James Whipple in arte M.E.S.H. ha fatto un album. Prima di questo c’erano stati solo diversi EP, uno famosissimo per PAN, due su Black Ocean e poco altro. Il fatto che anche questo LP uscisse sull’etichetta di Bill Kouligas e le soluzioni sonore che avrebbe potenzialmente potuto contenere sapevano già di disco da classifiche di fine anno. Un po’ come i film di prestigio, fatti apposta per andare agli oscar. PAN si è un po’ adagiata sugli allori da questo punto di vista, ma ciò non toglie che di musica figa ne stia buttando fuori a pacchi, riuscendo non raramente a sorprendere. Certo, si tende un po’ tutti a dare per scontato che faccia uscire dischi IMPORTANTI. Un po’ come Mego fino a qualche anno fa, con tutto che pure Mego continua a contare una quantità impressionante di uscite enormi ogni anno.
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L’avvento del primo ascolto di questo Piteous Gate, quindi, mi ha portato un po’ di dubbi pregiudiziali: per motivi legati al giro da cui viene e all’estetica generale dei suoi lavori precedenti avevo fissa in testa l’idea che che, quasi sicuramente, M.E.S.H. avrebbe giocato tantissimo con quella che oramai in Italia (ed è un po’ un peccato che questo non avvenga anche altrove) ci siamo abituati a chiamare “estetica accelerazionista”, e non riuscivo a decidermi se questo sarebbe stato un bene o un male. Di fatto avevo ragione: quei suoni e quei ragionamenti stanno dentro l’album in maniera assolutamente preponderante e determinante, se poi questo sia un bene o un male, be’, non l’ho ancora deciso, ma so perlomeno che questa indecisione è in sé un bene.
Insomma sì, l’album suona lucido e informatico, come captato da un’ inafferrabile altrove psichico. C’è infatti un uso perturbante dello “spazio” sonoro che rende i suoni “tangibili” e per questo inquietanti, perché il lavoro di mixaggio e compressione fa fondamentalmente in modo che alcuni dei fenomeni che ci passano per le orecchie suonino “reali” ma non del tutto riconoscibili (in quanto non associabili dei corpo che li abbiano prodotti). In questo modo la coscienza si trova confusa e in qualche modo “spaventata”; allo stesso tempo, gran parte di questi suoni sono del tutto codificati a livello emozionale: la nostra esperienza li associa a dei mood specifici, a delle risposte che si dovrebbero fornire a livello di associazione mentale. Giocare con questo tipo di suoni significa fondamentalmente lavorare sulle aspettative e decidere se le si vuole tradire o soddisfare (ovviamente il tradimento è sempre più interessante, più realistico).
Sono i cosiddetti “suoni da trailer”: non che James abbia usato tamburoni di guerra e trombe da Inception, ci sono elementi che si potrebbero più o meno piazzare in quell’insieme. ci sono le percussioni cinematiche grosse così, ci sono i drop mozzafiato. Suoni che persuadono in una qualche direzione. Lo sballottamento serve invece a raccontare—con estremo candore—la condizione di iperstimolazione che viviamo ogni giorno, la saturazione digitale di informazioni che genera incertezza e ansia ma anche una sorta di meraviglia. Un incanto kitsch e paranoico generato dalla condizione precaria del soggetto in un sistema in crisi, spinto continuamente al consumo e alla (ri)produzione di informazione, e consapevole di stare producendo un certo numero di informazioni su di sé che vengono consumate da occhi che chissà chi cazzo sono. L’esempio fatto da James è una personale ossessione per quanto è successo e sta succedendo in Ucraina (con tanto di aeroporto devastato di Donec’k in copertina): l’impossibilità di credere a fatti di cui vengono di volta in volta rivelate interpretazioni nuove, catene probabili di cause e conseguenze, accuse, revisioni, scuse, narrazioni poco attendibili… L’ansia di non poter davvero afferrare nulla di tutto questo è davvero “terribile”.
Per dirla con il collettivo Tiqqun, è il prodotto dell’epoca del Capitalismo Cibernetico, quello in cui “la precarizzazione degli oggetti e dei soggetti del capitalismo ha per corollario un accrescimento della circolazione di informazioni a loro riguardo: ciò può valere indifferentemente per un lavoratore disoccupato come per una mucca. Di conseguenza la cibernetica mira a inquietare e a controllare nello stesso movimento.” Ma il contenuto di questo album non vuole essere solo critico, c’è sicuramente dentro anche un senso di bellezza onirica, la creatività accelerata, sparsa in giro per questo casino di dati che arrivano da tutte le parti.
Ecco, invece di cosa non c’è traccia nell’album? Del post-grime futurista a cui M.E.S.H. è comunemente associato, perlomeno in un una forma riconoscibile. L’evoluzione-trascendenza del genere è praticamente completata in un qualcosa di differente, e appare soprattutto come ne fosse stato completamente disassemblato il meccanismo, e si stesse quasi facendo scempio del suo corpo robotico. Si gioca con un rottame che non aveva neanche fatto in tempo a diventare obsoleto, ma non è un gioco divertente, anzi: è quasi tragico, o perlomeno malinconico. L’architettuta è quindi completamente astratta e stratificata a livelli volutamente eccessivi. Il senso perturbante di cui sopra è accompagnato da un sovraccarico di suoni e il gioco di aspettative si basa quasi sempre sul fatto che la struttura dei pezzi non è lineare ma piena di preamboli sonici che catturano l’attenzione per non portarla effettivamente da nessuna parte. Non che poi non arrivi nulla, ma, appunto, si fa fatica ad attribuire un giudizio emotivo a quello che arriva: è spaesante, perturbante, non prova nemmeno a funzionare da sfogo o da catalizzatore energetico.
Drop e partenze sono volutamente posizionati “male”, dove la loro presenza non produce sviluppi comprensibili. È qui che entrano in gioco gli ingranaggi grime: i tipici stop&go del genere, esasperati e abusati forniscono il materiale per modellare lo spazio e il tempo. James ne manipola funzioni e comportamenti per comprenderne il funzionamento. Allo stesso modo, le melodie e i riff di synth che coesistono con questo caos suonano esageratamente emotive al punto da risultare quasi completamente artificiali: sono il risultato dell’incrocio tra certe modalità della trance più spanata, completamente plastificate, con la malinconia urbana che decora tutto l’hardcore continuum.
Quelli elencati sono tutti tratti comuni all’area accelerazionista, con la differenza che, insieme ad Holly Herndon, Amnesia Scanner, JLin, TCF, la truppa Quantum Natives e pochi altri, M.E.S.H. applica quest’attitudine euristica, manipolatrice interrogandosi soprattutto sui linguaggi “ovvi”, sulle forme kitsch di musica iperreale, creando di fatto il modo di evocare musicalmente un nuovo sentimento, quello stesso senso di trance-confusione precaria di cui sopra, che finora non aveva avuto modo di apparire se non attraverso reazioni critiche. Allora si segna una differenza piuttosto grossa con tanti altri nomi che di questa cultura cibernetica fanno un uso conformista, quasi scappando a nascondere la testa dentro un consumismo decisamente infantile, a base di render lucidi, mastering ipercompresso, Nike, Energy Drink e tessuti tecnici.
Tanti ne hanno fatta una semplice nuova maniera dance, un post-grime dai suoni duri e brillanti, tanti altri hanno deciso di mettere su una discarica HD che sulle prime era davvero mega interesante. Peccato, però, che pur di non scadere nella denuncia spicciola (tipo “faccio il pop brutto perché il pop è brutto”) si siano doppiati da soli per finire dalla parte del “nemico” (tipo “faccio il pop brutto perché McDonald’s mi dà i soldi”). Insomma, se ti fai pigliare troppo la mano a mettere gli Aqua nei DJ set, alla fine stai facendo la stessa roba di Steve Aoki o di una festa disco-trash di provincia. Stesso discorso, facendo un uso “alla lettera” o—peggio ancora, cazzo—“ironico” del linguaggio del consumo, finisci a sguazzare in quella stessa forma di violenza psichica. Alla meglio ne guadagni in autocompiacimento.
Tornando a noi, Piteous Gate segue tanto fortemente questo non-umore che ogni traccia pare farlo allo stesso modo e contemporaneamente in modo diverso. Sono forme sempre diverse di interruzione dell’informazione, di deviazione del percorso emotivo. Una resistenza che è anche abbandono disarmato. È diverso dall’attivismo di Holly Herndon, forse davvero troppo positivista. Di dischi davvero simili, in realtà, ultimamente ne è uscito solo uno: The Blue Quicksand Is Going Now, il nuovo LP di Fis che, paradossalmente, contiene sensazioni apparentemente opposte: un senso di isolamento totale e solitudine cosmica che va oltre il pianeta terra e gli eoni umani, senza buttarla tanto sul distopico. Che il loro smarrimento, poggiato su orizzonti così diversi, abbia così tanto in comune, è decisamente interessante. In entrambe le prospettive l’elemento umano non è centrale ma disintegrato e spruzzato ovunque in piccole gocce di coscienza.
Questo si riflette anche nella volontà di superare certi stupidi manicheismi che la gente mette in campo quando si parla di fare musica elettronica: software vs. macchine, hands-on vs. automazioni, e sugli effetti udibili che avrebbero sulla musica. Cazzate, tutte. Quello che manca ancora, semmai, è forse una possibilità di reagire alla perdita di spazio e tempo con qualcosa che ne faccia tesoro e non la contrasti in maniera reazionaria, ma, come posto nell’ #ACCELERATE Manifesto, vi cerchi sovversivamente dentro “il recupero del futuro in quanto tale.” Meglio ancora (tornando a Tiqqun), che si disfi del bisogno di futuro come portatore di sicurezze e insicurezze, e che si procuri “i mezzi per durare come per muoversi, per ritirarsi come per attaccare, per aprirsi come per chiudersi, per collegare i corpi muti come le voci senza corpo.”
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