Ho conosciuto gli ZS per la prima volta quasi cinque anni fa, in occasione della loro prima data italiana. Ricostituitisi da poco in formazione a tre, con il solo Sam Hillmer a proseguire l’attività dalla formazione originaria, suonarono in una affollatissima Cascina Torchiera lasciando buona parte del pubblico a bocca aperta. Il mio ricordo più chiaro però non è di quel concerto illuminante ma del giorno dopo, un primo maggio assolato e caldissimo, quando la band pranzò quasi per caso seduta nel cortile tra i tavoli di una grigliata festosa. Coinvolti dal tasso alcoolico dei partecipanti, i tre si ritrovarono in pochi minuti con gli strumenti in mano a seguire a orecchio una chitarra scordata e un coro che si avventuravano in canti popolari della tradizione anarchica italiana. Il tutto con la più totale naturalezza, propria di chi ha nella musica non soltanto un ambito ma pure uno strumento di esplorazione.
Nei cinque anni seguenti gli ZS non sono più passati da queste parti, ma si sono espansi nell’orizzonte delle musiche più radicali come una galassia. Non solo con il progetto principale, stabilizzatosi e affermatosi grazie a quel capolavoro che è stato Xe (Northern Spy, 2015), ma anche grazie alle mille attività che ognuno dei tre ha saputo far crescere: i tre progetti solisti (Patrick Higgins, Greg Fox e Diamond Terrifier a.k.a. Sam Hillmer) e una pletora di collaborazioni, in particolare per Greg Fox, passato tra gli altri da Liturgy, Guardian Alien, Ben Frost, Uniform e gli ultimi arrivati Ex Eye al fianco di Colin Stetson. Un’attività instancabile che si è riflessa costantemente sulla musica degli ZS, arrivati a questo 2018 con una formazione a quattro (il nuovo ingresso è Michael Beharie all’elettronica) e un nuovo cambio di paradigma, un nuovo orizzonte ignoto da esplorare.
Videos by VICE
Lo scorso mese di febbraio, prima che l’esplorazione prendesse corpo e volume sul palco, ci siamo seduti in una stanzetta al primo piano di Macao, col pavimento che già vibrava per i concerti di apertura in corso. L’intervista è cominciata con i quattro intenti a rubarmi la pizza ma ben presto a cominciato a spaziare ben oltre il previsto, tanto che il foglio con le domande preparate è presto finito accartocciato nel cartone stesso della pizza. Tre quarti d’ora di chiacchiere, risate, salti con l’asta e improbabili tentativi di parlare in italiano, a partire da un disco nuovo per arrivare sino ai confini, all’America e al mondo di oggi, su cui quel disco si abbatte come una bomba, in un’epoca di bombe che tornano al centro dei discorsi (senza che di fatto avessero mai smesso di cadere).
L’intervista si chiude quasi contemporaneamente all’ultimo concerto di apertura. Gli ZS scappano di corsa verso un line-check che si rivelerà più lungo del previsto, poi attaccano e cominciano a mettere letteralmente in musica il nocciolo di tutte le riflessioni uscite. Un live che durerà meno dell’intervista stessa, perchè salta la fase delle parole, quella del tentativo di spiegare l’ignoto, che tanto finchè non lo esplori hai poco da descrivere. Tanto vale prendere fiato e saltare, tuttalpiù prendere la mira, come nel salto con l’asta. Senza rete.
Patrick Higgins (PH): chitarra;
Sam Hillmer (SH): sassofono;
Greg Fox (GF): batteria;
Michael Beharie (MB): tastiere.
Noisey: La prima domanda è: perché Noth?
PH: Noth è il verbo che indica il far niente. Magari stai camminando, facendo un’intervista, suonando la chitarra, guidando, leggendo, viaggiando, nientando… Nothing in inglese si usa come sostantivo: “non ho niente nel mio serbatoio”. Ma le parole che finisco in -ing sono verbi.
GF: Perché no?
PH: Ci sono molte ragioni. Una ragione per me potrebbe essere che cambiare la grammatica è allo stesso tempo sorprendente e bello, ma anche difficile. Tipo, cosa vorrebbe dire to noth, nientare? Far niente? Ma non nel senso passivo, bensì fare niente attivamente.
GF: È fare non facendo. Come lo dite in italiano?
In italiano non esiste un termine che esprime questo concetto, diciamo solo “non fare niente”. Ma in latino esisteva questo concetto straordinario di otium, che non era far nulla, ma indicava tutte quelle attività che ti fanno crescere. Per il prossimo disco potreste scegliere il titolo Otium.
PH: C’è anche una frase in un testo filosofico di Martin Heidegger chiamato Che cos’è la metafisica che recita: il niente nienta. Trasforma la parola niente nel soggetto e il verbo attivo è “nienta”. Il niente nienta.
GF: Capito che roba? [ride]
Il vostro nuovo album è registrato dal vivo. È una cosa nuova per voi ma non del tutto, nel senso che Xe è stato registrato live in studio ma “composto” nel corso di vari concerti. Come mai avete scelto di registrare direttamente live, nonostante il vostro grande impegno nella composizione?
PH: Il modo in cui scrivevamo la musica degli Zs all’inizio era composto, ma il processo di composizione avveniva suonando dal vivo centinaia di volte in tutto il mondo prima di registrare, quindi i lavori si evolvevano durante i concerti e alla fine si cristallizzavano in strutture musicali. Ma la parte più magica e divertente di quel materiale dipendeva dalla situazione live, che le conferiva un’energia che la trasformava in qualcosa di più della somma delle note. Quindi registrare quel disco incidendo tanti piccoli pezzi e poi legandoli assieme ci sarebbe sembrato privo di vita o comunque potenzialmente contrario al nostro modo di sviluppare la composizione. Quindi quando abbiamo registrato quel disco, anche se ci trovavamo in studio, l’abbiamo fatto come se fosse un concerto e suonato tutto in una sessione dall’inizio alla fine. Per Noth abbiamo registrato un concerto vero e proprio, al Café OTO di Londra. Non è che sia stata una vera decisione da parte nostra, è successo che il locale ha registrato il live e quando l’abbiamo riascoltato ci è piaciuto davvero molto, e non avevamo mai pubblicato un vero live. C’erano state alcune outtake su una compilation intitolata Score, ma non avevamo mai ufficialmente pubblicato del “materiale registrato dal vivo”. Quindi si è trattata di una novità per noi e penso che funzioni alla perfezione con quello che abbiamo fatto più spesso ultimamente, cioè improvvisare. Mi piace pensare che segni anche una nuova fase del gruppo.
Suonare dal vivo vuol dire che non ci siete soltanto voi, c’è un altro personaggio che è il pubblico. Voi fate parte della nicchia della musica sperimentale, ma rifiutate questa definizione; il vostro lavoro sembra un costante tentativo di uscire da questo ghetto popolato da pochi ascoltatori appositamente “istruiti”. Allo stesso tempo, però, la vostra musica è difficile per chi si trova al di fuori. Da qualche altra parte avete detto che il vostro scopo è “stabilire una connessione con gli ascoltatori tramite la comunicazione telepatica”. Come mettete in pratica tutto ciò?
SH: La telepatia è la comunicazione tra di noi. Ma senza dubbio la performance coinvolge il pubblico in un’esperienza che presuppone una certa complicità e collaborazione.
Ma non pensate che i vostri concerti siano anche una sfida per il pubblico?
Tutti: Possono diventarlo.
GF: Ma sono una sfida anche per noi.
PH: Ci sentiamo spesso messi alla prova sul palco. È raro non sentirsi così. Penso che suonare musica difficile, estrema ed esplorativa sia naturale per noi e ci piace farlo, ma che ci sia anche una barriera molto sottile tra successo e fallimento in musica, che si sposta di continuo. Ciò fa affidamento sul pubblico. Per come la vedo io, se ti trovi davanti a un pubblico piatto o distaccato, è come se dovessi fare uno sforzo in più e raccogliere più energie per raggiungere un livello in cui puoi suonare in maniera espressiva quello che vuoi. Invece quando hai un pubblico che si lascia andare e sostiene la tua energia, che è aperto e si fa coinvolgere, ti dà quella spinta in più che puoi mantenere nel corso della performance.
SH: Inoltre le performance richiedono un grande sforzo fisico perché la nostra musica spesso è incentrata sul trovare un punto, trovare una lunghezza d’onda, e poi mantenerla il più a lungo possibile e può essere molto difficile da eseguire anche fisicamente. Quando iniziamo il nostro set c’è un istante in cui tutti ci rendiamo conto che, sì, ecco quello che succederà nei prossimi 70 minuti, un impegno estremo per produrre musica e un ambiente sonoro. Questo ovviamente è stancante e difficile. Ma non importa, è una nostra scelta, non ci possiamo certo lamentare. Senza dubbio spingiamo la lancetta sul rosso, e ci spingiamo in zone che ci fanno davvero sudare.
Avete nominato il fallimento. Di recente ho letto un articolo di Andrew Choate in cui scrive: “La musica improvvisata è tutta fallimento. Se non sai che cosa stai per fare né quando lo farai, sarà meglio che tu ti metta in pace con il fatto che le cose potrebbero non andare come vorresti”. Quanta della musica degli ZS è “attesa” e quante volte vi sentite di fallire durante la composizione?
GF: Un’altra cosa fondamentale è staccarsi dal concetto che quello che suoni ti debba piacere. Non è determinante. Naturalmente vogliamo, a fine serata, poterci dire “hey, grande concerto, è stato bello”. Sai, è una bella sensazione. Ma non possiamo sempre raggiungere quella sensazione di “miglior concerto di sempre”, è più importante mantenere la mente aperta e accettare quello che succede quando metti da parte l’idea di raggiungere il 100 percento, perché a volte può accadere qualcosa di veramente speciale proprio quando tu non stai puntando al massimo, quando accetti che potresti non stare… sai, finire in uno spazio in cui non è chiaro se anche a te piace quello che stai facendo. Forse sono le domande a essere importanti.
Quindi spesso venite sorpresi dalla vostra musica? Quanto è atteso e quanto inatteso?
SH: Io mi aspetto un’esperienza estrema. Succede anche che il materiale composto dal gruppo prende vita propria e una sua logica. A un certo punto, quindi, è più una cosa che ti succede che una cosa che stai facendo. Stai solo cercando di sopravvivere all’interno di questo ambiente che ti sei creato. Per me arrivare a quel punto è un successo, ma uno potrebbe anche dire che il successo è saper gestire il fallimento, che è un concetto molto importante per me. È come tentare qualcosa che è fisicamente impossibile, ma provarci comunque perché succeda qualcosa.
GF: Non vogliamo fare come quelli che suonano come piantare un chiodo, lo piazzano in un punto, lo colpiscono col martello e poi bam, è finita. È proprio come il salto con l’asta: ci lanciamo in una direzione e sappiamo dove piazzeremo la punta dell’asta e che vogliamo atterrare più o meno in una certa area senza farci troppo male. C’è il decollo, il volo e poi l’atterraggio. E abbiamo un’idea di quello che stiamo facendo, ma ci sono così tante variabili che verrà sempre fuori qualcosa di diverso. Non sarebbe soddisfacente altrimenti per noi.
SH: Penso che il successo sia partecipare a un’esperienza in cui ti senti coinvolto e prendi decisioni e agisci sulla musica.
GF: E non rimanere bloccato. Quando suoni, non puoi passare troppo tempo a pensare “che cosa sto facendo? Mi piace? Cosa fanno gli altri? E mi piace anche quello?” Si tratta più che altro di lasciarsi trascinare dalla corrente senza pensare troppo. È nientare, quello che cerchiamo di fare quando suoniamo insieme.
Tutti: [applaudono] Bel callback!
Anch’io ho avuto questa impressione con la vostra musica. È come l’esplorazione di uno spazio limitato. Vi imponete alcuni limiti e vi muovete al loro interno, ma di quello spazio non lasciate un solo millimetro inesplorato.
PH: Assolutamente.
SH: Per me è un’idea estremamente importante per la band. Come prendere qualunque tipo di materiale e sfruttarlo per qualunque opzione musicale. Guardarla da ogni angolazione, in modo esaustivo. Quindi c’è una componente ossessiva…
Riguardo a questi confini, che ovviamente per la maggior parte saranno inconsci, ultimamente ho letto una cosa di Steve Lacy che diceva che il ruolo della musica è un passo nel buio, una spinta verso l’ignoto. Trovo che si possa definire più o meno così anche la vostra attitudine, ma è come se cercaste di mettere dei confini anche all’ignoto.
PH: Direi che è più cercare di trovare i confini di noi stessi per spingerci dentro all’ignoto. Tornando all’ottima metafora del salto con l’asta: non vuoi soltanto salire verso il cielo, ma stai usando uno strumento specifico e hai un obiettivo specifico. Non c’è null’altro: una traiettoria, uno strumento e un desiderio.
GF: Ed è anche una certa fiducia in un linguaggio gestuale. Abbiamo tutti un nostro approccio ai nostri strumenti e una certa comprensione di quello degli altri. Quello che succede è una specie di allineamento, una specie di movimento fisico che noi mettiamo in atto sui nostri strumenti, ma c’è una specie di cubo nero nel mezzo in cui succede qualcosa di magico che non ci permette di sapere dove atterreremo, e ci troviamo dall’altra parte con il risultato. Quello che succede lì in mezzo non si sa. Alla fine il confine è più il nostro modo di suonare gli strumenti.
SH: L’idea dei confini è interessante, perché sembra quasi che il nostro senso di libertà nel suonare avvenga proprio in funzione di questi. Quindi sono tanto un fattore limitante quanto liberante, perché una situazione in cui puoi fare qualsiasi cosa genera claustrofobia e quindi risulta limitante.
MB: Rispetto all’idea delle limitazioni, uno dei grandi limiti è che nessuno farà nulla che fa esplicitamente riferimento a una musica popolare. Noi prendiamo atto di una forma musicale. Se si tratta di una situazione veramente senza limiti sarebbe tranquillamente possibile che Patrick facesse dei cambi di ritmo in stile be bop, o che io suonassi una parte di tastiera in stile Rihanna, o che Sam citasse Coltrane o che Greg suonasse un beat house. Quindi c’è un limite che è sempre presente: l’idea di lavorare al di fuori di forme musicali gergali.
Nella vostra musica trovo anche una strana attitudine politica, in cui i confini sono una forma di liberazione. Oggi ci troviamo nell’epoca dei confini. Non voglio parlare di Donald Trump, ma le sue politiche ne fanno parte; anche in Europa si costruiscono sempre più muri, perlomeno ideali, per difendere la normalizzazione. Come si sviluppa la vostra idea politica in musica oggi? Musica libera per l’età dei confini.
PH: Secondo me non è per caso che per la prima volta la band abbia deciso di dedicarsi completamente all’improvvisazione. Nei primissimi tempi degli ZS, ma anche negli ultimi sette anni, usavamo il processo di composizione per creare ambientazioni musicali e sonore così iper-controllate da rappresentare un’opportunità per gli ascoltatori di entrare in una diversa simulazione del mondo stesso, come una visione di un mondo diverso che ha una specie di proprietà interrogativa. Ora dato lo stato in cui il mondo si trova non può essere casuale che la band improvvisi. Evidentemente ci è sembrato il momento giusto per lasciar perdere quel tipo di linguaggio e di energia, quel rigore filosofico e musicale che abbiamo sempre avuto nel creare musica strettamente composta e formale, e invece usare questa energia per chiederci per un momento cosa significa essere liberi. Ora più che mai, o perlomeno più che negli ultimi 15 anni, è il momento di urlare il tuo cazzo di nome. Di mettere in chiaro la tua posizione. E la cosa bella da fare nel contesto di un gruppo è questa specie di esperimento di democrazia, tutti che urlano la propria roba ma in un modo che diventa qualcosa di coeso, e in definitiva pacifico. Ma è tipo una guerra, il coinvolgimento personale nella macchina della guerra e cercare di trovare una voce all’interno di ciò. Penso che l’improvvisazione sia il metodo migliore al momento, almeno per noi.
SH: La posizione politica della band si articola in molte direzioni attraverso la nostra metodologia attuale. Da un lato, se guardiamo al panorama politico, siamo in questa epoca di confini, ma dall’altro (forse soltanto dal punto di vista americano) vediamo che anche luoghi dove pensavamo ci fossero dei confini e invece scopriamo che non ci sono. Tipo l’introduzione di una politica economica in tutto e per tutto fascista, nazionalista e autoritaria nel panorama politico mainstream sembrava qualcosa di impossibile, ecco un confine che è caduto. E penso che ci sia un forte sentimento d’incertezza in America oggi, e questo mi fa pensare all’improvvisazione. È come passare da una guerra perfettamente organizzata con aerei e bombe a una guerriglia urbana porta a porta con il coltello fra i denti, una cosa più improvvisata. È semplicemente l’aria che si respira.
PH: Penso che dia alla band la possibilità di coinvolgere il pubblico diversamente invece di presentarsi e dire: “Ecco qui una cosa molto criptica, intensa e radicale, l’abbiamo preparata e ve la presentiamo”. Al contrario, c’è un momento in cui non abbiamo nulla di pronto e siamo in una stanza con voi, e sarà un’esperienza intensa ma voi ne farete parte perché non c’è niente di programmato. Quindi questo a me sembra una cosa partecipativa in un modo che ha valenza politica, naturalmente non marxista, però mi sembra più umana e più stimolante perché ogni volta è esattamente concepita su quel momento.
L’umanità in sé è una posizione politica forte oggi come oggi!
SH: È proprio radicale a questo punto! È anche una nozione importante, la gente ha bisogno di essere in grado di prendere decisioni velocemente. Perché la situazione è fottuta. C’è un’incertezza incredibile che circonda tutte le maggiori istituzioni del nostro Paese. Il welfare, la sicurezza sociale, è tutto un “chissà”. E l’ascesa dell’estrema destra sembra spuntata dal nulla! Non è che non sapessimo della sua esistenza, ma sembrava una roba stranissima che esisteva solo su Internet e non poteva entrare dai cancelli della società vera, mentre oggi è al centro del palcoscenico. Non c’è più nulla di certo. Ecco perché l’improvvisazione è una buona strategia in un momento come questo. Ma poi c’è la sfera culturale. Secondo me siamo all’inizio del collasso dell’idea, del concetto di Internet. Quell’idea per cui genera spontaneamente una comunità, che puoi esporre le tue cose e promuoverti e si generano contatti e condivisioni tra le persone…Questa dottrina che ci è stata imposta. Ci abbiamo creduto tutti. E ora ci stiamo rendendo conto che i meccanismi che hanno preso controllo di Internet in realtà privano gli artisti di mezzi di sussistenza e più si promuove qualcosa su Internet più la gente ha la sensazione di conoscerlo già, quindi perché approfondire? E produce una massa passiva di sfogliatori [browsers, N.d.T.], gente che dà un’occhiata. Fa pensare che il software usato per consultare internet si chiami browser, perché è proprio quello che si fa. Una massa che sfoglia, che scorre, distaccata e passiva di consumatori culturali. Non sono questi i fan che un artista desidera. È una truffa e prende in giro anche la tua fanbase perché tutti si trasformano in… bighelloni. Inoltre il meccanismo dei social media è più uno strumento di alienazione che uno strumento per generare amicizie e comunità, anche questa idea è una farsa. Quindi, tornando alla musica, fare qualcosa che rifiuta la rappresentazione e rifiuta la ripetizione rende la vita più difficile a questi meccanismi, che non possono accalappiarla e utilizzarla. È un modo valido per uscire dal network e da questi sistemi di organizzazione sociale. Quando abbiamo fatto uscire questo disco tutti ci hanno chiesto “possiamo ascoltarlo in streaming?” e la risposta è no. “È su Spotify?” “No”. “Bandcamp?” “No”. Puoi venire al concerto o aspettare che qualcuno lo metta in vendita online. È un impegno maggiore che semplicemente cercarlo su Spotify. Così abbiamo fatto una cosa che: a) non possiamo riprodurre dal vivo; b) chiede uno sforzo in più alle persone rispetto a cliccare play da qualche parte. Vogliamo spingerci verso un coinvolgimento maggiore con la cultura e tra le persone.
GF: In questo modo ogni volta che qualcuno prende un disco lo ha letteralmente dalle nostre mani, a meno che non lo compri in un negozio di qualche nostro amico. Così possiamo essere direttamente in comunicazione e avere uno scambio con le persone che vogliono la musica, invece di questa cosa passiva dove lo sbatti su Spotify e un algoritmo determina se la gente lo debba ascoltare o meno. E guardi il numero di persone che l’hanno ascoltato e quello è il riconoscimento che dovresti desiderare. Non giochiamo a questo gioco, ed è un vero sollievo. Vuoi il disco? Contattaci e chiedicelo, faremo in modo che tu ne riceva una copia.
SH: Il fatto che i media e Internet siano alimentati dal numero di volte in cui la gente si è interfacciata con ogni piattaforma… Qualunque consumatore veda una cosa del genere è naturalmente portato, nonostante qualsiasi sforzo ideologico o intellettuale, a ricavarne un giudizio di valore. Non c’è scampo. Quindi guardi il singolo di Rihanna, e ha 400 milioni di riproduzioni. Da questi dati sei costretto a concludere che si tratti di un lavoro superiore a un altro che di riproduzioni ne ha 10mila. “A nessuno frega un cazzo di sta roba! Non vale neanche la pena!” E questo è naturalmente assurdo, ma soprattutto è violento.
GF: Qua entriamo anche nell’economia dei like, la heart-economy. Se una cosa fluttua davanti alla tua finestra e tu ci dai un leggero colpetto vuol dire che questa cosa è migliore di quello che era prima di una unità. E naturalmente è tutto basato su algoritmi concepiti per mostrarti la pubblicità, quindi è tutto un’inculata. Non c’è alcun valore, serve solo a far vedere più pubblicità a più persone. Ecco come si sono ridotti i social media. I musicisti sono incoraggiati a esistere su Internet secondo queste regole: bisogna avere Instagram/Facebook/ecc. e in questo modo sei sul nastro trasportatore delle persone che scorrono a destra e a sinistra sul telefono per dire sì e no. Tutte stronzate. Perché l’ordine in cui vedi le cose è determinato dall’azienda che te le mostra quindi sanno quand’è il momento migliore per mandarti una pubblicità. Ecco perché Instagram non è più istantaneo. Penso sia molto liberatorio per me fare parte di questa band e non dover avere nulla a che fare con questa roba per questo disco.
PH: Per me è proprio questa la parte politica del progetto. Non voglio dire che siamo Trotsky, ma rivendichiamo simultaneamente i nostri mezzi di produzione, come facciamo la nostra musica, come la distribuiamo, la modalità di accesso alla musica e anche il suo significato. È troppo facile aderire passivamente all’idea che non hai valore a meno che tu non dia tutto via gratis e generi più tap possibili: quella merda non significa letteralmente nulla. Lottare per uno straccio di riconoscimento su queste arene, queste reti, che in definitiva non hanno nulla a che fare con la produzione dell’arte o il valore dell’arte o con il lavoro che è la mia passione, non conta niente. Ecco, rivendicare il diritto di proprietà del proprio prodotto come gruppo, di ogni situazione in cui ci esibiamo, un’altra pratica che ci è concessa dall’improvvisazione, e parlarne pubblicamente, io penso, ha valore. È ciò che mi ha fatto interessare alla musica underground: il fatto che la roba fosse misteriosa, difficile da trovare e da capire; non bastava andare al cazzo di Tower Records o al centro commerciale per beccare il free jazz e il punk rock e l’hardcore e tutti quei dischi che volevo comprare. Ed è stato tentare di scoprire una vera comunità sotterranea che esisteva senza di me che rendeva il tutto più eccitante. E poi finalmente capire le cose e diventare parte integrante della scena ti dà così tanta energia e soddisfazione. E tutto questo è stato rubato a tutti noi, cazzo.
SH: Verissimo. Un’altra verità sulla logica di come Internet si suppone debba funzionare per gli artisti è che non comunica con la mente umana in un modo che fa bene agli artisti. Voglio dire, la gente è più interessata a ciò che non riesce a trovare, a quello che c’è dall’altra parte della montagna, quel senso di scoperta, di viaggio, di mistero e di meraviglia. Questo è un modo id comunicare che penso sia positivo di natura (a parte quando viene inquinato e si trasforma in colonialismo): è la capacità di meravigliarsi degli esseri umani, e parlare direttamente con le persone e farle partecipare al progetto incoraggia questa parte buona. L’unico modo in cui Internet dialoga con successo con la psiche umana è riconoscendo che se si accende la lucetta rossa e c’è un breve bing arriva una botta di dopamina al cervello, e la gente ne vuole sempre di più. Ma poi questo succede esclusivamente per il bene della piattaforma e lascia totalmente fuori l’interesse del musicista o dell’artista. Uscire da questa logica come musicista non è una perdita, perché era già una perdita quella. Il tuo bene non è mettere la tua roba su Internet gratis, ma è guadagnarti dei fan, veri fan, gente che puoi vedere, con cui puoi interagire. È a quel punto che un artista ha potere, quando può riempire una stanza di persone. E il modo più diretto per farlo è andare in tour e incontrare persone e quando queste persone tornano a casa dopo il concerto diranno “è stato fantastico, ho anche parlato con la band dopo il concerto” e al prossimo concerto quella persona diventerà dieci persone e quelle dieci diventeranno cento. E poi quando arrivi in una città hai potere perché hai influenza. Tutta quella merda, l’influenza, te la toglie.
Filip J. Cauz scrive di musica e ciclismo per questo e per quello, soprattutto per Zero e per Bidon, il magazine di “ciclismo liquido” che ha contribuito a fondare. Seguilo su Twitter o per strada mentre pedala.