Sulla carta Roma è un’estesa metropoli che conta quasi 3 milioni di abitanti. Per chi in questa città ci vive, però, Roma non è altro che un enorme agglomerato di paesini dislocati e sparsi lungo il Tevere. Ci sono zone popolari in cui puoi respirare la vita di prossimità a ogni angolo, e altre invece insospettabili: quartieri residenziali o commerciali in cui è difficile captare situazioni di vicinato.
Uno fra tutti è Prati, area non proprio centrale, ma sicuramente tra le più commerciali della Capitale: negozi, uffici e bar in cui fare la pausa pranzo. In questo marasma di insegne, locali alla moda, si annidano anche piccole oasi in grado di ricordare una Roma più autentica, originaria. In via Tacito per esempio, una stradina che collega due grandi corsi della zona, c’è una vetrata opaca consumata dal tempo con al centro una porta e degli infissi color ruggine. Un tendone grande, a strisce larghe porta un’insegna rossa ben visibile: Hostaria Dino Express.
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Qualche tavolino sul marciapiede, delle sedie in legno e una tovaglia lunga fino a metà altezza delle gambe, gialla come non se ne vedono più in giro. Dino Express è un’osteria che esiste da più di 40 anni e la sua è una storia che non ha nessun colpo di scena: un giovane, Dino Marrocu, nei primi anni ’80 rileva il locale e inizia con la moglie Anna Malca a cucinare piatti semplici, gli stessi che fanno già a casa.
In questo posto non esiste una carta o meglio, qui i piatti li leggi su un piccolo block-notes a quadretti dove ogni giorno si scrive quello che c’è. Quando mi sono seduta al tavolo me lo hanno lasciato lì, così da poterlo studiare con calma. Io e i miei amici abbiamo ordinato un po’ di piatti da mettere in mezzo così da assaggiare un po’ di tutto: non è una cosa che si fa molto qui a Roma, ma valeva la pena provare più cose possibili. Le ordinazioni le ha prese Yolanda, la sorella di Dino, poi ha afferrato il blocchetto e lo ha rimesso in tasca. Di fianco all’Hostaria c’è una cartoleria, piccola e piena di oggetti che oggi sembrano obsoleti —tipo il bianchetto, c’è qualcuno che usa ancora il bianchetto? Da questo negozio ogni tanto si affaccia un signore che sembra leggermente più anziano di Dino e che si ferma a chiacchierare con i passanti o con qualche cliente lì seduto.
Ecco che arrivano i piatti: Arista con patate, Polpettone con piselli, Broccoletti in padella e qualche Zucchina trifolata, Frittatina con carciofi e Polpettine al sugo. Questa cosa invece, di usare dei diminutivi su alcune pietanze (frittatina, polpettine), è pienamente romana ed è il modo per dire che stai in famiglia.
Un’altra cosa abbastanza particolare di Dino Express è che nella proposta del giorno non ci sono antipasti, solo primi o secondi con contorni, d’altronde quando mangi a casa mica ci sta l’antipasto. I sapori poi sono quelli di sempre; mi viene in mente la cucina di mia madre, non tanto nei pranzi della domenica, ma piuttosto la cucina di ogni giorno, quella a cui sei talmente abituato che ti sembra la normalità.
Mentre mangiamo Dino entra ed esce senza sosta; tra un servizio e l’altro ci lancia una battuta o ci chiede se “è tutto bono?”. Noi con le bocche stracolme ci limitiamo ad annuire con la testa e ad abbozzare un “buonissimo Dino” leggermente ciancicato. Il dolce lo saltiamo, perché comunque siamo a un tavolino sotto il sole e non è che ci siamo tenuti proprio leggeri con le altre portate.
Il tempo passa e si fanno le 14. Molti pagano e tornano al lavoro o nei loro uffici, rimaniamo in pochi e anche Dino e Yolanda iniziano a rallentare il passo. Il signore della cartoleria affianco si siede con altri del quartiere al tavolo libero accanto al nostro, godendosi l’ombra dell’albero poco più in là. Percepisco di aver appena assistito a una specie di rito.
Rimaniamo solo noi e i signori accanto, e mi rendo conto che sembriamo un unico tavolo che ha appena finito di pranzare insieme. Dino si unisce per ultimo, chiacchieriamo del più e del meno, e Greta, la mia amica, mi racconta che tutte le mattine il suo cane Nena si ferma puntuale davanti al ristorante per ricevere l’ormai quotidiano pezzo di pane. “Un po’ di mesi fa Dino si è preso il Covid e ovviamente il ristorante è rimasto chiuso.” Continua Greta, “qua nel quartiere aspettavamo tutti che riaprisse, ma la cosa più bella è stata Nena che si fermava ogni giorno davanti la serranda abbassata, aspettando che uscisse Dino a darle il pane”. Tutti al tavolo commentano questo aneddoto raccontando la loro versione della vicenda, poi mi fanno vedere una foto del cane davanti al ristorante chiuso: immagine nitida e schietta di quello che significa appartenenza a un quartiere.
Il momento si fa abbastanza suggestivo, così Greta smorza la situazione: “Dino, ma che ce lo fai un caffè? Però con la moka che è più buono”. Lui accenna un sorriso e l’espressione è proprio quella: “te possino”. Dopo poco torna con le tazzine per tutti. Ogni tanto passa qualcuno che saluta o che addirittura si siede qualche minuto al tavolo. Ad un certo punto arriva anche il padre di Greta, che lavora da quelle parti. Dino lo vede e fa: “Ah Gildo, ci sono le alicette al gratin che t’ho lasciato da parte”, così gli prepara un coperto e lo fa accomodare. Le alici sono l’unica cosa che non mangio, ma a sentirne gli elogi ammetto che ne avrei assaggiate un paio —anche dopo il caffè.
Mentre sono lì, seduta a godermi quel momento, penso al ristorante poco più avanti. Tantissimi coperti, una vetrata lungo tutto il perimetro e un menu fisso “Formula business lunch”. Immagino piatti dai sapori livellati e una velocità di servizio tale da ottimizzare al massimo quell’ora della pausa pranzo. Immagino un vociare forte, tante persone che parlano e mi chiedo: come si può parlare davvero in mezzo a tutto quel casino?
Torno al momento presente, mi sento già meglio. Per alcuni secondi nessuno fiata, poi di punto in bianco gli animi si accendono d’improvviso su tematiche calde come “la Roma” o la vita di venti anni fa.
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