Ultimamente sul nostro pianeta si sono verificati alcuni episodi quantomeno singolari: un 25enne esaltato avrebbe rincorso Mario Adinolfi per strada urlandogli “ora ti catturo Snorlax!“, negli stessi giorni in cui una centrale di polizia australiana si è dovuta premurare di avvertire i cittadini, tramite la propria pagina Facebook, circa il divieto di cacciare Pokemon all’interno della struttura.
Il motivo, ovviamente, è l’uscita di Pokemon Go—l’ultima versione per smartphone di quella strana ossessione per l’eugenetica digitale che negli anni Novanta ha portato milioni di bambini a riversare le proprie speranze di gloria su un bruco, per poi scoprire che evolveva in un Butterfree che al massimo utilizzava Raffica. Un trauma, insomma, che può capire solo chi ci è passato.
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Per chi non ci è passato, detta molto brevemente Pokemon Go è un videogioco basato sulla realtà aumentata. E questo significa che, scaricata e aperta la app, grazie alla triangolazioni della vostra posizione Gps, sullo schermo della fotocamera potrete inquadrare e catturare i Pokemon direttamente in strada, lì dove vi trovate, senza più massi da spostare utilizzando Forza per andare a Celestopoli.
Il videogioco è stato lanciato in alcuni paesi il 6 luglio e dicono che in Italia uscirà ufficialmente il 15. Nonostante il breve tempo d’attesa, l’euforia di molti semi-trentenni—fra cui il sottoscritto—è stata incontrollabile, e per aggirare le tempistiche dettate da Google e Niantic sono anche uscite diverse guide (vedi Pokémon Millenium) in modo da scaricare in Italia la versione beta. Per una concatenazione di eventi tanto strana quanto quella che lega Adinolfi e la polizia australiana io disponevo di un aggancio dalla Nuova Zelanda, uno dei paesi in cui Pokemon Go è già disponibile, e approfittando di questo fatto ho potuto gustarmi il gioco con un po’ di anticipo.
Per farla breve, dopo cinque estenuanti ore di “Si è verificato un problema con i nostri server. Riprova più tardi,” l’altro ieri sono finalmente riuscito ad accedere a Pokemon Go, e rispedito indietro di 17 anni mi sono ritrovato davanti alla mia prima-vera-difficile decisione della vita: la scelta dello starter. Il professor Willow mi ha chiesto, come sempre, di scegliere fra Charmander, Squirtle e Bulbasaur. E io, come 17 anni fa, ho scelto Charmander.
Era mezzanotte passata, ma come due imbecilli fomentati io e la mia coinquilina ci siamo ritrovati impalati nel corridoio di casa, a fissare Charmander mentre sparavo dozzine di sfere poké sulla porta del bagno nel tentativo di catturarlo e lei mi gridava “ma tirala più forte ‘sta sfera, altrimenti non riusciamo manco ad iniziare!”
L’esaltazione non mi era passata nemmeno la mattina successiva, e nel percorso verso l’ufficio ho continuato a cercare Pokemon. Arrivando così a un’illuminazione: in attesa dell’uscita ufficiale sarei potuto diventare gli occhi e le orecchie delle persone che sulla mia timeline Facebook continuavano a fantasticare sul gioco, andandomene in giro per Milano con la videocamera del cellulare attiva per vedere i Pokémon in contesti reali o incontrare allenatori con cui ingaggiare una lotta. Avrei fatto da guida-beta tester e avrei saltato l’ufficio.
Fatto un piccolo programma per il percorso, avvertiti i colleghi e aperta l’app, mi sono imbattuto dopo neanche trecento metri in un Doduo selvatico. Con grande delusione, ho scoperto che non ci sarebbe stato nessun combattimento come in Pokémon Rosso, ma solo un’azione ondivaga sullo schermo—la stessa della sera precedente.
All’infuori del disappunto estemporaneo per una parte d’infanzia tranciata, dando un’occhiata oltre lo schermo ho notato quanto il panorama fosse scoraggiante. Il mio Pokémon di fatto non c’era: era piuttosto uno spettro del passato che mi ricordava che ho quasi 25 anni e mia madre avrebbe voluto facessi l’aviatore. Per esorcizzare la cosa e non pensarci, prima di catturare Doduo ed essere più simile a un avicoltore, ho deciso di scattare due foto: una che ritraesse la realtà finzionale con il Pokémon annesso e una fattuale. Lo avrei fatto per ogni Pokémon incontrato sul mio cammino, in una performance di turismo alternativo che mi sento di suggerire come progetto di fine anno per gli studenti della Naba.
Mentre mi dirigevo verso i Navigli, prima tappa del mio programma, sono incappato in diversi Pokémon, tra cui uno Zubat, la rottura di coglioni di tutte le zone d’ombra dei giochi per Game Boy. A ripensarci, il mio primo combattimento da bambino era stato proprio con uno zubat dentro il Monte Luna. All’epoca, un ragazzino più grande mi aveva concesso il suo Game Boy per qualche istante. E ora eccomi qua, seimila e oltre giorni dopo, sudato per il caldo milanese, a tentare di catturalo di nuovo.
Quando sono arrivato alla prima tappa, la mappa segnalava nelle vicinanze un Dratini e un Magikarp. Per chi non conoscesse le logiche di Pokemon: si sceglie sempre il primo. L’ho trovato proprio in acqua, anche se l’effetto “levitante” a filo superficie non mi ha catturato.
La cosa più straniante, però, è stato il momento successivo: salito su un ponticello e iniziato a tentare di prendere il Pokémon che fa solo splash, i presenti sullo sfondo sono rimasti impassibili, pensando probabilmente che stessi facendo una qualche foto per cogliere le bellezze meneghine. Una dinamica che, anche a tentare di spiegargliela, non avrebbero compreso. Soprattutto perché anch’io non avevo le idee chiare su ciò che stavo facendo.
Se da un lato ero comunque soddisfatto—per questioni di logica—di aver trovato dei Pokémon d’acqua dove c’è acqua, dall’altro sono dovuto tornare a casa e ritardare il programma.
Uno dei motivi per cui nei vari forum la gente ha iniziato a lamentarsi dell’app è proprio il fatto che, con il Gps sempre attivo, la batteria si scarica a velocità raddoppiata. Dopo aver ricaricato un po’ l’iPhone e preso un caricatore portatile, però, mi sono diretto in Duomo, la seconda tappa.
Lì è stata un’epifania, perché era pieno di Pokemon: ho catturato un Eevee molto ambito davanti alla statua di Vittorio Emanuele, e sono pure avanzato di livello. Passato per la galleria, che mi indicava come una sorta di Pokémon Center non pervenuto nella versione beta, ho preso anche un Oddish.
In quel contesto mi sono mischiato perfettamente tra la folla. D’altronde, in galleria, tutti scattano foto alle borse in vetrina, un po’ come stavo facendo io con i Pokémon evanescenti.
Mentre mi guardavo intorno per capire se qualcun altro stesse camminando col muso incollato al telefono giusto per un confronto, ho scoperto che i negozi in periodo di saldi sono meglio dell’erba selvatica. Tra gli stand di Zara, per esempio, gli Staryu abbondano tanto quanto le maglie non traspiranti in saldo.
Presi ormai una decina di Pokémon e arrivato al livello cinque, il professor Willow mi ha suggerito di dirigermi in una palestra. Sì, perché anche le palestre sono disseminate nei luoghi più strani della città.
La più vicina nel mondo reale era una chiesa, una chiesa di quelle vere—la vera chiesa di San Babila. Visto che mi sembrava eccessivo eseguire il segno della croce per sfidare un tizio con un Golbat, mi sono fermato sull’uscio. Il segnale funzionava lo stesso. Questo, però, non ha migliorato la situazione: il capo palestra mi ha sconfitto in tre secondi—perché, girovagando alla rinfusa, mi ero dimenticato di allenare i miei Pokémon.
Ma mi sono consolato dicendomi che il mio vero obiettivo era quello di catturarne più che potevo, e io ne avevo presi già abbastanza in qualche ora. Avvistato Borriello in bici in via Della Spiga, e tentato di catturare anche lui inutuilmente, ho scoperto che aver scelto come terza tappa le vie della moda offriva solo una continua alternanza di Rattata e persone imbellettate—l’algoritmo, insomma, non è esattamente collegato in modo netto alla realtà del luogo in cui i Pokemon si manifestano.
Raggiunto dalla mia coinquilina, abbiamo quindi deciso di prendere un bus per la quarta tappa: Parco Sempione.
Nella mia fervida immaginazione Parco Sempione poteva potenzialmente essere come la Zona Safari di Pokémon Rosso, e in effetti sulla mappa l’area era di un verde più scuro e brulicava di esemplari nascosti. Mentre ci dirigevamo in un chiosco che ho fatto finta fosse un Pokémon Market per mangiare qualcosa, sono arrivato a collezionare altri sei esemplari.
In quel momento di pausa, grazie all’aiutante non fuorviata dalla realtà potenziata, sono venute fuori alcune criticità. Per esempio, solo per ipotesi, potrebbe capitare di essere investiti per strada distraendosi a causa dell’app? Ho passato un’intera infanzia giocando allegramente a questo gioco, ma venire schiacciato da un Hammer mentre sto dando la caccia ai Pokemon non mi sembra un buon modo di morire.
Poi però, siamo finiti a parlare di quanto fossero fighi i Pokémon spettro e ci siamo diretti al Monumentale, perché ovviamente i Pokémon spettro si trovano nei cimiteri. Sarà che ancora si tratta di una versione beta, ma lì esemplari di questo tipo non ne abbiamo trovati. Solo Oddish, Rattata, Caterpie e Pidgy, almeno prima che il cellulare mi abbandonasse definitivamente e tornassi al solo mondo reale, dove a ricordarti che hai perlustrato mezza città ci stanno le pustole sotto ai piedi formatesi già da qualche ora.
In definitiva, con la mia versione beta, ho potuto appurare che all’interno della circonvallazione di Milano sono circa 25 le specie di Pokemon che si possono incontrare con frequenza. Non si capisce ancora se nella versione definitiva la circoscrizione dei 150 e più Pokemon sarà più concentrata, o se addirittura ci si dovrà spostare di alcuni chilometri per catturare determinati esemplari.
Caterpie.
Quest’ultima ipotesi renderebbe praticamente infinito lo spazio di gioco, e questo significa che dal 15 luglio non potrebbe essere così inusuale vedere gente che programma viaggi in Basilicata solo perché ha sentito che in un casolare della Lucania è possibile catturare Mewtwo. O almeno spero che sia così.
Perché se in un giorno sono riuscito a catturare 20 esemplari, in qualche settimana potrei riuscire a completare il Pokédex, no? Nel frattempo, sapendo che il weekend non sarà affatto sufficiente, lunedì mi do malato.
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