Incontriamo Don Joe, al secolo Luigi Florio, negli studi di Dogozilla, la sua creatura che lo impegna a tempo pieno tra produzioni e etichetta dopo la pausa a tempo indeterminato dei Club Dogo. È l’occasione per ripercorrere tutta la sua carriera, e in qualche modo anche la sua vita: una delle storie più importanti nell’hip-hop italiano degli ultimi decenni.
Dagli esordi pionieristici al grande successo dei Dogo, fino alla recentissima “F.A.K.E.”, quello di Don Joe è stato un percorso caratterizzato da mille collaborazioni, una grande attenzione per “la musica che gira intorno” e uno sconfinato amore per quello che fa, che ci ha portato nel corso della conversazione a inoltrarci anche in territori pericolosamente nerd. Ma cominciamo dall’inizio.
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Noisey: Tu sei nato a Milano ma sei cresciuto a Bresso, giusto?
Don Joe: Sì, proprio la provincia. La provincia prossima, perché è quella della cerchia dei primi paesi intorno a Milano. Con una mezz’oretta si arrivava in centro.
Avevi un po’ il mito di Milano?
Assolutamente. Bresso ha una vita sua fatta di piazze e compagnie, ma nel weekend con i motorini ci trasferivamo a Milano dato che non c’era granché come discoteche o locali, e nulla come luoghi di aggregazione per l’hip-hop. Già non era facile trovare quel mondo a Milano, figurati fuori. Frequentavamo una piazza di Bresso dove c’erano dei portici e facevamo tutto lì: freestyle, sentire musica… però per i cazzi nostri, con i miei amici, non è che ci fosse una scena.
Come hai scoperto l’hip-hop?
Grazie a mio fratello, che è più grande di me. A fine anni Ottanta, quando hanno cominciato a arrivare le prime cose electro, vendevano una collana di cassette in edicola con il meglio dell’electro, e lui i primi brani li sentiva da lì. Li comprava per ballare la breakdance, c’erano i tutorial… fa un po’ ridere raccontato adesso, ma non è che ci fossero molte alternative ai tempi. Il primo album che mi ha sconvolto completamente è stato quello dei Beastie Boys, quello con l’aereo in copertina [Licensed To Ill, nda]. E anche quello arrivava da mio fratello. Io poi della musica ho fatto un lavoro, mentre lui ha seguito un’altra sua grande passione, ed è diventato cuoco.
Quindi hai conosciuto l’hip-hop a 360 gradi a partire da una piazza di Bresso.
Avevamo creato un gruppo che si chiamava La Casa Nostra, ed era fatto da amici della compagnia e qualcun altro che arrivava da fuori. Io ero producer, da subito, e facevo anche il rap. Ho mantenuto per un po’ questa doppia veste. Ma in realtà in qualche modo non ho mai smesso di entrare anche nelle produzioni con i ritornelli, anche con i Dogo, però in linea di massima ho scelto di fare il produttore: mi è sempre piaciuto fare musica, creare le basi.
Eravamo in quattro all’inizio, poi con il tempo la cosa si è un po’ persa, anche perché io a un certo punto mi sono trasferito a Milano e ho cominciato a frequentare i luoghi culto come il Muretto, o i centri sociali dove la musica si stava evolvendo. Lì ho conosciuto tutti i vari personaggi che gravitavano intorno al mondo dell’hip hop a Milano, compresi Jake, Gué e Vincenzo da via Anfossi. E già nelle Sacre Scuole in qualche modo collaboravamo: non era un mio progetto ma ci sono comunque due episodi di produzioni mie.
La Casa Nostra era un gruppo, mi dicevi. Pensando alla tua carriera in generale hai sempre amato circondarti di altre persone. Penso a alcuni producer che invece si limitano a mandare la base a questo, la base a quello, e fanno tutto per conto loro. Nella tua carriera ci sono stati poi i Dogo e la Dogo Gang, e anche in seguito un disco insieme a Shablo (Thori & Rocce, 2011), uno solista con tanti ospiti (Ora o mai più, 2015), e ora Dogozilla.
Nonostante sia un produttore che lavora molto da solo sulla creazione dell’idea, poi mi piace lavorare in un gruppo. Lavorare con altri ti aiuta a superare dei limiti personali. All’inizio magari era meno frequente, mentre ora lavoro proprio quasi completamente con i ragazzi che stanno con me. Siamo una decina di produttori, ci sono tante teste, e si può fare qualcosa di molto diverso da quello che può fare un singolo. Quando all’inizio inizio facevo parte del team di produzione di Irene Lamedica, ed era lo stesso periodo di Sacre Scuole, eravamo quattro produttori: Robi Baldi che faceva la musica pop, Steve Dub che faceva reggae da DJ, dancehall e R&B, e poi Stefano Fontana che faceva elettronica, house. Il mio lavoro è sempre stato circondato da altri, come stare sempre in una factory, con altre persone che portano qualcosa. Ma per me è anche una delle fondamenta dell’hip-hop in genere: ognuno porta una vibra. Che sia musicale, o un’idea sul testo o qualcos’altro.
Mi dicevi che la folgorazione è arrivata con i Beastie Boys. Quali sono stati gli altri primi amori che ti hanno fatto capire che magari questa cosa della musica avrebbe avuto una parte consistente nella tua vita?
I grandi gruppi di quel periodo come Run-DMC o i Public Enemy. Sono stato per un gran periodo estimatore della West Coast: Eazy-E, N.W.A., i primi dischi di Tupac, poi Snoop… Dr. Dre è uno dei miei produttori preferiti, da cui ho preso tantissimi spunti. Anche l’idea di produttore che ho in testa, come icona, è proprio la sua. Poi un po’ più tardi sono arrivato a New York, con B.I.G., la Bad Boy, Pete Rock, Premier, Diamond D: tutti quelli che facevano classic, con campionamenti a manetta. Ma la mia scuola è sempre rimasta quella: la west coast dove si campionava poco e semmai si rifacevano i brani con i musicisti. Non sono mai stato tanto un produttore da campione e breakbeat, ho sempre cercato di metterci altro, il synth per esempio, e così di farlo mio. È così che nasce il suono dei Dogo.
Il lavoro con Irene Lamedica quando è cominciato?
Presto, quattro o cinque anni prima di Milano. Avrò avuto 19 anni. Le Sacre Scuole li ho conosciuti bene proprio lì in studio da Irene. Prima magari ci conoscevamo di vista, ci vedevamo agli stessi concerti, ci salutavamo ma finiva lì. Poi loro vennero in studio con Caneda e Chief, che era il loro manager all’inizio, e iniziammo a fare delle cose insieme. Guè e Jake sentirono le produzioni che stavo facendo e mi chiesero di fare delle cose insieme, dato che le Sacre stavano finendo con la separazione da Dargen. A un certo punto qualcuno ha detto che poteva essere proprio un gruppo, non mi ricordo neanche di chi è stata l’idea. Abbiamo deciso di cominciare a mettere giù dei brani. Mi Fist è proprio un assemblaggio di quelle cose lì, non è neanche stato un lavoro del tipo “adesso dobbiamo fare un album”.
Tu prima però eri molto incentrato sul fare il rap. Mi ricordo il periodo in cui ti chiamavi Donjoevanni, anche il pezzo sulla compilation di DJ Enzo, Tutti x Uno.
Quello di Irene era anche quel momento lì. Infatti “Quello per cui vivo”, che è il pezzo che sta in quella compilation, era proprio fatto con lei. All’epoca stavo anche lavorando proprio a un disco, solo che la situazione era un po’ confusa. Irene e compagnia bella erano firmati con SoleLuna, l’etichetta di Jovanotti, e nello stesso tempo cercavano artisti da produrre. Io già lavoravo lì come assistente di studio e produttore e loro cercavano artisti da spingere. E c’ero io, c’era un ragazzo che faceva R&B, c’erano dei progetti, una bella crew. Quello con Irene però era un lavoro molto intenso da fare: le produzioni erano sessioni su sessioni, un sacco di musicisti. Mi portava via tantissimo tempo, e quindi le cose che scrivevo e registravo alla fine erano poche. C’erano cinque o sei pezzi, che tra l’altro sono rimasti là nell’hard disk del Ti Tratto Meglio Studio, chissà che fine hanno fatto. C’era l’idea di uscire ma poi dopo quel periodo, che è durato cinque o sei anni, a un certo punto mi sono staccato e ho preso uno studio insieme a Danti. Loro cominciavano a fare le loro cose come Two Fingerz, e io mi sono messo a fare Mi Fist.
Le Sacre Scuole le hai viste da vicino ma senza farne parte.
Sì, perché ero proprio assistente di studio lì dove registrarono. Mi ricordo che arrivò Caneda con questo MPC e io feci il lavoro di trasferire tutti i file nel Mac e iniziammo a lavorare, però non ero coinvolto se non per quello. Poi lavorandoci venne fuori questa strumentale con il campione di Saturnino, a loro piacque, e tirarono in mezzo me come produzione e Irene come featuring. Da lì è iniziata, e fondamentalmente non ci siamo mai lasciati. Ed è stato tutto liscio finché è durata [sorride, nda].
Su Mi Fist la produzione era ancora abbastanza classica. C’erano molti campioni: Premier, Pete Rock.
Sì, era il mio periodo New York. Che ha preso il sopravvento, perché da lì in poi ho fatto solo quella roba: campionamenti, batterie. C’era già l’uso della batteria programmata, non era solo breakbeat e campione, c’era già l’idea di produrre in un certo modo, che è diventata poi la produzione più odierna. Nel periodo delle posse non c’era ancora questa cosa di frazionare il campionamento, io da lì iniziai a usare questa tecnica e feci i primi beat che poi andarono a finire in Mi Fist.
All’epoca come vi percepivate? Immagino che non vi aspettaste le dimensioni che poi i Dogo hanno raggiunto, però l’idea era di fare qualcosa di serio o era ancora molto un divertimento?
Era molto divertimento. Era anche un periodo difficile per il rap in Italia, era sparito tutto. Quelli grossi cambiavano genere, alcune cose andavano a spegnersi. Noi arrivavamo da esperienze da mixtape, super underground, e spingevamo per fare delle cose iper cazzute. Mi Fist non è nato come progetto per fare un disco di un certo tipo. Ci piaceva il reggae, ci piaceva la dancehall, ci piaceva il rap tradizionale… Abbiamo messo insieme tutto, facendo dei brani un po’ per volta, con l’idea di fare delle serate, di andare in giro e farci sentire.
Tutta la faccenda all’inizio era legata a centri sociali, a un mondo underground. Non aspiravamo a andare a suonare nei club, nelle discoteche, mentre i gruppi grossi già lo avevano fatto. Finché non è arrivata la major non ci si aspettava nulla del genere. Un giorno però siamo andati a fare una serata in un centro sociale fuori Milano, siamo andati lì con i nostri amici e nel backstage ci dicono che il posto è pieno, che stanno lasciando la gente fuori. Noi non ci credevamo. Ci siamo affacciati e in effetti c’erano tipo seicento persone, che per noi all’epoca era come se fossero diecimila. Arrivavamo da serate dove se c’erano cento persone era andata molto bene. Da lì abbiamo capito che stava succedendo qualcosa.
Di Dogo Gang si può cominciare a parlare dopo Mi Fist?
Sì, tra Mi Fist e Penna Capitale. Durante la lavorazione di Penna Capitale abbiamo cominciato a allargare la crew e creare questo brand, con gente che faceva musica ma anche non necessariamente. Avevamo il mito del Wu-Tang Clan, quel tipo di gruppone allargato. Volevamo rappresentare un suono e Milano. Eravamo tutti amici, non era come adesso che fai scouting. A volte aiutavi anche amici che non avevano mai pensato di fare rap a provarci.
C’è stato anche un mitico pezzo in cui ha rappato Emi.
Sì, “Italia 90”. Un’esperienza incredibile, con Emi che non andava a tempo. Ci siamo divertiti un sacco.
Dopo Mi Fist quindi tanta gente ai live, come primo segnale.
Sì, e l’attenzione di tante realtà come all’epoca poteva essere Vibra Records, etichette indipendenti che funzionavano in quel momento. Avevamo un nostro amico come manager, Tave di Area di Contagio. Lo avevamo tirato in mezzo finché non è arrivata la proposta da Vibra, però all’epoca era ancora una via di mezzo tra un hobby e una cosa più impegnativa. Io all’epoca lavoravo ancora, in Stazione Centrale, in un negozio tipo mini market, poi ho cominciato a lavorare all’IKEA. All’epoca lavoravamo tutti, e conta che Mi Fist l’abbiamo fatto tutto a mano, da portare a stamparlo fino a distribuirlo, dando i CD alla gente alle serate, andando in posta.
Staccarmi dall’avere uno stipendio e pensare “adesso mi metto a vivere di produzione” non era un’idea molto percorribile all’epoca. Adesso sì, il ragazzo di vent’anni può pensare che sia una cosa possibile, quantomeno hai degli esempi. All’epoca praticamente non c’erano dei precedenti. Mentre abbiamo cominciato a lavorare con Vibra io ho cambiato lavoro e ho cominciato a gestire un negozio in via Anfossi, Move Out, insieme a Supa di Sano Business. Era sempre un lavoro in un negozio ma era comunque nella musica, in un certo ambiente al cento per cento. Era anche un bel polo quella zona all’epoca, perché c’era la serata fortissima al Rolling Stone con Max Brigante, Five Stars, ed era tutto lì nel giro di tre vie: io smettevo di lavorare e andavo in discoteca, andavo poi a lavorare e di nuovo in discoteca, a casa ci andavo solo a dormire. Era un periodo un po’ confuso [ride, nda].
All’epoca c’era ancora un forte elemento di cazzeggio e di divertimento, no? All’inizio uno può fare il concerto ubriaco, mentre poi quando c’è gente che investe su di te è tutto più delicato.
Sì, diciamo però che la major, che è entrata tra Penna Capitale e Vile Denaro, comunque ha preso il gruppo per quello che era. Non hanno mai messo il becco nelle produzioni o nei pezzi, volevano il gruppo com’era: anche sfasciato, come eravamo noi. Clubber ma anche di strada.
Sono stati anche loro a venirvi a cercare, non a prendere dei ragazzi e farli diventare famosi. Voi eravate già diventati famosi grazie a YouTube, alla gente che vi ascoltava indipendentemente da qualsiasi mercato.
La nostra fan base iniziale era la strada, e facevamo un sacco di serate. Allo sbando proprio. Una volta siamo andati a Lecce con la mia Ypsilon 10 e siamo tornati in nottata. Andavamo dove ci chiamavano, senza hotel, a mangiare negli squat. Guidavamo sempre io o Enzo, colpi di sonno, cose impossibili. È un miracolo se siamo ancora vivi. Vibra Records ti gestiva soprattutto editorialmente. All’epoca con loro ho fatto un disco di Grand Agent [Regular, 2005, nda], ed è stato il primo episodio da producer fuori dal gruppo. Per me lavorare con uno come lui era quasi essere arrivato, anche se in realtà non è che abbia poi fatto molto: già andava poco l’hip hop italiano puoi immaginare quello americano… È un bel disco di culto che è rimasto là. Intanto però ho iniziato a vedere che stava succedendo qualcosa.
E i Dogo crescevano, ci hanno cercato le major e abbiamo fatto quella scelta a posteriori un po’ sbagliata, perché non sapevamo niente. Siamo andati su EMI, che nel giro di un anno è finita, e dopo sei mesi si stava già sfasciando tutto mentre avrebbero dovuto essere nel pieno del lavoro sul disco. Ci avevano messo i soldi ma loro stessi non è che avessero grandi aspettative, era un esperimento. Non c’era un vero mercato: nessuno sperava di fare trentamila copie, un disco d’oro. Noi poi eravamo degli ignoranti, ci impressionava già il fatto di andare in un posto dove c’erano degli uffici. Solo che non ci sono stati dietro, abbiamo fatto un paio di video ed è finita lì. Per noi è stato un disco importante e ci sono delle cose storiche, però l’abbiamo fatto in sei mesi.
A livello di produzioni è stato un passo ulteriore.
Per tutti i dischi dei Dogo ho rappresentato man mano un diverso decennio della musica: Settanta, Ottanta, Novanta, sempre a salire. Seguendo quello che mi è sempre piaciuto come riferimenti, anche personali, anche per amore personale, senza stare troppo a pensare a cosa avrebbe funzionato.
Come funzionava all’interno del gruppo la dinamica interna? Tu non ti limiti a mettere la base ma fai anche molta direzione artistica, dici anche all’MC “questa frase proviamo a farla in questo modo”, sei molto presente. Funziona anche al contrario? Quanto feedback ti davano loro sulle basi? C’era un confronto aperto?
Io non ho mai voluto fare troppo lo scienziato che fa il beat e lo manda e fine, a me piace fare proprio il produttore del gruppo, alla Dr. Dre. Fai la produzione, ti avvali anche di altri musicisti, collaboratori, ma comunque ne segui tutto l’iter, fino alla canzone finita. Il beatmaker fa il compito e lo manda, il mio è un lavoro molto più allargato. Facevo la strumentale all’inizio, poi ci si mettevano le liriche e ci ritrovavamo in studio. Oppure direttamente venivano in studio, sceglievano delle basi e si cominciava a lavorare per esempio su un ritornello, o su che argomento affrontare su quella base. A volte mi è capitato di partire da un loop, fare la scrittura, e poi cambiare la strumentale completamente.
Se non ricordo male c’era un retroscena su “Puro Bogotà”.
Sì, c’era un sample di un gruppo funk che aveva dei brass, una parte proprio di orchestra e di fiati che andava dritta. Un giorno, pensando al fatto che il campionamento forse non potevo usarlo così sportivamente, ho provato a fare questa prova di mandarlo all’incontrario. E funzionava più che tenendolo dritto!)
Per non far sgamare il campione è un grande classico.
Anche la cosa più facile da fare, senza spezzettare troppo.
Basta schiacciare reverse.
Sì. Anche se all’epoca era ancora un po’ uno sbatti. Adesso sì, è reverse. Feci questa cosa e quel beat divenne culto.
Se doveste fare un concerto dei Dogo domani quella non può mancare.
Assolutamente. Io faccio DJ set dove è tipo “Albachiara”, la canta tutta la gente. Anche i più piccoli ormai: è diventata un po’ una cosa che “devi sapere” del rap. Credo sia anche una delle nostre tracce più rappresentative, visto che ci sono anche Marra e Vincenzo.
Lì era proprio piena Dogo Gang: mi ricordo il video girato all’autolavaggio dove adesso c’è la Fondazione Feltrinelli.
Tutti: la posse, con le moto davanti. Piena Dogo Gang. C’è anche la storia del viaggio a Budapest con il carro armato, fa troppo ridere. Avevamo quell’attitudine là, ci piaceva quel mondo.
All’epoca riuscivate ancora a tenere insieme l’essere party animal e avere una dimensione sempre più professionale?
Noi siamo sempre stati dei cazzari e dei clubber, però sulla lavorazione dei dischi siamo sempre stati delle macchine da guerra. Mixtape, dischi… Facevamo uscire un sacco di cose. Anche con i mezzi che avevamo cercavamo di fare tutto per bene. Benvenuti Nella Giungla o Roccia Music sono nati proprio nella soffitta dove abitavo, con le voci fatte a cazzo di cane, però sono rimasti un culto. PMC Vs Club Dogo uguale. Tutti quei dischi lì, nonostante siano stati fatti con l’idea di mixtape, li prendevamo comunque molto seriamente. Ogni dettaglio, i beat, pure gli skit, era tutto pensato. Stavamo attenti a cosa mettere, non c’era niente di fatto a cazzo di cane. E la gente forse se ne è accorta.
Come impatto portavate avanti un discorso molto di strada.
Sì, sia dal punto di vista sonoro che lirico. Il linguaggio era di strada, ma essendo Gué e Jake degli appassionati anche di cinema o libri raccontavano delle situazioni di quel tipo ma con immagini forti. Il sound era forte, diverso da quello che c’era prima. L’unione di queste due cose era la nostra forza e una cosa abbastanza inedita.
I Dogo poi hanno cominciato a parlare di temi che il rap fino a lì non aveva trattato troppo apertamente. Facevate discorsi sulla droga, e non solo le canne, e sono arrivate anche molte critiche.
Sulla droga ci hanno criticato per anni. Non essendo frontman l’attenzione andava più a chi stava al microfono. Quella cosa è stata spiegata mille volte: noi siamo sempre stati dei cronisti, non degli educatori o dei maestri di vita. E comunque non abbiamo mai smesso di farlo: la nostra musica è sempre stata cronaca di quello che succedeva in strada. È subentrato anche l’intrattenimento ma non ci siamo mai lasciati andare solo a quello. Abbiamo sempre parlato anche di corruzione, di politici, di ribellione. Messaggi forti su tutti i fronti.
Il problema poi ce l’hanno i media, non certo i ragazzi. I ragazzi sono sempre stati così, la gente si è sempre drogata a prescindere dal rap. Noi poi non siamo mai stati degli spacciatori, al massimo raccontavamo quello che vedevamo. E lo stesso vale per i rapper di oggi, magari sono cambiate le droghe. I media continueranno a criticare, i ragazzini continueranno a fare quello che vogliono, e gli artisti a raccontarlo. L’unica differenza che c’è adesso è che alcuni si sentono quasi in dovere di fare vedere, per esempio, che si fanno lo sciroppo. Questo a me non piace, però è anche vero che magari sono gente di diciotto o diciannove anni e io lo valuto come una persona che ha il doppio della loro età. Secondo me il discorso più importante è quello dell’educazione che ricevi dalla famiglia. Non certo dai rapper.
All’interno del gruppo, essendo quello un po’ meno esposto e anche un po’ più grande, sei sempre sembrato quello più tranquillo.
Magari il periodo più pazzo l’ho fatto quando questa cosa non era ancora esplosa. E forse è stato un bene, perché ero anche meno esposto mediaticamente. Si vedeva un sacco in Club Privé [il reality sui Dogo andato in onda su MTV nel 2012, nda]: loro tra strip club eccetera, e io studio e famiglia. Io con la vita da party ho dato tra i 17 e i 24 più o meno, poi ho mollato molto. Più avanti ho avuto anche dei problemi di salute piuttosto gravi e ho dovuto lasciare proprio qualsiasi cosa. Meglio così.
Con i Dogo la popolarità cresce sempre di più. Abbiamo citato anche il reality del 2012 su MTV.
Il super boom popolare è stato quello. A livello della signora che al supermercato ti guarda e pensa “questo l’ho già visto”. Una volta che vai in televisione c’è il cambiamento grosso. Perfino per i miei genitori è stato quello il momento in cui si sono accorti che ero diventato famoso. Avevo già fatto anni assolutamente da professionista, però uno come mio padre non aveva mai pensato a me come uno che era diventato famoso. “Sì, sta facendo la musica”, ma neanche si informava, non sapeva niente. Quando ha visto il programma in televisione mi ha chiesto “ma allora sei famoso?”. In realtà se arrivi a fare un reality vuol dire che te l’hanno chiesto, quindi qualcosa devi avere già combinato, non è che hanno fatto un programma TV su dei ragazzini esordienti. Lui pensava che la musica non mi avrebbe mai dato cento lire, invece vivevo già di musica da anni.
E come l’hai gestita questa popolarità? È gestibile o ti rompe i coglioni?
Penso di averla gestita bene. La gente ti fermava e non potevi andare in centro perché se no dovevi farti continuamente foto, però a parte quello ero solo contento. Tendenzialmente il produttore è molto meno esposto, ma io sono stato uno dei primi a mostrarsi tanto: fare i ritornelli, essere sempre presente nei video. Quindi per strada mi percepivano comunque più o meno come un rapper.
So che uno dei vostri album preferiti, a cui siete molto legati, è Dogocrazia. Forse è il disco dei Dogo preferito da Gué.
Sicuramente è anche uno dei miei preferiti. Ha segnato un bel momento, di popolarità e di crescita, ma non so se è il migliore. Il massimo del lavoro dietro a un disco è stato quello per Non siamo più quelli di Mi Fist. A livello proprio di lavoro, di costruzione, di qualità dei brani. Riascoltando Dogocrazia comunque cambierei delle cose, anche se è stato una consacrazione.
I dischi della consacrazione a livello pop e di collaborazioni invece sono probabilmente Che bello essere noi e Noi siamo il club. È anche il periodo in cui il pubblico più storico magari ha cominciato a criticarvi, a dire “sono diventati commerciali”.
Sì, indubbiamente. Noi siamo il club su tutti, grazie a “PES” che ci ha sdoganato ovunque.
Secondo me erano dischi molto avanti, che non sono stati capiti del tutto. Ripenso a quando è uscita “Spacco Tutto”, a anticipare Che bello essere noi: ho pensato “Ok, è forte, è una hit, ma questo non è più rap”. Se invece la riascolto adesso era solo molto avanti. Il rap è diventato molto più simile a quella cosa lì, è ancora un pezzo fresco e potente.
Da quando ho iniziato a vivere di musica, da subito, sono riuscito a fare molti viaggi e a frequentare gli Stati Uniti, dove la percezione della musica è totale: nei club, nei taxi, per strada. Mi piace fare molta ricerca prima di iniziare a lavorare su un disco. Quindi cercavo di trovare dei sound che magari sarebbero arrivati da noi soltanto dopo. Era roba che all’estero si respirava già: un certo tipo di elettronica che si mischiava al rap, il riff elettronico. “Spacco Tutto” riprende un super classico della techno, di cui da giovanissimo ero mega fan. E in America in tanti lo facevano già di riprendere con l’808 il classico della dance o della techno. Quando feci quella base un po’ tutti rimasero spiazzati, “che cazzo è sta roba”.
L’ascoltatore rap che nasce ascoltando i Sangue Misto ancora con una “Puro Bogotà” ci si può relazionare abbastanza tranquillamente, ma con una cosa del genere no, non ce la fa.
Mi ricordo che la barra dei like di YouTube all’inizio era completamente rossa. Ma è successo per vari pezzi nostri all’inizio, sono stati capiti un po’ dopo. “Spacco Tutto” è stato un episodio proprio di totale cambiamento. Anche la ritmica, la parte lenta a 71 bpm… era bello pesante da sopportare. Però poi è stato il la per tutto quello che è arrivato dopo, dalla dubstep alla trap. Ci sono degli episodi del genere anche in Noi siamo il club, tipo “Collassato”, che era trap. Anche “Ragazzo della piazza”. Di tutta quella roba, di quel sound, noi siamo stati un po’ pionieri. In Italia la gente ancora non lo capiva, non lo conosceva.
I tuoi soci su queste cose ti hanno sempre seguito?
Assolutamente. Abbiamo sempre fatto musica con un pizzico di incoscienza. Lì c’è anche un pezzo più electro un po’ alla francese, con la cassa dritta: “La fine del mondo”. Qualche rischio ci è sempre piaciuto prendercelo, non ci siamo mai voluti mettere in coda a quello che già andava forte nel rap in Italia. Ho sempre preso senza problemi una strada un po’… sterrata. Lascia stare “PES”, che alla fine è reggae. Che poi se pensi alle produzioni di Takagi e Ketra… il levare in Italia è una cosa che piace. Ma non ho mai fatto una produzione pensando di fare il pezzo dell’estate. “Mi hanno detto che” è un rifacimento di un classico di Dr. Alban. Ero in viaggio a Praga con Gué, l’abbiamo sentita messa da un DJ a cazzo di cane in un club. “Minchia te la ricordi questa? Era una bomba”. Siam tornati in Italia e l’abbiamo fatta.
Tu hai fatto per tanto tempo anche il DJ nei club, e questa è una dimensione importante. Se io penso a Don Joe oltre a pensare ai Dogo penso anche a “serate hip-hop di Milano”.
Lo faccio ancora, quando posso. È un bel metro di misura, soprattutto per capire cosa piace alla gente. Anche per non perdere un contatto con i più giovani. Per esempio prima ballavano tutti, adesso si balla molto meno e ci si mette di più a fare la ripresa con il telefono, oppure stanno in pista e muovono solo la testa mentre guardano il telefono. Per loro è ballare, quello; mentre per noi era diverso.
Don Joe è stato “solista” sempre fino a un certo punto. I tuoi due album principali fuori dai Dogo, a oggi, sono un disco in collaborazione con Shablo e un sacco di ospiti, e un altro che è quello che guarda più al mondo del pop, che ancora una volta ha un sacco di collaborazioni.
Sì, tutti amici e artisti con cui avevo voglia di lavorare.
Adesso arriverà un nuovo capitolo, visto che è uscita “F.A.K.E.”, con Jake La Furia e Marracash?
In realtà con le esperienze precedenti ho capito che fare un disco da producer è abbastanza difficile in Italia. Magari la nuova generazione fa cose più complete, io ho provato a farlo in un periodo in cui magari non è stato capito molto. Poi se pensi a quello che è successo dopo, tipo DJ Khaled, è andata, però all’epoca… boh. Adesso invece voglio fare delle cose singole, one shot. E poi vediamo cosa succede.
Quindi “F.A.K.E.” non è l’anticipazione di un nuovo album.
No, “F.A.K.E.” è l’inizio di questo lavoro, per cui non mi sono dato una scadenza. Voglio mettere insieme dei pezzi e poi al massimo farne una playlist, tanto ormai oggi con lo streaming va così. Prima dell’estate uscirà un altro episodio, e un altro ancora dopo l’estate. Diciamo che nel giro di un anno sarà compilabile, ma senza grandi pretese e senza dover fare un pezzo al mese. Tanto molte cose che volevo fare ormai le ho fatte, non devo neanche più dimostrare troppo a livello discografico. Ho un lavoro, uno studio da gestire, ho le serate da DJ, sono impegnato e sereno, non ho la para di dover fare il disco.
Che cosa invece dopo una carriera così ricca pensi che ancora ti manchi?
Produrre qualcosa di un po’ più grosso all’estero, e ora è il momento giusto. Penso ai produttori giovani che sono in giro, vanno a Los Angeles, stanno un mese, beccano i rapper della loro età… fare cose di quel tipo oggi è molto più semplice. Quella roba lì magari oggi mi piacerebbe provarla: vai sei mesi negli Stati Uniti e provi a tirar dentro della gente e fare delle cose. In senso molto personale, senza grandi mire espansionistiche. Tirar dentro dei nomi eclatanti: lavorare con Dr. Dre a una traccia, che cazzo ne so, una roba del genere! O avere Jay Z su un pezzo. Sono sogni, però perché no. Se senti le cose che escono oggi non è neanche così impossibile.
Le cose ora stanno succedendo a livello globale molto più in contemporanea di quanto fosse mai successo. Una volta magari in Italia le cose arrivavano dopo, cercando di imitare. Ora Sfera va in studio con Diplo o becca J Balvin.
Noi Dogo siamo stati un po’ gli apripista di tutto questo, spero. Io continuo a fare le mie cose ma ora tocca a loro farla diventare ancora più grossa. Cerco di trovare artisti con cui lavorare per dare un plus rispetto a quello che hanno già. Per dire, uno come Vegas Jones conosce un sacco di musica, non è che non ha cultura. Noi che abbiamo più esperienza magari serviamo a portare le cose oltre anche dal punto di vista più manageriale della faccenda. E faccio ancora produzioni perché sono molto appassionato di musica. Tanti avrebbero anche smesso di farlo per limitarsi a crescere talenti. Solo che mi piace talmente tanto fare musica, e la musica, che ancora proprio non riesco a staccarmi del tutto.
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