Cibo

È sicuro mangiare la frutta che cresce in città?

Frutta Urbana

“La frutta che cresce in città si può mangiare, è sana, a chilometro 0. Abbiamo fatto delle analisi: tolta la buccia, non è inquinata”

Da quando ne ho memoria, nel giardino della mia casa in Abruzzo c’erano due alberi: uno di cerase e uno di prugne. Il primo era malato e faceva pochi frutti, il secondo invece nella sua stagione tirava giù cascate di prugne. Erano così tante che facevamo fatica a raccoglierle, si schiantavano sul pavimento in mattoncini finché non rimaneva solo il nocciolo. Mia nonna ci faceva marmellate poco zuccherine e crostate. Fino al giorno in cui quell’albero è sparito, con lui le marmellate e un pezzo della mia infanzia.

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Il motivo bisogna cercarlo anche nella trascuratezza con cui la mia famiglia, per mancanza di tempo e di interesse, ha gestito quell’albero. Una volta tagliato, mi sono sentita arrabbiata e dispiaciuta, eppure per curarlo avevo fatto poco o niente. Ecco, questo scenario assomiglia a quello che vediamo in alcune grandi città ricche di verde pubblico. I frutti, i fiori e le erbe sono ovunque, crescono fuori dai giardini privati e nel mezzo dei parchi pubblici. I fruttini finiscono sui marciapiedi dove marciscono sotto il sole, attirando insetti, sporcando le macchine, le finestre e i muri. Eppure per molti è una cosa normale, mentre sarebbe anormale allungare le mani e raccoglierli prima che cadano. Per pigrizia, snobberia e pregiudizio. Anche perché a un certo punto ci è sembrato di sentire da qualche anziano o da qualche collega, che la frutta in città non è buona da mangiare.

“Il primo step è stata una semplice osservazione e poi una mappatura di almeno 30 varietà diverse di frutta che crescono nello spazio pubblico”

Quando Michela Pasquali si trasferì a Roma da Ginevra nel 2013 decise di creare il primo progetto italiano di mappatura e raccolta di frutta urbana con la sua no-profit, Linaria. “Mi accorsi che la città era un grandissimo frutteto a cielo aperto,” mi ha raccontato. “In quel momento insegnavo pratiche di cittadinanza attiva e conoscevo dei progetti internazionali che lavoravano sulla frutta. Da paesaggista ero interessata all’aspetto di rigenerazione e riqualificazione di spazi pubblici che i frutteti possono svolgere in aree degradate”.

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Parco degli Acquedotti a Roma.

In effetti nel mondo le persone sembrano meno reticenti a lasciare sprecata la frutta che cade da alberi “comuni”. Michela faceva riferimento a City Fruit, un progetto molto strutturato nato a Seattle con l’obiettivo di raccogliere e distribuire la frutta urbana, ma anche quella dei privati cittadini. Falling Fruit invece è il più grande progetto di mappatura di frutta urbana su scala mondiale. Ci sono alberi segnalati a Madeira, in Kerala, in Etiopia e in Tasmania. Non manca neppure l’Italia, Milano, Roma e Scalea. A San Francisco se ne occupano i Guerrilla Grafters. A Los Angeles David Allen Burns e Austin Young hanno creato Fallen Fruit, un progetto artistico che combina la rivalutazione e la creazione di frutteti urbani con l’esposizione d’arte in vari formati.

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Foto per gentile concessione di Linaria.

Racconta Michela che “il primo step è stata una semplice osservazione e poi una mappatura di almeno 30 varietà diverse di frutta che crescono nello spazio pubblico, praticamente un frutteto completo tutto l’anno”. Da lì si è passati alla raccolta organizzata in base alle stagioni: “Abbiamo creato squadre di volontari con RomAltruista, una onlus che si occupa di varie attività sul territorio, inserendo delle call aperte per la raccolta nei loro calendari”. Michela ci tiene a precisare che quest’ultima avviene con tecniche e strumenti semplici ma sempre nel rispetto dell’albero stesso “visto che si tratta di un importante patrimonio urbano”.

La frutta viene poi destinata al banco alimentare e alle mense sociali. In un secondo momento si affianca un progetto di riqualificazione professionale con gruppi di rifugiati che si dedicano alla trasformazione. Per Roma è un’attività pionieristica, rallentata a causa del Covid ma pronta a ripartire anche in modo più ambizioso.

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Alberi Parco degli Acquedotti a Roma. Foto dell’autrice

Ma perché proprio nella capitale tutti questi frutti? “Roma è sempre stata una città con un importante rapporto con l’agricoltura,” spiega Michela. “Non solo esterna alle mura ma anche interna alla città. Le evoluzioni sono state poi infinite. Nel corso degli anni municipi e organi territoriali hanno piantato alberi da frutto che non solo erano ornamentali ma anche produttivi. Questo secondo aspetto però non è mai stato particolarmente considerato”.

La svalutazione della frutta urbana si rispecchia anche in una legislazione latitante. “Quando abbiamo impostato il progetto siamo andati all’ufficio del verde del Comune di Roma dove siamo stati accolti a braccia aperte. Però per la raccolta e la distribuzione non c’era e non è stata inserita nessuna normativa specifica. Noi ci siamo sempre posti con il buonsenso, pur prendendoci qualche rischio: lasciamo frutta sull’albero, non portiamo via tutto, agiamo sotto forma di volontariato e senza scopo di lucro. Non c’è nessun progetto finanziato. Quello che abbiamo capito è che è un tema sentito come marginale in una gestione delirante del verde in una città enorme come Roma”.

“Abbiamo fatto anche delle analisi per appurarlo: ci dicono che questa frutta, tolta la buccia, non è inquinata. Certo bisogna andare a logica: un conto è raccoglierla lungo il raccordo, un conto a Villa Pamphili”.

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Frutta trovata al Parco degli Acquedotti di Roma. Foto dell’autrice

È vero però che raccogliere la frutta non dovrebbe essere un gesto tanto trascurato, perché farlo racchiude in sé diversi obiettivi, oltre allo scempio di buttare via del cibo: “Prima di tutto è importante far capire alle persone che la frutta che cresce in città si può raccogliere e si può mangiare, che è sana, a chilometro 0. Abbiamo fatto anche delle analisi per appurarlo: ci dicono che questa frutta, tolta la buccia, non è inquinata. Certo bisogna andare a logica: un conto è raccoglierla lungo il raccordo, un conto a Villa Pamphili”.

Si evitano quindi le arterie ad alto scorrimento, si toglie la buccia, si scelgono punti isolati. “Inoltre per noi è importante far capire che Roma ha un grandissimo patrimonio botanico che va valorizzato. Avevamo come obiettivo la creazione di frutteti urbani che fossero alternativi all’orticultura pur rimanendo spazi aperti di partecipazione. La frutta richiede molta meno manutenzione e stimola la riscoperta delle varietà botaniche antiche della città”.

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Foto per gentile concessione di Linaria

Il discorso si allarga poi in generale al tema della raccolta di erbe selvatiche, in campagna e anche in città. Eleonora Matarrese è un’esperta di etnobotanica e fitoalimurgia. Conosce piante e lingue straniere, fa formazione a nuovi forager, ha scelto come soprannome “la cuoca selvatica”, racconta la cucina delle erbe. Quando le parlo di urban foraging mi sventola una sua foto mentre raccoglie conifere in centro a Milano, vicino il Teatro alla Scala e mi racconta di aver cominciato con sua nonna nei paesini e lungo le strade della Puglia. “Per molti raccogliere è ancora visto come una cosa povera, ma noi non lo eravamo. È un pregiudizio: la gente pensa che se tu vai a raccogliere in campagna sei uno sfigato, figuriamoci in città”.

“Più che la frutta mi spaventano le foglie in città, perché queste piante assorbono molto dal terreno. Sarebbe preferibile non raccogliere lungo le arterie principali”

Insomma questa storia è tutta italiana, basti pensare che a Londra c’è un gruppo di raccoglitori urbani molto attivo e che in Danimarca è stata creata un’app, Vild Mad, che aiuta a riconoscere, raccogliere e poi cucinare frutti, foglie e piante selvatiche. In Finlandia esiste un istituto giuridico, il diritto di pubblico accesso, che permette a chiunque di attraversare, campeggiare e raccogliere i frutti di qualsiasi terreno. Entro certi limiti, anche in terreni privati si possono raccogliere bacche e funghi.

Come racconta Eleonora, il fatto che un cibo sia in città o in campagna non fa differenza nel definirlo selvatico o meno. “Ci sono molte specie selvatiche e commestibili lungo le stazioni, posti dove notoriamente passa molta gente. I semi viaggiano attaccandosi addosso, infilandosi nelle pieghe dei pantaloni. In Lombardia i topinambur più belli crescono lì”. Non a caso esiste un libro del 2015 che racconta proprio la flora ferroviaria.

Tuttavia qualche scrupolo è bene farselo: “Più che la frutta mi spaventano le foglie in città, perché queste piante assorbono molto dal terreno. È vero che ormai tutto il pianeta è inquinato, ma sarebbe preferibile non raccogliere lungo le arterie principali. Lo stesso discorso vale in montagna. Pensiamo spesso che sia incontaminata, ma se raccogli il rumex alpinus vicino agli alpeggi dove c’è stato abbondante passaggio di animali (sott. e di letame) non va tanto bene. La risposta è negli equilibri. È vero poi che bisogna fare una raccolta con criterio, ma nel caso dell’urban foraging si tratta per lo più di alberi abbandonati”.

Del resto se parliamo di inquinamento, possiamo considerare incolumi frutta e verdura altamente trattati con prodotti di sintesi in campo? Oppure i pomodori del terrazzo del nostro appartamento cittadino? Raccogliere la frutta urbana ha un valore “prima di tutto culturale” spiega Eleonora “perché c’è un discorso storico di recupero delle conoscenze, e antropologico. È un modo per riscoprire la città spostando lo sguardo su altro. Oltre a questo c’è il vantaggio di fare del movimento che tiene allenati a livello fisico e conoscitivo. Dal mio punto di vista c’è infine un discorso ecologico, che serve a capire che non conviene rasare i prati o mettere l’erba finta come succede spesso, ma lasciar crescere ciò che c’è in natura. Perché dare i soldi alla Grande Distribuzione quando le cose possiamo trovarle là?”.

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