Música

Recensione: Aftersalsa – Concrete

aftersalsa band

Perché cominciare un disco con le parole “Fuck me like you always had / Don’t spoil it, I said”? Probabilmente perché vuoi evocare un senso di freddo sensuale indietronico, un po’ come quello che gli xx hanno sdoganato con enorme successo ormai una decina di anni fa e da lì è stato ripreso da orde di band mezze tastierose mezze chitarrose. Ma anche perché gli Aftersalsa sono persone che ascoltano un sacco di musica inglese e americana più o meno così, ci si ritrovano dentro e vogliono farla anche loro. E la fanno in quella lingua, perché così gli gira.

Questa è una mia ipotesi, a penso sia abbastanza fondata dato che che ho letto l’articolo uscito su DLSO in cui la band di Milano elenca i dischi che l’hanno ispirata nella produzione di questo suo album, Concrete, uscito da poco. C’è il dream pop dei Beach House, il glorioso synthpop ottantiano dei Lust For Youth di International, l’elettronica da clubbing-da-concerto di Trentemøller, lo zarropop tutto retrò dei Jungle. E anche cose che ci sono meno, nelle loro note, ma non nei loro cuori: quel paxxo di Oneohtrix Point Never, quel post-DJ visionario di Nicolas Jaar. Il che è tutto bello, ma anche un po’ un problema.

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aftersalsa concrete
La copertina di Concrete degli Aftersalsa, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

È bello perché significa che c’è gente che ascolta un sacco di musica straniera, se la lascia passare nel filtro della mente e delle dita fino a renderla il succo del proprio prodotto creativo. Viviamo tempi in cui per un maschio bianco è molto semplice fare musica di medio successo: basta fare pop normalissimo, avere un cognome nel nome, cantare in italiano di amori un po’ così, di Roma e Milano, del mare e del sole e del vento e del sorriso e del pianto. Si chiama itpop e produce roba ok e anche robaccia. Band come gli Aftersalsa, mi sembra, rifiutano tutto questo e fanno musica non-localizzata, notturna e sognante, che guarda alle eccellenze europee più che ai fenomeni di casa nostra.

Ma è anche un problema, perché sono fermamente convinto che per band come loro cantare in inglese sia un freno. Non perché abbiamo una tradizione che va rispettata, PERDIO, ma semplicemente perché 1) di band che fanno musica così e cantano in inglese ce ne sono 978917891278912312 in tutto il mondo e quindi 2) farlo in italiano sarebbe un valore aggiunto che li farebbe spiccare sia nel nostro paese così scarso con le lingue straniere, magari prendendo dentro anche gente che si gasa per l’itpop di maniera. Ci metto anche un 3), dato che cantare in una lingua che non è l’inglese non è più un limite, anzi, e all’estero una band che canta in italiano può risultare particolarmente figa da raccontare.

Detto questo, questi sono miei ragionamenti che non toccano il valore e/o gli intenti degli Aftersalsa, che fanno il loro lavoro egregiamente. L’estetica stradaiola delle loro foto spacca, “Oscar” è un pezzo con un gioco di melodie che se fosse uscito in UK sarebbe fisso nella playlist della Rough Trade East a Londra, lungo il corso del disco ci sono un sacco di momenti che fanno fare su e giù alla crapa e poi la toccano piano piano con delle carezzine. Però c’è come il senso che se tutto questo fosse cantato in italiano, o anche se fosse strumentale, potrebbe uscire più facilmente da Milano, dall’Italia, dai blog e dai media di settore come noi. Se lo meriterebbero, i ragazzi.

Elia è su Instagram.

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