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Quello di via Idro è uno degli ultimi grandi campi nomadi milanesi.
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Si trova tra la Martesana e il Lambro, in un’area semi-agricola in fondo a via Padova. È un insediamento regolare, che dal 1989 ospita un centinaio di rom harvati (originari cioè dell’ex Jugoslavia centro settentrionale, emigrati durante la seconda guerra mondiale), al momento in attesa dello sgombero deciso dal comune.
A fine dicembre è arrivata infatti la decisione definitiva del Tar, che ha respinto il ricorso presentato dalle famiglie del campo con l’aiuto dell’associazione di volontariato Naga.
La chiusura dello “storico” campo di via Idro, i cui abitanti hanno tutti cittadinanza italiana e sono per lo più nati a Milano, ha provocato molte reazioni tra i residenti della zona e tra le associazioni di settore, che anche in questi giorni si stanno adoperando in petizioni e lettere all’amministrazione. Non ultima la lettera che Amnesty International ha indirizzato a Pisapia il 15 gennaio.
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Nel migliore dei casi, però, si tratterà di guadagnare tempo, perché questo sgombero non è che il tassello di un progetto più ampio dell’amministrazione comunale – espresso nelle Linee guida Rom, Sinti e Caminanti del 2012 -, che in linea con le direttive europee ha deciso di muoversi in direzione del cosiddetto “superamento dei campi,” che in pratica significa chiudere tutti i campi nomadi.
Al momento, sui circa 180mila rom presenti in Italia, più o meno 3.000 vivono a Milano e circa 700 abitano nei cinque campi regolari rimasti in città: via Idro, via Negrotto, via Bonfadini, via Chiesa Rossa e via Impastato. Un caso particolare è rappresentato da via Martirano, il cui campo – sgomberato il 31 ottobre 2014 – è stato poi riconvertito nel cosiddetto Villaggio Martirano, che con i suoi contratti d’affitto e le regole di permanenza rappresenta una sorta di via di mezzo tra i campi regolari e i centri di accoglienza.
Ai campi comunali si aggiunge naturalmente tutta la galassia frammentata e difficilmente censibile degli insediamenti spontanei: situazioni abitative molto precarie e in condizioni di forte degrado.
Camillo, che lavora presso il centro di accoglienza di via Novara, si definisce un “cacciatore di zingari” perché gira con un’unità mobile per scovare gli insediamenti irregolari, avvicinarne gli abitanti e cercare di metterli in contatto con i servizi di assistenza presenti sul territorio. Nei campi spontanei, ci racconta, vivono soprattutto rom romeni, provenienti da situazioni di povertà talmente estrema che anche un riparo di fortuna costruito coi rifiuti costituisce un miglioramento delle loro condizioni di vita. Questi piccoli insediamenti, naturalmente, sono i più sgomberati.
La giunta di centro-sinistra, quanto a sgomberi, è stata solerte almeno quanto l’amministrazione precedente, quando al potere c’era la famigerata coppia Moratti-De Corato. Dal 2013 al settembre 2015, stando al rapporto del Naga, il comune ha realizzato ben 1.284 allontanamenti (una media di 1,3 al giorno) di cui 518 da aree o edifici abbandonati e 766 di camper e roulotte.
Confrontando il lavoro delle due giunte i numeri risultano del tutto simili—sono le intenzioni a sembrare diverse. Secondo l’assessore alla sicurezza Marco Granelli il campo regolare è “un’anomalia tutta italiana,” frutto di una visione superata che identifica i rom come nomadi, anche se da parecchi decenni conducono una vita stanziale. “Tutte le grandi città attuano politiche di sgombero,” spiega a VICE News Alessandra De Bernardis, dello staff di Granelli: “la differenza sta in cosa proponi dopo.”
E questo, in effetti, sembra essere il nodo cruciale: cosa succede a una famiglia una volta sgomberata?
Attualmente, il comune prevede due alternative. La prima è costituita dai centri di emergenza sociale (CES): in pratica, container o stanzoni in cui vivono dalle 20 alle 30 persone, condividendo bagni e cucina. A Milano ce ne sono due: uno in via Lombroso (167 posti, in fase di trasferimento in via Sacile) e l’altro in via Barzaghi (100 posti).
Per accedere alle strutture, le famiglie devono sottoscrivere un contratto con il comune e con l’ente gestore in cui si impegnano – tra le altre cose – a rientrare non oltre una data ora, a non fare uso di alcol o sostanze stupefacenti all’interno del centro, a non introdurre animali e, naturalmente, a mandare i minori a scuola.
La regola degli animali è una delle più patite, soprattutto dai rom dei campi regolari come via Idro, che magari sono disposti a rinunciare agli animali da cortile ma non vogliono assolutamente sbarazzarsi dei propri cani, considerati di famiglia—molti di loro, come Birilla e Lupen, dotati anche di microchip.
Il percorso del CES, spiega De Bernardis, viene monitorato con cadenza regolare: ogni 40 giorni. “Dovrebbe durare fino a un massimo di sei mesi. Se la famiglia però si impegna ma non c’è uno sbocco lavorativo immediato e quindi non ce la fa a sostenersi, viene comunque tenuta, anche perché altre soluzioni sono difficili da trovare”.
Per quanto il periodo di permanenza possa rivelarsi lungo, si tratta comunque di una sistemazione molto precaria. La cosa che colpisce di più visitando questi centri è l’assenza di privacy data dalle grandi camerate, dai servizi in comune e dalla continua sorveglianza. All’interno del CES Barzaghi i posti letto sono separati da lenzuoli appesi, e i pannelli divisori, già consegnati ma non ancora montati, non arriveranno comunque all’altezza del soffitto.
La seconda opzione è rappresentata dai centri di autonomia abitativa (CAA), il primo dei quali si trova in via Novara. In genere, il CAA è la sistemazione di chi ha terminato con successo il suo percorso nel CES ed è riuscito a trovare un lavoro. L’autonomia qui è maggiore: anche se i servizi e le cucine restano comuni, le strutture hanno stanze separate per le diverse famiglie.
C’è infine la realtà sui generis del Centro Ambrosiano di Solidarietà Marotta di parco Lambro—la prima proposta di ricollocamento che le famiglie di via Idro hanno potuto vagliare. “Il CeAS,” spiega De Bernardis, “nasce come comunità di accoglienza, quindi ospita diverse realtà in difficoltà.” Nello specifico: problemi di salute mentale in un edificio, doppia diagnosi (salute mentale associata a tossicodipendenza) in un altro, accoglienza di mamme con bambini nel terzo.
La famiglia di Marina e Antonio Braidic, detto Lisse, è probabilmente la più integrata del campo di via Idro: vivono in una bella casetta gialla, tenuta con cura, e i figli vanno regolarmente a scuola. Qualche mese fa Marina e Lisse sono stati convocati per visitare il CeAS, la loro futura sistemazione, ma non ne hanno avuto un’impressione positiva. “Dicevano che era il posto più bello, più accogliente, e invece è una schifezza” ci racconta Marina. “Ci sono tre strutture in muratura e in mezzo quattro container piccolissimi, 2 metri e mezzo per 5, in cui dovremmo trasferirci”.
In realtà la situazione del CeAS Marotta è un po’ particolare: le casette prefabbricate di cui era inizialmente dotato sono state distrutte l’anno scorso dall’esondazione del Lambro, e sostituite da container temporanei.
Resta il fatto che al momento la situazione del centro non è delle migliori, come testimoniano le foto che alcuni abitanti del campo hanno scattato con i cellulari durante la visita, e che VICE News ha potuto ottenere.
“E non vi dico le strutture dei bagni, senza porte e riscaldamento. Oddio, anch’io il bagno ce l’ho fuori e facciamo la doccia lì… però almeno il nostro è pulito,” commenta Marina.
Giordano Braidic, detto Yandre, è della stessa opinione: “Se fosse per me problemi non ce ne sarebbero: ho vissuto anche in condizioni peggiori, dormo anche per strada. Ma i miei figli e i miei nipoti in un posto così non ce li mando.”
Piero Leodi fa parte dell’associazione Amici di via Idro, nata nel 2010 su iniziativa di alcuni cittadini della zona che hanno imparato a conoscere il campo e si sono affezionati ai suoi abitanti.
Piero, Antonio, Luigi e gli altri dell’associazione hanno l’abitudine di accompagnare la famiglia di Marina durante gli incontri istituzionali, per offrirle supporto. Così hanno fatto anche quando Marina e Lisse sono stati convocati per la seconda volta al CeAS, in presenza dell’assessore Granelli.
“Quando siamo ritornati,” racconta Piero, “c’era un odore, un’esalazione che sembrava una perdita di gas, di fogna. Ne sono testimoni i consiglieri di zona che ci hanno accompagnato. La prima volta si sentiva puzza solo se ti approssimavi al bagno, la seconda invece bastava avvicinarsi al cancello, quindi deve esserci un problema alle fognature,” accusa.
“Granelli, però, la puzza non l’ha sentita,” ironizza Marina. “Forse aveva il raffreddore.”
I problemi legati ai centri di accoglienza, tuttavia, non riguardano solo lo stato delle strutture. A marzo 2015 il Naga ha presentato un dettagliato rapporto dal titolo Nomadi per forza, che analizza l’applicazione delle Linee guida Rom, Sinti e Caminanti adottate dal comune. Nel rapporto il Naga critica la politica degli sgomberi e l’utilizzo di 5 milioni e 691.000 euro del “Piano Maroni” per contrastare irregolarità, degrado e illegalità—anziché promuovere l’inclusione delle popolazioni rom e sinte.
“Gran parte delle risorse economiche sono state investite per misure emergenziali e temporanee come i CES, e non per il lavoro, l’integrazione scolastica o l’autocostruzione,” spiega a VICE News Norina Vitali, volontaria del gruppo medicina di strada del Naga. E i casi di successo – ovvero di famiglie che hanno completato efficacemente il percorso di integrazione, ottenendo un lavoro e un appartamento – sono ancora molto pochi. “Iniziano a contarsi sulle dita di due mani,” ripetono i dipendenti del comune e gli educatori dei centri.
C’è poi un problema di spazio. I centri attualmente attivi sono pieni, ed è forse anche per questo che lo sgombero di via Idro, annunciato ad agosto e previsto entro il 2015, non è ancora stato effettuato.
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Il problema più sofferto sembra però essere quello della precarietà delle sistemazioni offerte. “Come alternativa al CeAS,” spiega Marina, “alla nostra famiglia hanno proposto il villaggio Martirano costruito dal comune. Le casette al Martirano sono belle, ma le persone che ci abitano si stanno lamentando perché il contratto gliel’hanno fatto solo per un anno. Dopo un anno che fanno? Sono lì già da sei mesi…”
I lavoratori dei centri di accoglienza, come Elena e Saba, denunciano invece un altro ordine di problemi: la scarsa collaborazione che si incontra al di fuori delle istituzioni sociali. Ad esempio, le enormi difficoltà che i rom devono affrontare per trovare lavoro, tanto che quasi tutti sono costretti a tacere la propria origine. O il faticoso dialogo con le scuole, che spesso non vedono di buon occhio l’ammissione di studenti rom. “Abbiamo già in classe due disabili” può sembrare una risposta spiazzante, ma chi lavora nel settore l’ha sentita più volte.
Per non parlare dell’accesso alle case popolari. Già difficoltoso per i cittadini italiani, per i rom è un’impresa pressoché titanica: alle consuete difficoltà si aggiunge il fatto che gli appartamenti sono quasi tutti troppo piccoli, inadatti per legge a nuclei familiari numerosi come quelli rom. Anche famiglie in cima alla graduatoria si ritrovano ad aspettare per anni, senza garanzia di risultato.
Anche i centri d’accoglienza, come i campi irregolari, sono popolati quasi esclusivamente da rom romeni, in genere i più poveri, gli unici a mantenere un contatto con il paese d’origine e tra i pochi a coltivare il sogno (spesso disatteso) di ritornare in patria.
“Molto dipende dalla situazione di partenza”, commenta Piero Leodi degli Amici di via Idro: “Se si sta in una tenda canadese in riva al Lambro anche il CES è un’alternativa migliore. Ma lo stato d’animo di una persona come Marina, che in casa ha una zona notte, una cameretta per le bambine, le scrivanie per farle studiare… è chiaro che è diverso. Loro scenderebbero la scala sociale.”
“In effetti” spiega De Bernardis, “il caso di via Idro è più problematico, come nel caso di tutti i rom italiani. È vero che si trovano in condizioni migliori, che stanno in campi regolari, ma è anche vero che i campi regolari sono stati dimenticati per vent’anni e che tale dimenticanza ha causato una situazione di degrado.” Un degrado non solo strutturale ma anche “umano. Se via Idro è conciato così, è anche perché gli stessi abitanti l’hanno devastato.”
Secondo la rappresentante dell’Assessorato alla sicurezza, la popolazione di via Idro è costituita da “gente lasciata ai margini che ha trovato un proprio sistema di vita, una propria economia di sostegno” con cui “è andata avanti per tantissimi anni. Lasciare quel sistema, fidarsi di un gagio (non rom) e attivare un percorso diverso è difficile.”
Le ragioni della chiusura di via Idro vanno anche rintracciate in questioni di sicurezza. Se nei campi irregolari i crimini più diffusi sono reati di piccola entità, secondo l’assessorato il campo regolare offre invece un microcosmo protetto per la proliferazione di attività illegali più organizzate.
“All’interno del campo negli ultimi anni ci sono stati problemi grossi” ammette Lisse: “Sparatorie, hanno incendiato delle roulotte… noi abbiamo chiesto aiuto ma non sono mai intervenuti. Adesso che le cose si sono calmate, invece, vogliono buttare giù tutto.”
Questioni di sicurezza a parte, la politica del superamento dei campi dovrebbe avere alla base l’idea di fornire abitazioni più dignitose, offrendo alternative condivise con gli interessati. Altrimenti, tra un’occupazione e l’altra, tra uno sgombero e l’altro, finiranno per crearsi quei “nomadi per forza” di cui parla il rapporto del Naga.
Per l’amministrazione e per gli addetti al settore si tratta di porre fine a un sistema abitativo degradante e ghettizzante, ma gli abitanti del campo vivono la situazione come una sorta di pulizia etnica. “È una deportazione,” dice Lisse: “Ti dicono: ‘ti diamo una casa’, ma quella non è una casa…”
E in effetti quasi tutti, anche i lavoratori dei centri di accoglienza, concordano almeno su una considerazione: le nuove sistemazioni dovrebbero essere più dignitose, ma l’impressione è che non ci siano alternative. “Un’alternativa invece c’è”, spiega Norina Vitali del Naga: “l’autocostruzione. Molto meno costosa rispetto al sistema di sgomberi e dei centri d’accoglienza”.
L’autocostruzione è una soluzione che è stata vagliata dal comune, salvo poi essere scartata in favore del sistema del superamento dei campi: una politica che potrebbe avere non pochi intoppi, proprio perché si tratta di una soluzione radicale e repentina a una situazione creatasi in decenni di alternanza tra assistenzialismo e abbandono.
La strategia di questa amministrazione sembra puntare su uno scossone che spinga i rom a camminare con le proprie gambe, considerandoli al pari di qualsiasi altro soggetto fragile, indipendentemente dalle diversità culturali.
Diversità culturali che secondo altri, invece, sono cruciali. Tra questi c’è Maurizio Pagani dell’Opera Nomadi Milano, secondo il quale “c’è una sorta di pensiero assimilazionista in chi vede i campi rom in un’ottica di superamento. C’è la negazione di fondo di una diversità culturale che c’è, esiste, e che porta anche a immaginare uno spazio abitativo nelle città costruito in modo diverso.”
“E mentre si cerca di chiudere a forza tutti i campi,” prosegue Pagani, “paradossalmente non vengono sfruttate tendenze al cambiamento che già ci sono—specie nelle giovani coppie che vorrebbero sperimentare una situazione abitativa autonoma. Perché non puntare su queste persone piuttosto che costringere gli anziani, abituati a quel sistema di vita, ad abbandonare la casa costruita con le proprie mani?”
Di opinione diversa è Alessandra De Bernardis, che vede nell’eccessivo assistenzialismo una delle ragioni dei problemi che si stanno riscontrando con la comunità di rom e sinti: in passato “c’è stata molta assistenza nei confronti delle famiglie, quando assisti troppo una persona, questa poi difficilmente riesce a essere intraprendente.”
È un problema che si pone anche con i senza fissa dimora. “Se vedo un senza fissa dimora che dorme sotto i portici qua dietro, lo lascio morire di freddo o gli porto una coperta, del latte caldo e un panino? Se gli porto la coperta, il latte caldo e il panino difficilmente si schioderà da lì, anche perché sa che io passerò regolarmente.”
“Se non lo faccio magari si alza, va in un centro e inizia un percorso. Però come faccio a sapere che questo intanto non morirà congelato?”
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