Di Battista è tornato dal suo Erasmus, ma noi non eravamo pronti

di battista di maio

Lui è tornato. No, non quel Lui: mi riferisco ad Alessandro Di Battista.

“Dopo 16.718 km in bus (più altri su varie imbarcazioni), con qualche kg in meno noi due e qualcuno in più Andrea,” ha scritto su Facebook il 23 dicembre, “dopo aver visitato 9 paesi, scritto reportage, girato documentari, dopo aver vissuto per 7 mesi la vita che sognavamo per nostro figlio…torniamo a casa.”

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Nel video che accompagna il post, l’ex deputato ha aggiunto che sarà in Italia anche per difendersi dalle “stronzate” che girano sul suo conto e sull’azienda di suo padre Vittorio, il “fascista più liberale” d’Italia. A capodanno Luigi Di Maio ha pubblicato una foto in cui compaiono Di Battista e il figlio Andrea, e ieri i due hanno augurato un buon 2019 ai propri seguaci, in diretta da una pista da sci.

Il ritorno del’ex parlamentare ha scatenato ogni tipo di speculazione, e la fantasia dei titolisti restituisce bene questo clima di attesa spasmodica: “Hasta Di Battista siempre: ecco perché nel 2019 sarà lui a rivoluzionare la politica italiana, “Di Battista, il ritorno del frontman M5s. Sarà lui l’anti-Salvini duro e puro” e “Il ritorno di Di Battista, il jolly del Movimento che fa tremare Di Maio.”

In realtà, stando ad alcune indiscrezioni riportate dal Corriere della Sera, Di Battista “rimarrà lontano dalla politica italiana anche nel 2019” e “aiuterà nella campagna elettorale per le Europee ma continuerà a girare il mondo [si parla di Asia o Africa] per i suoi reportage.”

Al tempo stesso, il rientro di Di Battista non può di certo passare inosservato. Soprattutto perché arriva in un momento particolarmente delicato per i Cinque Stelle e per Luigi Di Maio: secondo gli ultimi sondaggi, il partito ha perso ben cinque punti percentuali di consenso, e i “delusi che hanno abbandonato il Movimento si sono rifugiati nell’incertezza o nell’astensione o hanno scelto la Lega.” Il vicepremier, invece, ha perso 15 punti di gradimento personale rispetto al 4 marzo.

Ma facciamo un paio di passi indietro. Contestualmente all’uscita del libro Meglio liberi, nel dicembre dell’anno scorso l’ex deputato del Movimento Cinque Stelle aveva annunciato su Facebook la sua non ricandidatura, dettata da una “scelta umana, anche di cuore” e motivata dall’intenzione di tornare a fare “cooperazione internazionale e reportage.”

All’epoca, in molti si erano chiesti cosa ci fosse realmente dietro; e alcuni retroscena parlavano di una sorta di “staffetta” tra lui e Di Maio studiata a tavolino: nel senso che questo giro sarebbe toccato all’attuale vicepremier, mentre l’altro avrebbe fatto la riserva di lusso e continuato a picchiare duro da fuori nella sua veste di scrittore, “primo attivista d’Italia” e, be’, semplicemente Dibba.

A maggio 2018 il viaggio in America (con famiglia al seguito) è diventato realtà e si è poi concretizzato in una serie di pezzi e video, intitolati “L’orizzonte lontano” e pubblicati su Fatto Quotidiano e Loft. Ovviamente, qui non mi soffermo sul lato “giornalistico” dell’impresa—che è nullo—ma su quello comunicativo e politico.

Partiamo dal primo. In quel Westworld che è il M5S, Di Battista è stato scritturato per incarnare l’ortodossia grillina più intransigente, soprattutto sui social. I suoi testi, come ha scritto Giuliano Santoro, “sono facili da leggere, scritti in prima persona e con trasporto,” fatti di “frasi brevi e concitate” e “sfoghi emotivi” che “zampillano battute poco concrete ma molto immaginifiche.”

Dall’altro lato, l’aderenza totale alla linea è rinforzata da un certo tipo di retorica che attinge a piene mani dall’immaginario che un occidentale può avere dell’America latina—e quindi un po’ Cent’anni di solitudine, un po’ I diari della motocicletta, un po’ Eduardo Galeano e un po’ di zapatismo, anche se su quest’ultimo versante non gli è andata benissimo.

Se si leggono i pezzi e i post, tuttavia, si nota immediatamente che l’intero impianto discorsivo è volto unicamente a fare propaganda per il Movimento 5 Stelle. Nel visitare la Silicon Valley, a suo dire, non faceva altro che “pensare al reddito di cittadinanza”; il muro al confine con il Messico è l’occasione di parlare del “dramma dell’insicurezza legata alla mancanza di gestione dei flussi migratori” (ricorda qualcosa?); e una comunità agricola in Guatemala, in fondo, si sporca le mani esattamente come il ministro della giustizia Alfonso Bonafede.

Di Battista, con ogni evidenza, non ha mai parlato davvero di Stati Uniti o dell’America latina. Ha solamente usato il continente da pretesto per parlare di politica interna—o meglio: per fare politica interna—da una posizione che gli garantisce ampi spazi di manovra, nonché una permanenza costante nel ciclo delle notizie.

Del resto, l’aveva pure scritto: “Non essendo più un parlamentare decido io e soltanto io quando scrivere e se commentare o meno una questione.” E infatti, in questi mesi Di Battista è intervenuto in ogni dibattito italiano rilevante, esercitando il ruolo di pungolo costante all’attuale opposizione e di galvanizzatore della base grillina—soprattutto quella più delusa e incerta.

Subito dopo la formazione del governo gialloverde, ad esempio, si è scagliato contro i “soliti intellettuali ‘falce e cachemire’” dicendo di provare “soddisfazione nel vederli gonfi di livore.” Poi è arrivato il turno dei “quartieri alti delle città” dove si annidano “gli sponsor di questa nuova tratta di schiavi” (cioè “l’immigrazione senza controllo”); del Partito Democratico (ucciso dall’“atteggiamento profondamente ‘borghese’ ed anti-popolare”); delle magliette rosse (“lacché di Napolitano); della sua nemesi, Matteo Renzi; e dei giornalisti “puttane” a seguito dell’assoluzione della sindaca di Roma Virginia Raggi.

Il supporto a Luigi Di Maio e all’esecutivo è stato espresso più e più volte—a partire dalla nomina di Marcello Foa alla presidenza della Rai (“un giornalista mai servo che si è battuto con coraggio contro le fake news”) per arrivare al pugno di Toninelli, levato in aula dopo l’approvazione del decreto Genova. E non sono mancati i temi classici del grillismo, come la lotta alla Casta e ai suoi privilegi (tipo le “scorte pazze,” una “vergogna tutta italiana”) e le restituzioni.

L’aspetto più rilevante a livello politico è però un altro: Di Battista è l’unico leader del M5S che critica apertamente Matteo Salvini. A dir la verità, l’ha sempre fatto: nel 2015 parlò per cinque minuti filati dei guai giudiziari e finanziari della Lega, e durante la trattative per la formazione del governo arrivò a paragonare il segretario leghista a Dudù.

Ma se per il M5S istituzionale le cose sono cambiate parecchio, per Di Battista no—non è in alcun modo coinvolto nell’alleanza di governo, e non ricopre alcuna carica. All’inizio di settembre, dal Guatemala, era stato parecchio duro sulla vicenda dei 49 milioni (“li deve restituire fino all’ultimo centesimo), sul ponte Morandi (“se la Lega si tirasse indietro sulla nazionalizzazione delle autostrade si sputtanerebbe”), sull’alleanza con Orban (“non può essere mio alleato”) e addirittura sullo stile di Salvini, “pompato dal sistema mediatico in maniera vergognosa.”

Inoltre, Di Battista aveva detto quello che in molti pensano all’interno del M5S: “Non siamo 4 sfigatelli che si fanno dettare la linea di Salvini come qualcuno vorrebbe descriverci. Abbiamo il 37% dei consensi e le iniziative del governo che sono andate in porto fino ad ora sono state portate avanti dal M5S.”

Salvini si era mostrato parecchio infastidito, liquidando Di Battista con una frase piuttosto lapidaria: “Fossi in Guatemala passerei il tempo in maniera più ludica. Mi sa che è roba interna ai Cinque Stelle.” Qualche mese dopo, Di Battista aveva invitato Salvini a essere più leale al contratto di governo; risposta secca: “Invidio profondamente Alessandro Di Battista che mi redarguisce dalle spiagge del Guatemala.” E ancora, il 30 dicembre 2018: “Lui sta girando il mondo ed è pagato per farlo. A modo suo, è geniale.”

Non a caso, negli ambienti leghisti è già trapelata una certa preoccupazione per il ritorno dell’ex deputato. In un retroscena pubblicato lo scorso ottobre sul Corriere della Sera, un imprecisato ministro leghista ha confidato che “per Di Maio il momento peggiore—che è quello in cui rischieremo tutti—sarà il ritorno di Alessandro Di Battista dal Sudamerica. È allora che lui subirà ogni giorno la pressione dell’antagonista. È allora che sarà portato a prendere posizioni poco meditate per non farsi scavalcare.”

C’è da dire che il ruolo di Di Battista non sembra però orientato a fare le scarpe a Di Maio, nonostante questo sia all’ultimo mandato; né pare destinato a candidarsi alle europee, rimpiazzare Virginia Raggi, diventare commissario europeo o fare il “braccio destro” di Conte a Palazzo Chigi.

Piuttosto, è probabile che agirà da supporto al vicepremier—una sorta di “testa d’ariete contro Bruxelles,” di “uomo simbolo di un Movimento scamiciato” e “libero di guerreggiare a distanza con Matteo Salvini.” D’altronde, persino Andrea Scanzi ha spiegato che il partito “deve dare la sensazione di essere comunque alternativo alla Lega,” e per farlo ha bisogno “che torni al più presto Di Battista sul campo di battaglia.”

Qualche giorno fa, a proposito del Grande Rientro, Matteo Salvini ha detto che “Alessandro Di Battista è un amico, non vedo l’ora che torni a dare il suo contributo.” Non so se fosse sarcastico, ma due cose sono abbastanza certe: se ci si mette d’impegno, Dibba può agevolmente scalzare Salvini dal trono dei selfie-con-cibo; e di lui—volenti o nolenti—sentiremo parlare ancora a lungo.

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