“Chi controlla i semi controlla i sistemi alimentari, controlla sia il cibo che mangiamo che chi l’ha creato”
Per fare l’albero ci vuole il seme, recitava una canzone ripescata dalla mia infanzia. Già, ma quale seme? Non una cosuccia qualunque ma uno scrigno naturalistico a cui si accede, semplificando un po’ la storia, per due strade: c’è la via convenzionale e quella informale. La prima prevede di recarsi a un vivaio per l’acquisto di semi prodotti da una ditta sementiera. La seconda è quella di conservare il seme in azienda e/o scambiarlo con altre realtà. Questa seconda modalità per millenni è stata essenziale per la sopravvivenza dell’agricoltura ma oggi è relegata in un angolo della produzione agricola.
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Scrive Massimo Angelini nel libro Minima Ruralia che “lo scambio delle sementi è una pratica consuetudinaria che nella cultura e nell’economia rurale […] risale a un tempo che precede la memoria collettiva” e che “tutto ciò che ha a che fare con le pratiche di sussistenza è parte di un ambito pre-giuridico che logicamente precede e fonda ogni legge, e lo scambio delle sementi è senza dubbio un elemento che rinvia all’autoproduzione del cibo e, dunque, alla sussistenza”. Tutto naturale? Non proprio.
La scomparsa dello scambio dei semi
Fabio Ciconte nel suo libro, Chi possiede i frutti della terra, ha provato a spiegare cosa è successo. Dobbiamo immaginare un prima e un dopo: il prima è un mondo in cui i semi circolano liberamente, il dopo è un mondo che arriva a stabilire trafile burocratiche e proprietà intellettuali per la commercializzazione dei semi. Di mezzo ci sono i primi brevetti sui frutti negli Stati Uniti, la nascita dei semi ibridi e delle ditte sementiere, l’arrivo dei principi di privatizzazione anche in Europa, l’adozione di normative che vincolano l’acquisto di semi. È un processo che si compie nell’arco di decenni ma che non rimane un solo affare di genetica e botanica, ma ha un vero impianto sociale, se non filosofico. Chi controlla i semi infatti controlla i sistemi alimentari, controlla sia il cibo che mangiamo che chi l’ha creato.
Riccardo Bocci, direttore tecnico di Rete Semi Rurali (RSR), si occupa di semi, di biodiversità e di politica da sempre. “Per poter vendere un seme in Italia è necessario che la varietà sia registrata su un catalogo gestito direttamente dal Ministero,” spiega. “Le varietà iscritte devono corrispondere a tre criteri: essere distinte, uniformi e stabili. Poiché in questi ultimi anni è cresciuta la presenza di agricolture, chiamiamole così, alternative, gli agricoltori hanno cominciato a cercare semi tramite i meccanismi di libero scambio, non riuscendo a recuperare sul mercato convenzionale quelli adatti al loro sistema”.
“Gli agricoltori sono stati esclusi dalla gestione del seme. Come vuole il nostro sistema capitalistico, sono diventati clienti delle ditte”
Questa esigenza di avere semi diversi, non convenzionali, difformi e plurali (pensiamo ai miscugli o alle popolazioni) è interesse di un certo tipo di mondo agricolo, come quello dell’agricoltura biologica, che non punta esclusivamente alla resa per ettaro. Per quanto però lo scambio del seme sia importante, non è così semplice metterlo in atto. La disciplina sementiera infatti è piuttosto imprecisa. In essa si sostiene che gli agricoltori sono liberi di attuare il reimpiego delle sementi o lo scambio di parte del raccolto, ma possono farlo all’infuori della commercializzazione. Per quest’ultima “s’intende la vendita […] mirante allo sfruttamento commerciale di sementi a terzi, con o senza compenso” ma l’interpretazione è tutt’altro che univoca. Se da una parte lo scambio tra hobbysti è al riparo, quello tra agricoltori di varietà di conservazione, è soggetto a limitazioni che possono essere superate se lo scambio avviene in determinate condizioni: ad esempio per ricerca, moltiplicazione del seme, all’interno di un gruppo di associati, localmente o in minime quantità.
Le limitazioni alla conservazione e allo scambio di semi hanno prodotto numerose distorsioni, come la perdita di varietà locali
“Da circa 15 anni dal mondo biologico è arrivata l’idea che le normative sementiere europee non siano più attuali” spiega Bocci “perché abbiamo bisogno di meno uniformità e di maggiore diversità in campo”. Questa agro-biodiversità non è un accessorio di lusso ma uno strumento efficace per il contrasto delle malattie delle piante, per le qualità nutrizionali e per una maggiore resilienza alla crisi climatica. La battaglia si è quindi spostata sul campo della politica perché la richiesta all’Unione Europea di molte associazioni tra cui RSR è quella di rivedere i criteri dei cataloghi e di escludere completamente lo scambio dalla normativa. Nel 2023 potremmo avere una nuova disciplina sementiera ed è essenziale che premi la biodiversità favorendo una circolazione di semi senza vincoli.
Le limitazioni alla conservazione e allo scambio di semi hanno prodotto numerose distorsioni, come la perdita di varietà locali. Ma soprattutto un nuovo ruolo per i contadini all’interno del sistema alimentare. “Gli agricoltori sono stati esclusi dalla gestione del seme, ormai una prerogativa delle ditte sementiere. Come vuole il nostro sistema capitalistico, l’agricoltore è diventato un cliente delle ditte,” spiega Bocci. Lo scambio di semi è uno dei momenti di messa in atto di una rivoluzione di questo concetto, perché l’agricoltore e l’agricoltrice si riappropriano dell’esperienza in campo, di un processo di ricerca e sperimentazione agricola. Non fanno semplicemente crescere le piante per poi piazzarle sul mercato.
Il ritorno del seed swap
Gli scambi di semi sono diffusi in tutto il mondo. Se ne occupano associazioni, enti di ricerca, comitati e privati. Negli Stati Uniti si chiamano seed swap o seed exchange. Vi prendono parte i singoli cittadini per la produzione familiare, gli orti comunitari, gli appassionati specializzati, gli orti botanici, le università. Tra i partecipanti ci sono i collezionisti di varietà botaniche, ma anche famiglie che sostengono l’importanza di coltivare il proprio cibo. Nel tempo sono diventate occasioni sociali per riunirsi, stringere amicizie e fare attivismo, come per Seed Savers Exchange.
In Italia una delle prime realtà ad occuparsene è stata il Consorzio della Quarantina in Liguria con il nome di “mandillo dei semi” una parola genovese che indica un fazzoletto che le donne mettevano sul capo oppure sulle spalle. “Saranno messi a disposizione 50 campioni di semi di 20 varietà locali e tradizionali di ortaggi (bietole, cipolle, fagiolane, fagioli, mais, patate, pomodori, scalogni, zucche e zucchini) riprodotti dai contadini del Consorzio di tutela della Quarantina bianca Genovese. I campioni saranno offerti gratuitamente ai primi richiedenti, con precedenza per i contadini” avevano scritto in un post su Facebook gli organizzatori in occasione della prima festa dei semi autoprodotti. Era il 2001.
“I Seed Swappers sono una sottocultura di internet insolitamente gentile”
Anche Rete Semi Rurali si occupa di scambio semi, con una campagna di semina annuale che coinvolge una casa delle sementi con circa 1500 sementi di specie diverse, tra cui molti cereali. Per agire correttamente ci sono una serie di regole concordate: “Queste campagne di semina le intendiamo senza sfruttamento commerciale,” spiega Bocci. “Facciamo firmare un foglio agli agricoltori in cui si impegnano ad utilizzare i semi a fini di ricerca e conservazione della biodiversità, e non di produzione. Inoltre tutte le varietà scambiate sono libere da proprietà intellettuale”.
C’è un catalogo da cui gli agricoltori possono chiedere di una data varietà 100-200 grammi: “Serve per provare i semi in azienda e stimolare la creatività dei soggetti che li ricevono. Da quando è partita la moda dei grani antichi, tanti agricoltori che fanno cereali vorrebbero convertirsi, solo che non trovano il seme e vengono da noi a chiederlo. Noi diamo grammi sufficienti per fare 15 metri quadri. Ci restano male, vorrebbero 10 quintali per partire subito e l’anno dopo vendere. Ma il nostro obiettivo è diverso: far sì che provino delle cose da moltiplicare negli anni. Vogliamo evitare le speculazioni”.
Esiste anche un mondo digitale che con il Covid ha avuto un’impennata, poiché durante la pandemia il calendario degli eventi di scambio semi è stato sospeso un po’ ovunque. Su Facebook esistono numerosi gruppi di scambio di semi e marze dove si può trovare di tutto. “I Seed Swappers sono una sottocultura di internet insolitamente gentile,” ha scritto Amanda Luz Henning Santiago.
Come utente ho scoperto una grande varietà di richieste, tra cui piante tropicali o fiori rari, oltre che produzioni ortive. “Cerco semi di santoreggia montana. Offro semi di zucchina lunghissima siciliana” è una tipologia di post che si trova frequentemente in questi gruppi. Dopo aver concordato lo scambio, i semi vengono spediti per posta a chi ne fa richiesta e ha qualcosa di interessante da proporre. Ogni tanto compaiono post di ringraziamenti con i frutti e le piante nati.
Per dare coerenza a quanto abbiamo detto, occorre specificare che questo metodo, se non viene supportato da un adeguato processo formativo, non può che rimanere amatoriale. “L’idea che tutto si riduca a uno scambio di semi su internet limita molto la nostra idea,” aggiunge Bocci “Il rischio è che diventi come lo scambio delle figurine, che rimanga solo tra gli appassionati. Per noi si tratta di una scommessa molto più ampia”.
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