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Carlo Celadon: il sequestro di persona più lungo della storia d’Italia

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È la sera del 25 gennaio 1988 e il 19enne Carlo Celadon sta cenando nella sua casa di Arzignano, in Veneto. Il padre Candido—un ricco imprenditore dell’industria conciaria—è in vacanza in Kenya con la sorella Paola, mentre il fratello maggiore Gianni è in viaggio di nozze. È seduto a tavola con i domestici, quando quattro uomini incappucciati e armati fanno irruzione nell’abitazione.

Inizialmente Carlo pensa a una rapina. Ma dopo aver immobilizzato i domestici, gli uomini lo conducono fuori dall’abitazione, gli legano mani e piedi con del fil di ferro e lo chiudono nel bagagliaio di un’auto. Dopodiché mettono in moto, e partono nella notte.

Quello che Carlo ancora non può sapere è che i quattro uomini sono degli affiliati della ‘ndrangheta che lo stanno portando sull’Aspromonte, in Calabria, e che il suo sta per diventare il sequestro di persona più lungo della storia italiana.

La storia di Celadon, rispetto ad altri sequestri celebri avvenuti in Italia—Cesare Casella, Paul Getty, Farouk Kassam—è passata un po’ in secondo piano. Per questo il giornalista Pablo Trincia l’ha scelta come primo episodio del suo nuovo podcast, Buio – Storie di Sopravvissuti.

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“La storia di Celadon,” mi ha detto Trincia al telefono, “è singolarmente rappresentativa di un fenomeno, la stagione dei sequestri, che ha segnato la storia italiana. Fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Novanta la media era di un sequestro a settimana, con il picco massimo raggiunto negli anni Settanta. Un business endemico che, fra l’altro, ha finanziato l’ascesa di una delle organizzazioni criminali più potenti al mondo. Ma è estremamente interessante anche perché rappresenta un calvario di sofferenza e resistenza umana.”

La prima puntata di Buio, attraverso le testimonianze—quella di Carlo, ma anche del fratello, e del PM Tonino De Silvestri—ricostruisce questo calvario. Ma riesce anche ad inquadrare bene il fenomeno nella sua interezza sistemica. “La stagione italiana dei sequestri rappresenta uno spartiacque nella crescita delle cosche mafiose,” ha continuato Trincia. “La ‘ndrangheta aveva creato un vero e proprio sistema attorno ai sequestri, investendo poi i proventi in attività criminali più redditizie come la speculazione edilizia e il traffico di droga.”

Ma torniamo al viaggio di Celadon nel bagagliaio dell’auto, che dura 17 ore senza sosta. Carlo ha le braccia e le gambe doloranti, e si è dovuto urinare addosso. Una volta arrivati a destinazione, viene lasciato in una piccola buca scavata nel terreno, e legato a un muro di roccia con tre catene, al collo, e a entrambi i piedi. Gli viene lasciato soltanto un sacco con un po’ di pane e formaggio per sfamarsi.

Una volta rimasto solo, come spiega in Buio, comincia a realizzare la situazione: “Per quel poco che sapevo sui sequestri, la durata media di un rapimento era lunga. Sei o sette mesi. Mi aspettava un lungo periodo di sofferenza, totalmente all’oscuro di quello che poteva succedere.”

Nei primi giorni, però, è soprattutto un altro pensiero a ossessionarlo. “Un paio di settimane prima del sequestro ero a cena con mio padre, quando al telegiornale passarono la notizia della liberazione di un altro ostaggio. Ormai i rapimenti erano all’ordine del giorno, e ricordo che gli chiesi cosa avrebbe fatto lui nella stessa situazione. Mi guardò fisso, scuotendo la testa, come a dire che non avrebbe mai pagato il riscatto. Temevo che mi avrebbe lasciato morire.”

Le paure di Carlo, però, sono fittizie. Non appena le forze dell’ordine lo hanno avvertito del rapimento, Candido Celadon è rientrato in Italia per tentare di salvare il figlio. Il telefono di casa inizia a squillare già dai giorni successivi, ma a chiamare sono truffatori che, fingendosi dei rapitori, cercano di estorcere denaro. Ci vogliono tre mesi prima di avere notizie reali: una sera di fine aprile, infatti, arriva la chiamata di un uomo con un forte accento calabrese. Dice di chiamarsi “Agip,” e di avere in mano Carlo. Chiede cinque miliardi di lire per il riscatto.

Candido Celadon pretende delle prove prima di trattare il rilascio del figlio, quindi Agip gli dà le informazioni per recuperare un’audiocassetta in cui Carlo implora il padre di liberarlo. Ha la voce stremata, e accusa il padre di averlo abbandonato e di pensare solo ai suoi soldi. I rapitori, infatti, stanno aizzando le paure di Carlo con uno sporco gioco psicologico: gli raccontano che il padre non vuole pagare, che preferisce lasciarlo morire, che rifiuta ogni richiesta. Gli fanno anche scrivere delle lettere al padre, che poi non consegnano, per acuire in lui il senso di abbandono.

In realtà le trattative sono vincolate al volere del pubblico ministero di Vicenza, Tonino De Silvestri. “Esistevano due scuole di pensiero,” ricorda de Silvestri in Buio. “Secondo la prima si dovevano congelare i beni della famiglia, e impedire ogni contatto con i rapitori. Un’altra scuola invece, suggeriva di concedere la trattativa alla famiglia. Io scelsi una via di mezzo: congelai i beni dei Celadon, ma permisi loro di poter trattare con i rapitori. L’idea era quella di consentire un incontro, e di organizzare un blitz al momento della consegna del riscatto.” Nonostante questo, però, la trattativa con Agip va per le lunghe, e i mesi passano.

Nel frattempo Carlo resta incatenato nella buca. “L’odore dei miei viveri attirava i topi, e passavo il tempo appostato in un angolo. Mettevo un pezzo di formaggio sotto un bicchiere, e quando entravano gli schiacciavo la testa,” ricorda nel podcast. “Due volte sono entrati anche dei serpenti, ed è stato terrificante. Sapevo che anche se non erano velenosi, rischiavo la vita: se mi avessero infettato con un morso, i miei rapitori non mi avrebbero certo portato in ospedale.” Celadon doveva inoltre vedersela anche con le intemperie: “Un giorno calò sul monte un diluvio pazzesco. Il mio nascondiglio era scavato per terra, e la buca si riempì d’acqua. Pensavo che sarei morto annegato. Urlavo, mi sgolavo, chiedendo aiuto. Ma nessuno mi rispose.”

Alla fine Candido Celadon e “Agip” si accordano per un incontro. I fratelli di Carlo dovranno farsi trovare in una strada di Piace, in Calabria, dove verrà loro segnalato il luogo dello scambio. I due eseguono, consegnano i cinque miliardi, ma non ricevono istruzioni sul rilascio. La polizia, però, è appostata poco lontano: segue gli uomini che hanno ritirato i soldi, e fanno irruzione in una piccola casa, arrestando cinque persone. Di Carlo, però, non c’è traccia. E nemmeno dei soldi appena consegnati.

Poco prima del blitz, infatti, Carlo era stato spostato in un altro luogo da altri complici. Lo avevano fatto camminare per ore, in mezzo al bosco, fino a una piccola grotta, dove lo avevano di nuovo incatenato e lasciato solo. Dopodiché, e per i sette mesi successivi, le notizie si interrompono. Tanto che i familiari di Carlo cominciano a pensare che lo abbiano ucciso. Alla fine, però, “Agip” ricomincia a chiamare casa Celadon. Chiede altri cinque miliardi, e le trattative ripartono da capo. La famiglia ha conservato le registrazioni di queste chiamate, e in Buio si avverte bene come il tono si faccia sempre più violento. “Tu devi solo dirmi se non vuoi pagare,” dice “Agip” a Candido, “così ti facciamo arrivare la sua testa.”

Passano altri mesi, interminabili, e alla fine viene fissato un secondo incontro. Candido è riuscito a far scendere il secondo riscatto a due miliardi, quindi si reca in Calabria e la sera del 2 maggio 1990 consegna i soldi. Nella mattinata del 4 maggio, 831 giorni dopo il rapimento, Carlo viene finalmente liberato. “Mi hanno portato su un’autostrada, e mi hanno lasciato sdraiato a terra dicendomi solo di non voltarmi indietro a guardarli,” racconta. “Dopo un po’ di tempo è passata un’auto, che mi ha visto e ha avvertito i carabinieri.”

Quando viene soccorso Carlo è quasi scheletrico: ha perso 30 chili e non riesce a tenersi in piedi. Si rifiuta di parlare con il padre al telefono, perché il gioco dei rapitori ha avuto successo, e Carlo crede ancora fermamente che il protrarsi della sua agonia sia dovuta all’avarizia del padre. Solo dopo che gli vengono forniti tutti i dettagli del suo sequestro, si rende conto di essere stato ingannato per quasi due anni e mezzo.

“Quello che mi ha colpito di più della storia di Carlo Celadon, sul lato umano” mi ha spieato Pablo Trincia, “è stata la sua lotta contro la follia. Resistere due anni e mezzo incatenato in un buco, senza niente da fare se non contare i secondi fra alba e tramonto. Con la costante idea, alimentata dai rapitori, che la tua famiglia ti abbia abbandonato, e che da un giorno all’altro potresti essere ucciso.”

Analizzando il report sui sequestri di persona della Rassegna Italiana di Criminologia, infine, si può capire che il caso Celadon svela nei suoi particolari il sistema che ha consentito alla ‘ndrangheta di crescere e prosperare. Per la cosca mafiosa, i sequestri di persona non erano soltanto una fonte di denaro per crescere economicamente, ma una vera e propria arma per dominare il territorio.

Con questi sequestri interminabili, fatti di soprusi psicologici e doppi giochi, gli ‘ndranghetisti dimostravano di detenere un potere non attaccabile dallo Stato. Inoltre ridistribuivano i proventi, coinvolgendo la popolazione dei paesi dell’Aspromonte nei sequestri e ricompensandoli—creando così una schiera di fedeli alla causa.

Questo sistema faceva affidamento su una rete enorme di persone, ed era impossibile risalire alla fonte. “Qualche anno dopo il rilascio di Carlo Celadon, le forze dell’ordine riuscirono a intercettare ed arrestare Agip,” conclude Trincia. “Fu durante un’operazione antidroga in Germania. Ascoltando delle intercettazioni la polizia si accorse che c’era questo telefonista utilizzato dalla ‘ndrangheta, e riconobbero la sua voce. Ma fu soltanto una casualità, e alla fine si trattava solo dell’ennesimo intermediario.”

Nonostante Carlo Celadon avesse contato nei suoi due anni di prigionia più di 20 carcerieri, soltanto gli arrestati del primo blitz e il telefonista “Agip” vennero catturati. Il resto dell’organizzazione sparì nel nulla, con un doppio riscatto miliardario.

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