Música

Ciao Internet, grazie per aver distrutto le sottoculture

Che non esistono più sottoculture musicali è una gran bella verità.

Oddio, magari esistono ancora le sale prove pulciose in cui i gruppi garage sono convinti di metterla in culo al sistema, ma le sottoculture rave o punk o di qualsiasi gruppo di persone che, consapevolmente, si distacca e intende differenziarsi nettamente dalla cultura esistente sfidandola sono creature estinte, e il loro ricordo appartiene all’era pre-digitale.

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La cultura in cui viviamo oggi è una sola, una cultura con la C maiuscola. Una Cultura avvolgente e onnicomprensiva in cui il mainstream si dirama fino alle sue maglie estreme, includendole. È un leviatano dalle mille teste, senza una direzione precisa, ma in cui ogni spunto è risucchiato. E non è così perché esistono macchinazioni da parte del Sistema (anche se in parte può essere così) per cui è d’obbligo che ogni forma culturale spontanea venga riassorbita da qualche parte, ma perché la nostra Cultura è bulimica: si nutre di ogni cosa le venga messa davanti. Oltretutto Internet ha il pregio ed il limite di essere onnisciente: ogni cosa è sotto il sole e a nulla è concesso di stare sotto i riflettori abbastanza a lungo da svilupparsi in qualcosa di concretamente potente e in grado di sollevare una sfida alla cultura dominante.

Internet ha dissolto confini, e la cosa ha avuto numerosi vantaggi: gli artisti possono raggiungere i fan direttamente, aggirare i vecchi ostacoli, comunicare faccia a faccia, accedere alla discografia intera dei propri artisti preferiti e così via. Solo che questo sgretolamento di confini può prendere due direzioni: può, nel peggiore dei casi, portare a una grossa rete mainstream che pesca e mangia dal piatto di una generazione di giovani la cui istanza “ribelle” oramai non può più trovare una nicchia biologica. Si tratta del famoso fenomeno dell’appropriazione culturale, in cui Internet è l’oppio dei popoli. L’estensione pressoché infinita di questa rete accentratrice fagocita le sottoculture e le risputa fuori completamente scarnificate, private di senso.

La cosa più preoccupante è che non sembra importi a nessuno di questo fenomeno. L’industria musicale è talmente piegata che fatica a tenersi in piedi, non ha tempo né modo di pensare a dettagli come, ad esempio, la salvaguardia delle nicchie biologiche. E questo è triste, soprattutto perché—dal secondo dopoguerra—generazioni di artisti e di ragazzi hanno lottato per prendersi il proprio spazio, per avere la propria forma, mentre ora gli strumenti di lotta sono stati appesi al chiodo. Con cura e tanta igiene.

E se l’inculata è che poi Rihanna che plagia Venus X, o i Coldplay i Creaky Boards, nel frattempo le stesse sottoculture che si lamentano di essere violate alzano la gonna e mostrano il proprio menu agli stessi stronzi che l’hanno più volte rifiutato. Il che potrebbe essere un bene per la condivisione, ma è come avere una casa senza muri.

Una sottocultura, per essere tale, ha bisogno dei propri angoli bui accessibili solo a chi ne fa parte. Al contrario, se si aprono le porte e si ammette chiunque a prenderne parte, si perdono i confini e l’esclusività di una nicchia, e si perde la nicchia stessa.

E non dimentichiamoci che a definire una sottocultura non era solo la musica, ma soprattutto la rete e i legami subculturali. La musica era una delle espressioni eminenti di questi intrecci. E la parte interessante, il vero potenziale di queste realtà, risiedeva nei metodi con cui ogni sottocultura si teneva in vita e nel fatto che questi metodi erano completamente distaccati dal mainstream. Non certo nei pedali fuzz o nei jeans strappati.

Cose che non sarebbero mai esistite se all’epoca ci fosse già stato internet: il grunge, i rave, il culto delle cassette, e qualsiasi più o meno discutibile forma di sottocultura musicale. Se quando i Nirvana hanno cominciato a raccogliere centinaia di persone ai loro concerti a Olympia ci fosse stato Internet le citazioni più famose di Cobain sarebbero diventate trending topic su Twitter, non molto di più. E non molto diverso da quello che i Nirvana sono ora.

D’altro canto, con un incremento culturale di questo tipo, il mondo è diventato più egualitario, più aperto. Ho sentito più volte i miei amici sostenere questa cosa della cultura open source. Il problema è definire cosa si intende davvero per uguaglianza. Una cultura accessibile a chiunque sia di passaggio? Un supermarket delle culture, più che altro.

Definirsi appartenente a una qualsiasi sottocultura è un ritorno igienizzato a un ideale svuotato e privato di identità; una pretesa collettiva ai limiti del ridicolo. Come una cerimonia Ayahuasca senza Ayahuasca.

Adesso mi immagino un esercito di militanti anti-Internet, anti-condivisione, anti-apertura, una generazione X di artisti che mandano tutto a puttane, in un futuro che non è neanche così distante. L’enorme ascesa del fattore nostalgia nell’industria musicale degli ultimi anni—che ha portato alla riesumazione ed emulazione di stili e artisti dimenticati—dovrebbe fare da bandiera per ricordare ciò che è perso. E io spero che quando saremo tutti stufi di impinzarci di culture continuamente, quando l’impetuosa onda di Internet si sarà placata, torneremo a quella pratica dismessa che è la concentrazione. Guardarsi negli occhi mentre si sta in uno stesso luogo e coltivare qualcosa senza avere il costante riferimento a come può risuonare su Internet. Chiudere le porte al mondo.

Sfortunatamente è impossibile uscire dalla dinamica e dall’economia di Internet muovendo un’opposizione spiccia. Disconnettersi da questo mondo avrebbe un impatto paragonabile a quello di Russell Brand che dona tutti i suoi soldi in beneficenza. La beneficenza è un gioco da ricchi, non uno strumento della collettività e in questo caso c’è bisogno di un’azione collettiva.

Se mi sforzo di pensare a una sottocultura ancora attiva oggi, senza scomodare Hell’s Angels o cosche mafiose, ed eliminando le paraculate modaiole, l’unica che mi viene in mente è quella dei Bronies. Dite quello che vi pare, ma i Bronies sono più punk di qualunque punk si dichiari tale oggi. Pensateci, al vostro prossimo raduno.

E se l’età moderna è ricolma di cose da amare, come i bei tempi andati e la grande arte a destra e a sinistra, quando si arriva a scoperchiare TUTTO, a condividere ogni cosa, la cultura non è destinata a crescere, ma a ripiegarsi su se stessa.

Forse sarebbe il caso di concentrarsi su ciò che è culturalmente valido a lungo termine: non un’insalata di culture in cui ogni forma d’espressione è portata al limite e sovrasaturata per risultare digeribile, ma tuffi profondi in prospettive culturali che sono potenti proprio perché sono difficilmente accessibili, e proprio la difficoltà cui va incontro chi voglia davvero accedere è ciò che permette loro di produrre forme espressive significative, che hanno un significato per chi c’è dentro, non per chiunque ci passi vicino.

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