Cosa spinge le persone a tagliarsi?

Le lamette vengono vendute in pacchi da 10 o da 100. Compri sempre il pacco da 10, perché pensi che non avrai mai bisogno di 100 lamette. Non pensi che continuerai a farlo a lungo. Eppure c’è qualcosa, nel tuo corpo, nel tuo sangue, che vuole uscire, qualcosa che puoi sentire prudere. La tensione è insostenibile, altrimenti non lo faresti. 

Le lamette invece sono a loro modo bellissime: la durezza, la semplicità delle loro linee e della loro forma, la funzione rinfrancante che svolgono. Ne prendi una dal pacco da 10 che hai comprato, la soppesi nel palmo della mano. Magari la provi tagliandoti il polpastrello: una singola goccia di sangue, color rubino, brilla sull’acciaio. 

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Fai scivolare la lametta sulla pelle, guardi la carne che si apre, guardi tutto il tuo dolore e la tua ansia e la tua frustrazione che scorrono fuori. 

Secondo Freud, il subconscio umano è spezzato in tre parti: l’Io, il Superio e l’Es. L’Io è ciò che siamo, la nostra auto-consapevolezza. Il Superio sono le imposizioni e l’influenza della società sull’Io—tutto ciò che ti hanno insegnato sul bene e il male i tuoi genitori o il parroco. L’Es è il naturale antagonista dell’Io, la sede dei nostri bisogni ancestrali. Quando tua madre ti dice che non puoi mangiare un’altra caramella, l’Es è la parte che te la fa desiderare. Quando la polizia ti dice che devi fermarti al semaforo rosso e che non farlo è una violazione del codice della strada, l’Es è la parte che ti fa pensare di premere sull’acceleratore. 

Le spinte dell’Es sono anch’esse spezzate in due forze in conflitto tra loro: Eros, la pulsione vitale, e Thanatos, la pulsione di morte. Eros è la spinta che ti fa volere tutte le cose che hanno a che fare con la vita—il che vuol dire, visto che si tratta sempre di Freud, il sesso. Eros è il desiderio sessuale, il desiderio della propria propagazione. Thanatos, la pulsione di morte, è l’opposto. In una psiche normale, Thanatos serve solo a bilanciare Eros e in pratica consiste solo nella realizzazione che tutte le cose, inclusi noi stessi, un giorno moriranno. In una psiche problematica, come nel caso di persone che hanno subito traumi o hanno problemi di salute mentale, Thanatos diventa preponderante. 

Le espressioni della pulsione alla morte possono essere di due tipi: esterne e interne. Tra le prime c’è il fare del male agli altri o il distruggere qualcosa fuori dal proprio sé: l’omicidio, la piromania e simili sono tutte espressioni esterne di Thanatos. Tra le espressioni interne invece c’è il suicidio, la forma più drammatica di auto-distruzione.

E poi c’è l’autolesionismo. Com’è l’autolesionista tipo? È una donna sui 20-30 anni. È autolesionista dall’adolescenza, probabilmente ha una storia personale fatta di abusi fisici o sessuali e/o soffre di un disturbo dell’alimentazione, di un disturbo dell’umore o di un disturbo borderline della personalità. È intelligente e ha un buon grado di istruzione. Probabilmente è arrivata all’autolesionismo in modo spontaneo e ha un suo metodo—anche se internet ha creato delle community in cui, tra le altre cose, ci si scambiano consigli per migliorare le rispettive tecniche di autolesionismo, come nel caso del movimento pro-ana

Io sono una autolesionista tipo. Ho 25 anni e lo faccio da quando ero al liceo. Soffro di disturbo bipolare. Vado all’università. Sono arrivata all’autolesionismo in modo spontaneo, l’ho scoperto come si scopre il sesso: come qualcosa di nuovo e di magico e a cui non puoi credere di non aver pensato prima. 

E sono bravissima a nasconderlo. 

Anche se ci sono nuovi studi secondo cui il 70 percento degli autolesionisti userebbe diversi metodi alternandoli, circa un terzo degli autolesionisti ha la sua formula speciale a cui si attiene. Le tre più diffuse sono tagliarsi, procurarsi dei lividi e bruciarsi. 

Tutti questi comportamenti hanno radici storiche. Alcuni sono diventati di moda per un periodo e poi sono quasi scomparsi. Altri sono diffusi da centinaia, a volte da migliaia di anni. L’autolesionismo è capace di adattarsi molto bene. È menzionato nel DSM-V—l’ultima edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali pubblicato dall’American Psychiatric Association. Ma il Manuale cambia con il tempo. 

Per esempio: fino al 1973 e al DSM-II, l’omosessualità era citata tra i disturbi mentali. L’isteria, una malattia delle donne il cui sintomo più comune era l’esuberanza e che fino al diciannovesimo secolo ha fatto sì che molte donne venissero interante quando il marito si stancava di loro, è stata rimossa dal DSM-III solo nel 1980. Ma con questo non voglio dire che l’autolesionismo possa essere una forma di terapia per qualcosa, o che possa essere un passatempo. 

Mi chiedo solo se ciò che rende noi autolesionisti “pazzi” non sia il semplice fatto che la gente ci dica che lo siamo. Nel corso della storia, quelli che consideriamo fatti e verità sono cambiati varie volte col tempo. Nel sedicesimo secolo, credevamo che il Sole girasse intorno alla Terra. L’alchimia era considerata una scienza, così come la frenologia. E invece. 

Tagliarsi è la forma più diffusa di autolesionismo. Chi si taglia in genere lo fa con un rasoio, un coltello o un altro oggetto abbastanza affilato da trapassare la pelle. I punti più usati sono l’avambraccio della mano con cui non si scrive e le cosce, perché sono punti facili da raggiungere. 

Per molti anni, il salasso è stato una procedura medica molto popolare usata per curare ogni genere di malattia, dallo scorbuto alla sifilide. (Altre cure medievali alla sifilide includono: l’arsenico per via orale e il mercurio applicato sui genitali.) Le origini del salasso risalgono al medioevo, quando si pensava che tutte le malattie fossero causate dagli “umori.” 

Nel tagliarsi, il sangue è estremamente importante. Per chi si taglia sanguinare è così importante che, durante la terapia, gli autolesionisti sono incoraggiati a tracciare linee sulla loro pelle con un pennarello rosso invece che tagliarsi. Molti autolesionisti dicono che ciò che gli dà più piacere è vedere un cambiamento fisico nel proprio corpo, un cambiamento causato da loro sotto forma di sanguinamento, ematomi o bruciature.

Procurarsi ematomi o fratture è un’altra forma di autolesionismo. Nella maggior parte dei casi, si esprime nella pratica di picchiare la testa dell’ulna, quell’osso grande all’altezza del polso, contro qualcosa di duro. È un comportamento che può causare ematomi e fratture. Altri autolesionisti sbattono la testa contro i muri o altre superfici solide. Altri prendono a pugni i muri. 

L’autoflagellazione è una pratica religiosa in auge dal tredicesimo secolo. I monaci si flagellavano con fruste e corde annodate, spesso cantando inni sacri. La pratica era nata come celebrazione della passione di Cristo ma poi si era trasformata in un movimento in cui i penitenti adoravano la sofferenza come unico modo per garantire la purezza della loro anima e raggiungere il Paradiso. 

È ironico: secondo uno studio russo del 2005, la flagellazione porta sollievo alla depressione, diminuisce i pensieri suicidi ed è utile per contrastare le dipendenze. Lo studio sostiene che la pratica stimola il sistema nervoso a rilasciare endorfine, come accade durante il sesso o quando si mangia del cioccolato. Parte della piacevole sensazione che proviamo prima e dopo l’orgasmo si può attribuire alle endorfine. 

Un’altra forma molto diffusa di autolesionismo consiste nel bruciarsi. Questo può avvenire in un sacco di modi diversi: con fiammiferi, fiamme libere, oggetti caldi, sostanze chimiche. La prima volta che mi sono fatta del male l’ho fatto bruciandomi con la colla bollente, lasciandola solidificare sulla mia pelle finché non è diventata così fredda e dura da poterla rimuovere. I fiammiferi sono molto usati: vengono accesi e spenti sulla pelle. È un metodo molto sicuro, ci sono meno probabilità di prendere fuoco che non usando una fiamma libera. 

Un altro metodo usato dagli autolesionisti è quello di marchiarsi a fuoco premendo contro la pelle un oggetto caldo. Marchiare a fuoco gli esseri umani è una pratica che risale al tempo della tratta degli schiavi. Ma è anche usata da alcune tribù come rito di passaggio ed è diventata piuttosto popolare nelle comunità BDSM. Sia il marchio in sé che l’atto del marchiare provocano piacere. 

Per chi non ne ha mai sentito il bisogno, l’autolesionismo sembra una follia. La maggior parte delle persone hanno una pulsione di morte che serve solo a bilanciare la loro pulsione vitale. La maggior parte delle persone danno troppo valore alla vita per considerare l’idea di farsi del male di proposito. Eppure ci sono migliaia di individui, tra cui anche molti giovani, che si comportano in questo modo regolarmente. Dev’esserci una ragione. 

In realtà, di ragioni ce ne sono diverse. La prima ha a che fare con il controllo. Gli autolesionisti sentono di non avere il controllo su loro stessi e sull’ambiente in cui vivono. Non riescono a controllare il dolore che sentono dentro, quindi decidono di causarsi un dolore controllabile fuori.

La seconda ragione ha a che fare con la rassicurazione. L’autolesionismo diventa un rituale e i rituali sono rassicuranti, specie se servono a ridurre lo stress della vita. L’autolesionismo diventa una specie di passatempo rilassante, qualcosa che fai per non dover stare da sola con la tua ansia, la tua depressione o una situazione familiare. 

Ho parlato con alcuni autolesionisti delle loro esperienze. Hanno chiesto di restare anonimi, perciò li indicherò solo con un’iniziale. 

T. è una di loro. Ha una storia di abusi domestici alle spalle, combatte con ansia e depressione ed è stata autolesionista per 11 anni—nel suo caso, si tagliava. “Ogni volta che lo facevo, per un po’ mi sentivo come se fossi riuscita a ottenere finalmente qualcosa,” mi ha detto. “Mi concentravo molto, poi una volta finito pulivo e bendavo le ferite. Ma la sensazione positiva non durava a lungo. Di solito quando toglievo le bende e rivedevo i tagli cominciavo a sentire l’impulso a rifarlo.” 

Non dobbiamo dimenticare le endorfine, come ci insegna lo studio russo sulla flagellazione. Ecco l’equazione: il dolore causa il rilascio di endorfine. Le endorfine ti fanno sentire meglio, anche se solo per un attimo. Uguale: il dolore ti fa sentire meglio. 

L’autolesionismo è una forma di terapia, ma non è una terapia che fa bene. Come fa un autolesionista a smettere? 

Alcuni autolesionisti smettono da soli. O abbandonano la situazione che sta causando loro stress, o semplicemente cambiano il loro comportamento. T dice, “Quando ho smesso di tagliarmi, non l’ho fatto per un motivo particolare. Probabilmente, ho solo avuto nuovi ritmi che mi permettevano di lasciare più spazio alla depressione, senza dovermi sentire sia depressa che in ansia.”

Altri hanno bisogno di aiuto per smettere. Esistono terapie apposite per bilanciare l’esigenza di tagliarsi. I farmaci rappresentano di solito il primo intervento, con una predilezione per gli antidepressivi SSRI, e per i casi più gravi con stabilizzanti dell’umore. A volte i farmaci sono sufficienti, ma altre volte si fa necessaria una lunga psicoterapia, nel corso della quale ai pazienti vengono insegnate delle dinamiche di cooping e anche delle metodologie per gestire i propri sentimenti negativi.

Esistono anche programmi di riabilitazione in strutture apposite. Sfortunatamente, ci sono sempre pochissimi studi sull’autolesionismo, e ancora meno su cose specifiche come l’incidenza di recidive, perciò non c’è modo di garantire che gli effetti di queste cure durino sul lungo termine.

E smettere non significa certo che le cicatrici—fisiche e figurate—spariranno. L è un’assistente legale, e una madre, e si è tagliata per dieci anni. Oltre a tagliarsi, si bruciava e si graffiava. Dice, “Sono passati otto anni dall’ultima volta. Ripensandoci, mi manca.” È come con gli alcolisti: non importa da quanto tempo sei pulito, la pulsione c’è sempre.

Mentirei se dicessi che ho completamente abbandonato la soluzione autolesionista. A volte le emozioni negative mi inghiottono, e il pensiero mi compare nella mente, come un riflesso: tagliarti potrebbe aiutarti. Ti sentirai meglio. Fallo. Non so se smetterò mai di avere questo pensiero.

Come dicevo, ci sono molte forme “lente” di autodistruzione. Esistono molti comportamenti che hanno un esito negativo sulle nostre vite e sulla nostra salute. T conferma, “Il periodo in cui mi tagliavo ha coinciso con il periodo in cui ho adottato altre condotte nocive per la mia salute, condotte che ho ancora oggi.”

Bere troppo, fumare troppo, mangiare troppo. La droga, la guida spericolata. Perché questi sono solo “modi in cui si è fatti” e tagliarsi invece è un disturbo patologico? Sappiamo che non dipende solo dal momento storico in cui viviamo, dato che sono centinaia di anni che è così, da molto prima che ci fossero macchine da guidare in modo spericolato. Cosa rende l’una cosa un vezzo, e l’altra una malattia? L’autolesionismo è solo il fratellino minore del suicidio?