lui ad un certo punto fece l’endorsement alla Lega e con la sua musica ho chiuso. Adesso quelli giocano a fare i moderati, però ai tempi fu una grossissima ferita per la società. C’era quella fortezza che avevano a Milano…

“A Bologna quando uno è fuorissimo, si dice ‘fuoressum’: io vorrei scrivere un libro ‘afuoressum’. Il mio aforessum di ieri era: conosco una scapola ammogliata che gioca a calcio contro sé stessa, perché avevo male alla schiena.”

La Lega sembra un partito parodia di un altro partito, invece è una gigantesca autoparodia. Qual era il film di Nanni Moretti in cui c’è lui che guarda disgustato i comizi leghisti con le bandiere verdi?
Il Caimano forse?

No, in quello c’è Berlusconi. Mi pare fosse Aprile.
Alla fine esci pieno anche quando mangi ‘sta merda [indica l’insalata].

Sì ma ne hai presa una ciotola enorme, ci credo.
Però alla fine è tutta acqua, quindi va bene. [Silenzio. Ad un certo punto Neffa ha un’epifania improvvisa.] Per riprendere la tua domanda di prima, “Sei felice”: io ho smesso di credere nella felicità da molto tempo. Credo in un’infelicità accettabile. Anzi: più che accettabile, sopportabile.

Sai che secondo me dovresti pensare ad un libro di aforismi? Hai proprio il piglio conciso che ci vuole.
Ma io infatti scrivo parecchio. Non leggo quanto vorrei perché sono una persona per niente rilassata, ma scrivo. Più che altro scrivo pensieri. A Bologna quando uno è fuorissimo, si dice “fuoressum”: io vorrei scrivere un libro “afuoressum”. Il mio aforessum di ieri era: conosco una scapola ammogliata che gioca a calcio contro sé stessa, perché avevo male alla schiena [ride compiaciuto].

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La copertina di Arrivi e Partenze di Neffa, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify



So che è una domanda che ti fanno spessissimo e che non sei particolarmente felice di ricevere, ma parliamo un attimo di come sei approdato dal rap alla musica suonata.
Si è trattato di un passaggio molto graduale. Io avevo preparato tutte le basi per fare un nuovo disco di rap, intorno al ’99. In quel periodo era scattata con questa amicizia con Fabri Fibra. Un sacco di volte lui veniva da Senigallia, tipo almeno un paio di volte a settimana, in macchina fino a casa mia e passavamo il pomeriggio in studio.

“Ricordo andavo da Neffa sotto al diluvio, guardavo il suo disco d’oro nello studio”.
Insomma, in quel periodo cominciavano a uscirmi fuori delle canzoni e non capivo proprio da dove venissero. Il primo pezzo che scrissi fu forse “Alla fermata”, oppure “La mia signorina”… Io non capivo, era come quando facevo freestyle, una cosa uscita da non so dove. Poi capì che quella era la musica che mi stava dicendo: “Ok, fino adesso tu hai cazzeggiato, abbiamo scherzato.” Tutto quello che ho fatto prima di Arrivi e partenze è in qualche modo musica di percorso.

“Le basi che avevo pronte le ho date a Fibra, che poi ci ha fatto Turbe Giovanili. Ricordo la faccia che fece quando gli feci sentire ‘La mia signorina’”.

La musica suonata è stata un approdo naturale.
Sì. Alla fine, le basi che avevo pronte le ho date a Fibra, che poi ci ha fatto Turbe Giovanili. Ricordo la faccia che fece quando gli feci sentire “La mia signorina”. Io ho sempre seguito la musica: pur sapendo che mi avrebbero fatto a pezzi, ci fu un periodo in cui la cosa mi faceva sorridere, mi stimolava. Comunque, in quel periodo ripetevo a me stesso: “Cavolo, mi piacerebbe poter viaggiare con la musica,” e infatti dopo che ho fatto il successo de “La mia signorina” sono andato in Portogallo a suonare fricchettone. Sono partito con degli amici in furgone, a suonare pezzi blues, così. Lì, ovviamente, ero un completo sconosciuto. Io avevo sempre battuto la fiacca con le donne e improvvisamente col successo sono arrivate, mi sembrava una situazione un po’ dopata e volevo vedere come sarebbe andata in un altro posto. Appena ho visto come è andata, ho detto: è meglio che torni a casa a fare subito un altro singolo [ride].

Sei stato temerario.
Ai tempi avevo la cosciente incoscienza di uno che si sta andando a schiantare, ma la musica è sempre stata molto più importante di quello che poteva succedere a me. Hanno rotto le palle a Ray Charles perché ha smesso di fare musica da chiesa, figurati cosa avrebbero potuto dire a me! La scena hip-hop poi è sempre stata molto conservatrice. L’hip-hop è hip-hop, e a me all’inizio andava anche bene, finché poi mi sono reso conto che non sono mai stato tagliato per stare sotto una bandiera. Sarei potuto rimanere tranquillamente nel mio regno, ma io sono nato per esplorare, e stare fermo lì solo perché la cosa mi diceva bene non era un’alternativa così allettante. Sono passato dall’essere uno della Trinità in un mondo ad essere uno qualunque del mondo dei cantanti. Eppure questo era quello che io dovevo fare e l’ho fatto. Ancora oggi la gente mi dice: “Sei il mio rapper preferito.” Io non faccio più rap dal 2000, quindi certe volte mi dico cavolo, e allora questi diciassette anni di musica non valgono niente? Questo per proprietà transitiva starebbe a significare che ho fatto musica inutile per quasi vent’anni, perché il mio disco migliore è stato quello coi Sangue Misto e nei libri di storia ci finirò con i Sangue Misto.

“L’hip-hop è un genere un po’ adolescenziale. Quando sei adulto, le probabilità che tu lo stia facendo per i soldi, secondo me, aumentano. Un po’ come l’heavy metal.”

Ma sai che secondo me è più che altro una questione di nostalgia? È anche scientificamente dimostrato che si rimane più attaccati alla musica ascoltata da ragazzi. Io, per esempio, ricordo nitidamente la sera in cui guardai per la prima volta il video di “Aspettando il sole”. Uno che a quindici anni ti scopre col rap magari rimane più legato a quello.
Stai toccando una questione sociologica che anche io ho sempre percepito un po’. L’hip-hop è un genere un po’ adolescenziale. Quando sei adulto, le probabilità che tu lo stia facendo per i soldi, secondo me, aumentano. Un po’ come l’heavy metal.

A parte che secondo me hai fatto dischi molto più belli di SxM.
Però tanto nei libri di storia della musica ci finirò per quel disco lì. O al limite per “Aspettando il sole”.

I libri sono una cosa, i dischi sono un’altra…
Però sai: se non sei nei libri di storia musicale difficilmente tra cento anni le persone andranno ad ascoltare i tuoi dischi. La storia la scrivono i vincenti, come dice Dan Brown.

E tu ti fidi di Dan Brown?
Beh, quella cosa che ha detto è giusta.

Però anche un orologio rotto…

Neffa ordina del mascarpone con scaglie di cioccolato, io un caffè. Iniziamo a parlare del rapporto complesso che gli italiani hanno con l’inglese. Neffa cita Roland Barthes. Io lo riprendo perché gli ricordo che pochi minuti prima ha citato Dan Brown. E lui: “posso citare Dan Brown proprio perché ho letto Barthes”. Ridiamo. Parliamo per un po’ del più e del meno, anche a livello sessuale. Si lamenta dei giornalisti che gli fanno domande tutte uguali.

Neffa: Visto lo sbatti che sei venuto fin qua da Roma, il pranzo te lo offro io.

Noisey: Pensa quanto ti voglio bene se da Roma sono venuto qua.
Non c’hai un cazzo da fare mi sa, non è questione di bene. Pensa quanto non vuoi bene a te stesso!

Non metterti a fare il cinico, adesso.
Io cinico? [Un timido sorriso gli affiora dalle labbra] Non so neanche cosa significhi quella parola. Se io sono cinico, anche Bukowski è cinico. È solo uno schermo delle persone troppo sensibili: se Bukowski fosse stato cinico, non avrebbe potuto scrivere quel che ha scritto!

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