C’è un mito secondo il quale mischiare degli alcolici senza un’intenzione in un bicchiere ti darà comunque un buon drink come risultato. Non è proprio così: l’arte della mixology è molto più intricata di quanto non sembri. Come la cucina, le tecniche sono diverse, gli ingredienti e le mani dei bartender conferiscono da sempre un tocco personale ad ogni miscelazione. Non tutti i cocktail sono shakerati come nei film degli anni ’80, e soprattutto non tutti gli aromi stanno bene fra loro.
Allora, grazie alla collaborazione con Jameson, abbiamo cercato di capire qualcosa in più sull’argomento. Ad aiutarci due grandi bartender che ci hanno dato qualche dritta sulla creazione di drink semplici, e meno semplici, e per sembrare esperti di mixology. Grazie a Marco Ferretti e a Patrick Pistolesi, finalmente faremo buona figura durante le feste casalinghe.
Dalì una volta disse: “Anche per i baffi, mi accingevo a superare Nietzsche! I miei non sarebbero stati deprimenti, catastrofici, prostrati dalla musica wagneriana. No! Sarebbero stati affilati, imperialisti, ultra-razionalisti e puntati verso il cielo”.
Dal momento che Marco Ferretti, classe 1988, ricorda più Dalì che Nietzsche, i suoi di baffi sono giustamente rivolti all’insù, arricciati elegantemente come la migliore combriccola di publican dell’800.
Accomodati sui divanetti di un pub ci siamo confidati sull’amore, ma abbiamo soprattutto parlato di miscelazione, della formazione di un bartender, dei retroscena di un cocktail bar (sì, anche delle rivalità tra l’uno e l’altro) e, come sempre, mi sono fatto dire gli aneddoti più assurdi che gli sono capitati.
La chiacchiera è stata lunga. Non sarebbe stata possibile senza l’aiuto di un whisky liscio sul tavolo. On the rocks, con due cubetti di ghiaccio. Non uno di meno non uno di più.
MUNCHIES: Marco, ciao. Iniziamo dall’inizio. Perché il bartending?
MARCO: Sono nato a Marino, ai Castelli romani, dove c’è la sagra del vino buono che sgorga dalle fontane. Insomma, buono. Più che altro è romanella(romanella: tipologia di vino molto somigliante all’aceto. Ma sincera e aggregante. Ndr.). Puoi iniziare a capire da dove venga la mia passione. Sono laureato in design e diciamo che questo mio amore per il bartending è nato in conseguenza al mio sogno di fare l’arredatore: in pratica non volevo rompere le scatole ai miei, quindi tra un lavoro saltuario e un altro, ho deciso di fare un corso da barman e ho iniziato così a lavorare il week-end praticamente in tutte le discoteche di Roma.
Certo, prima c’erano praticamente solo quelle per bere.
Esatto, dieci anni fa non c’era la mixology come la conosciamo ora: la ricercatezza non c’era, il cocktail bar non c’era. C’erano quattro drink schifosi: Long Island, Vodka Lemon, Gin Lemon e Whisky e Cola.
Io prendevo vodka lemon senza ghiaccio. E in discoteca hai cambiato le regole del gioco, giusto?
Eh certo perché così ti sembrava di più e ti ubriacavi prima.
Ti dicevo: ho girato e girato per ogni discoteca fino a fermarmi come capobarman al Rashõmon Club, locale storico di musica underground, cercando di studiare, di portare avanti quelle che erano le idee della qualità del bere, all’interno di un posto e di una situazione musicale che era anti tutto ciò. Prima si beveva una volta in usa e getta di plastica e la qualità dell’alcol non era mai alta, anzi, si facevano delle schifezze pazzesche. Io ho portato il bicchiere in vetro, che per me era un must, e la cosa bellissima era che la gente non essendo abituata a un servizio del genere – non era molto raccomandabile, ecco – rimaneva con il drink in mano e mi faceva “nooo e mo che faccio, ma me lo devo bere davanti a te?? Se mi si rompe?” E io: “Amico mio, rompili, stanno qua apposta. Evitiamo de tirarseli però se ti cade per terra sti cazzi.”
Diciamo che a volte se li sono tirati però alla fine si sono abituati, tipo Far West.
Ho cercato di portare il buon bere in un luogo che non lo conosceva, di creare un locus amoenus.
È in questo momento che ho iniziato a studiare davvero il mondo del bartending, ad appassionarmi delle spezie, a studiare prodotti, liquori…
E nel frattempo Roma stava cambiando, stava cominciando ad avere coscienza di quello che poteva essere il bere bene. Iniziavano a nascere i primi cocktail bar seri, roba come Banana Republic, che fu uno dei primi e poi vabbè naturalmente il Jerry Thomas che ha lanciato proprio una tendenza non solo in Italia ma anche a livello internazionale. Anche quest’anno è arrivato tra i primi 30 migliori bar del mondo.
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Il Jerry Thomas ha una delle scuole di bartending migliori d’Italia. Ma è un discorso a cui tieni molto anche tu, tanto che ne hai fondata una, giusto?
Sì, il Jerry ha portato alla ribalta un’ulteriore tendenza, quella della vera formazione. Ed è una cosa in cui credo molto: da tre anni sono diventato proprietario insieme al mio socio di una scuola per barman, la Bartender’s Art, tra le più ‘antiche’ di Roma, in cui imparai a muovere i primi passi dietro al bancone dieci anni fa.
Pensa che una volta erano quattro o cinque, adesso ci saranno una ventina di scuole. Immaginati venti scuole da barman che si litigano quelle 50 persone al mese. Diventa una guerra pazzesca. Si è creato un grande divario tra molte che vendono fumo per levare i soldi ai ragazzi – perché così è – e quelle davvero professionali. Si sono creati due antipodi.
Il corso fino adesso durava due settimane, ma abbiamo fatto una scelta, motivo di grande vanto, proprio per uscire da questo limbo: saremo i primi nella Capitale a fare un corso di formazione da 100 ore, quindi di due mesi e mezzo. Ci siamo detti: o facciamo corsi di mojito come alcuni, che ti levano solo i soldi per qualcosa che si insegna in un’ora anche alle mamme, o educhiamo alla tecnica e alla professione, come fa Jerry Thomas. Naturalmente abbiamo deciso di andare dalla seconda parte con poche persone, massimo sette, che ci portiamo avanti per molto tempo. Sono un po’ di soldi, vero, ma esci con un mestiere tra le mani, troverai sempre lavoro.
Non è un lavoro iperinflazionato? Insomma, di barman ormai ce ne sono tanti.
Ce ne sono troppi. Ma crediamo che il lavoro sia parte integrante della formazione, quindi siccome abbiamo ormai tanti contatti, la cosa che facciamo in più, che poi è la cosa più importante, è quella di trovare spazio alle persone. I più meritevoli di un corso di 7 persone, trovano davvero lavoro dopo due giorni. Si è creata una bella rete di contatti tra locali, consulenze e persone. Quindi capita spesso che ci chiamino perché gli serve qualcuno e riusciamo così a infilare i ragazzi. Dalle cose più disparate, come la festa dei 18 anni stupida dove ti smalizi un po’ e non hai l’ansia perché sono più piccoli di te, fino ad arrivare dopo un mese magari a lavorare in un ottimo cocktail bar. Inoltre stiamo per fare delle consulenze con una catena di supermercati per formare il personale, che spesso e volentieri non sa niente delle bottiglie in vendita. E magari aprire un minibar, così ti fai un Old Fashioned tra il reparto verdura e quello della carta igienica.
Discoteca o cocktail bar?
Sono consequenziali. Ovviamente per quanto possa piacerti la notte alla fine la discoteca ti distrugge, però è necessaria.
Appena finisce il corso cerco di far lavorare i ragazzi in una discoteca, anche solo per due turni, perché ti dà la velocità. I cocktail sono sempre quei quattro di merda, ma devi essere veloce e imparare a gestire il bar al buio, con le luci che ti spaccano la testa. Se trovi il cliente maleducato o ubriaco lesso che ti leva il bicchiere prima che tu abbia finito, ti insegna a essere padrone della tua postazione.
A fare lo gnegne col jiggerino è bona pure mia madre, che tra parentesi fa il miglior mojito di Roma.
Poi dalle discoteche passi nei cocktail bar, dove puoi davvero esprimerti. La cosa migliore sarebbe iniziare affiancato da un professionista, che condivide i suoi segreti. Non capisco chi non condivide: se sai una cosa, non è tua. È del mondo. Dalla.
Aneddoti imbarazzanti legati al tuo lavoro?
Uh (ride). Ok. Allora, c’era un periodo di esaurimento totale in cui ogni sera finivo a dormire in una casa diversa. In questo periodo mi ritrovavo a toccare qualsiasi cosa di vetro e a farla esplodere. Appena toccavo i bicchieri con un dito esplodevano in mille pezzi. Quindi ogni ora dovevo chiudere la mia postazione per pulire il casino al buio con le mani sanguinanti.
E poi a scuola. Durante il corso facciamo versate: si prende la bottiglia con il metal pour (che è il tappino col beccuccio, quello dell’olio, ma nasce per i superalcolici) piena d’acqua, o andremmo falliti, e si versa. Per versare hai un conteggio particolare, “Bubble, two, three, four”, che corrisponde a un’oncia e mezza, e dalla seconda lezione inizi a imparare questo conteggio.
Insomma, c’era questa ragazza che forse contava fino a venti, perché puntualmente ogni volta sotto il suo posto c’era un lago per terra. E siccome hanno sempre lo stesso posto per settimane e non è che possiamo controllare il pavimento ogni due secondi, pozza dopo pozza, all’ultimo giorno si è letteralmente alzato il parquet. Non credo abbia mai lavorato, ma a fine corso le abbiamo regalato una maschera da sub insieme all’attestato.
Più di una volta sono venuti i genitori degli allievi a ringraziarci tutti felici perché i figli tornavano a casa ingrifati dopo aver imparato cose nuove e gli facevano assaggiare drink fino a farli ubriacare, e lì ti senti fiero di loro.
Questo post è parte del nuovo progetto editoriale “Che Gusto C’è”, realizzato da MUNCHIES e VICE in collaborazione con Jameson Irish Whiskey, per esplorare la cultura della musica di strada e del buon bere.