I Duster hanno sempre lasciato molto spazio tra le note. Nei cinque anni in cui sono esistiti hanno prodotto musica confortevole, calda come un abbraccio, malinconica e avvolgente come l’affetto di una persona cara. Non hanno mai dato l’impressione di avere fretta di arrivare da qualche parte, né di voler competere con le cosiddette band slowcore con cui sono stati associati negli anni. Ed è per questo che quando nel 2001 annunciarono lo scioglimento, dopo soli due album, tutti sperarono che prima o poi le loro strade potessero rincontrarsi. Forse stavano solo suonando ancora più lentamente del solito, si stavano prendendo del tempo per riflettere, sognare, soffrire.
Lo scorso aprile, dopo 17 anni di silenzio, hanno lanciato un messaggio dal profilo instagram @thisisduster: “ciao. È passato tanto tempo, ma stiamo registrando qualcosa” accompagnato da una foto di strumenti analogici in studio. A 701 utenti piace questo post. Tra i commenti, c’è chi proprio non riesce a trattenere l’entusiasmo “duster vi prego,” e “sono super emozionato all’idea di scoprire quanto siete cresciuti con noi.”
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Nati nel 1996 a San Jose, California, i Duster erano spariti dal 2001. Clay Parton, Canaan Dove Amber e Jason Albertini uscirono di scena proprio nel momento in cui il mondo intero credeva di stare per entrare in un nuovo secolo buio, lasciandosi alle spalle due album, una manciata di EP e un lascito cospicuo di musica leggendaria. Lo-fi e rilassante come non mai, la loro produzione musicale potrebbe essere la perfetta colonna sonora di una sera d’estate, di quelle che passi sdraiato sul letto a guardare il soffitto, perso nei tuoi pensieri, in compagnia di qualcuno che capisca i tuoi sentimenti.
L’indie rock introspettivo è diventato una presenza familiare nella nostra era grazie all’opera di cantautori da Bandcamp come (Sandy) Alex G e Mitski, ma i Duster avevano già delineato le linee-guida che hanno seguito. Sul foglietto di istruzioni del genere si leggerebbe: è vero, siamo tutti soli come cani, e ci sentiamo uno schifo, ma va bene così. Una volta tornati sui social, i Duster hanno annunciato che un’etichetta si sarebbe occupata di ristampare “prima o poi” la loro discografia, fuori produzione ormai da tempo. Oggi, nella loro prima intervista dal lontano 2000, ci dicono che il tutto potrebbe essere pronto per marzo 2019. Proprio quando avevamo perso le speranze e temevamo di non sentirli mai più, ecco che Parton, Amber e Albertini sono pronti per un ritorno in grande stile.
Guru sconosciuti della slowcore da cameretta, band space rock oppure un mix super-effimero a cavallo tra le due cose? La critica non riesce a mettersi d’accordo. Eppure nessuno di questi termini riesce a cogliere nel segno l’intima genialità del gruppo. “Mi va bene tutto, comunque la gente voglia definirci,” dice Amber. “Space rock è fico. Ma quante delle nostre canzoni sono davvero lente? Forse il 20 percento.”
“Ora, sto pensando a come tutto sia ormai andato a puttane,” aggiunge Parton. “A nessuno frega niente dello slowcore.”
Per i non iniziati: lo slowcore non è altro che una sorta di alternative rock più lento, reso celebre da band come Codeine, Low e Bedhead verso la metà degli anni Novanta, e ha tuttora un fedele circolo di appassionati. È un termine abbastanza vago all’interno del quale è stata inserita con una certa superficialità anche la musica sapientemente prodotta dai Duster. Registrata in autonomia con strumentazione analogica in uno studio immaginario ribattezzato Low Earth Orbit (“Non è un luogo fisico, è solo il nome che abbiamo dato al posto dove registriamo,” mi spiega Parton), la produzione artistica dei Duster è strettamente legata alle circostanze.
“Non avevamo soldi e usavamo quello che avevamo a disposizione,” dice Parton. “Alcune delle canzoni le abbiamo registrate su cassette da quattro tracce, e poi su cassette da 16 tracce, quindi c’era una forte limitazione dovuta al mezzo, che oggi con le moderne tecniche di registrazione non esiste più—tutto è editabile e falsificabile, non devi davvero impegnarti o dedicarti a qualcosa in particolare. La stessa cosa vale per me: un vecchio microfono, delle vecchie chitarre, gli stessi amplificatori che ho da sempre. Usiamo ancora le cassette da quattro tracce, non è cambiato granché, solo che ora quelle cassette le dobbiamo comprare su eBay invece che rubarle dal negozietto sotto casa.”
Stratosphere, pubblicato nel febbraio 1998 con le sue 17 tracce, è la consacrazione dei Duster. Dall’incontro tra le sonorità space-rock dei Flying Saucer Attack e i pezzi lenti e strappalacrime dei Codeine nascono chicche come “Topical Solution” e “Constellations”, pezzi da ascoltare mentre guardi le stelle, un po’ fatto, e lasci che le lacrime scendano liberamente fino a non vedere più nulla intorno a te. Con “Echo, Bravo” la mente dell’indie infelice ritorna subito ai My Bloody Valentine e al lato A di Siamese Dream degli Smashing Pumpkins. Lento e profondo, un inno come “Inside Out” ti fa immediatamente venire nostalgia dei vecchi amici e riscoprire la voglia disperata di trovarne di nuovi.
“Ci sento diverse cose dentro che per me sono profonde e intime,” dice Parton. “Il modo in cui i colpi della batteria risuonano contro il parquet in legno della cameretta, il tappeto del salotto che era così folto che la gente ci perdeva i pezzi di erba dentro, il modo in cui inghiottiva l’eco e gli alti. Quei suoni sono familiari per me. Ma allo stesso tempo, sento anche una sofferenza latente e disperata al suo interno.”
“Sofferenza” è la parola giusta. Nonostante il loro calore e il loro ritmo sognante, nei momenti più depressi i Duster (come “Operations” o “Auto-Mobile”, dal loro secondo album Contemporary Movement), i Duster fanno suonare un classico della tristezza come Spiderland degli Slint una festicciola folk rock. Tutto sommato, il 2018 non è poi così male come anno per il loro ritorno. “Ogni mattina parto piuttosto scoraggiato, dato come vanno le cose” spiega Parton. “Voglio dire, non sentivamo di appartenere a questo mondo nemmeno all’epoca, figuriamoci oggi con la situazione terribile in cui ci troviamo, in particolare negli Stati Uniti, tutto è corrotto, distrutto e oscuro.”
In tutti questi anni i membri dei Duster sono rimasti amici e hanno continuato a collaborare. Amber e Albertini si sono trasferiti a Seattle, perché la Bay Area era diventata “troppo cara per viverci”. Parton ha fondato un’etichetta, The Static Cult, per pubblicare la musica del suo progetto Eiafuawn e di quello di Albertini, Helvetia. “Odio vendere cose e spedire cose, quindi l’idea dell’etichetta è stata una pessima idea, io non ero per niente bravo,” dice Parton. “Ma volevo che le persone sentissero le cose di Jason.”
“Io ho suonato la batteria con gli Helvetia, nel primo disco e in alcune date dal vivo,” aggiunge Amber. “Continuamo a fare musica assieme come ai tempi dei Duster, solo che oggi viviamo lontani. Non ci siamo mai davvero sciolti. Io e Jason abbiamo lavorato spesso insieme, mentre io e Clay abbiamo avuto poche occasioni per vederci e collaborare, anzi quasi nessuna. Anche se ci sarebbe piaciuto farlo.” Come suggerisce il loro post su Instagram, i Duster si trovano di nuovo in quella Low Earth Orbit e stanno registrando un nuovo EP. Forse stavano solo aspettando “il momento giusto”?
“Penso che il nostro piano fosse quello di continuare a suonare. È solo che ci abbiamo messo molto più tempo del previsto a riunirci,” dice Parton. “Abbiamo tante cose non finite, stiamo tutti lavorando a progetti nuovi e ci rimandiamo di continuo le canzoni. Tutti e tre cerchiamo di chiudere le canzoni in sospeso e correggere quello che c’è da sistemare nelle altre. Quindi alla fine ci ritroveremo con una piccola lista di canzoni che piacciono a tutti e tre, come è sempre stato.”
“Lo volevamo fare da sempre,” aggiunge Amber. “Ma oggi possiamo passarci i pezzi senza problemi, dieci anni fa non era così semplice. La musica e il lavoro creativo per me sono tutto. Non mi è sempre stato possibile farlo, e ora mi sento un po’ perso. Ma questo è il momento giusto.”
Basta dare un occhio a Discogs per rendersi conto quanto sia richiesta, ancora oggi, la discografia fuori produzione dei Duster. Per fortuna gli appelli disperati di chi voleva possedere fisicamente un disco dei Duster senza svenarsi sono stati ascoltati. “Stiamo mandando ora i pezzi in studio per la ri-masterizzazione,” dice Parton. “Pensavo che uno dei pezzi più introvabili sarebbe andato perso, perché non ne avevo nemmeno io una copia, ma alcuni amici in Italia ce ne hanno portata una. È bello avere amici che ti sostengono da sempre, e allo stesso tempo, vedere che c’è una nuova generazione che è entusiasta della nostra musica. È davvero surreale in questi tempi bui. Alcune delle registrazioni che stiamo riportando in vita sono più vecchie di molti di questi giovani fan. È davvero strano. Comunque, il box conterrà almeno tre LP, se non di più.”
I vecchi dischi dei Duster sono ancora oggi più autentici che mai. Come quando da bambino ti rifugiavi sotto le coperte durante il temporale, o trovavi riparo in un angolino nascosto, i loro brani lenti e malinconici sono un invito a partire per luoghi lontani, anche solo per un breve momento, per esplorare quel posto magico oltre il rumore.
Con il loro ritorno sul nostro pianeta, non ci resta che raggiungere la loro Stratosphere, abbandonare la bussola e come diceva quel commento al loro post Instagram: scoprire quanto sono cresciuti i Duster, insieme a noi.
“Siamo sempre rimasti connessi, come in una sorta di strano voodoo,” dice Parton. “Anche se per mesi non ci parliamo, appena ci ritroviamo è come se il tempo non fosse passato. Ad oggi, abbiamo passato molto più tempo separati che insieme, è una cosa normale ormai. Ma abbiamo un legame forte che ci unisce. Loro sono la mia famiglia.” “Non sono sicuro in quale ordine accadranno le cose,” aggiunge. “Ma noi pubblicheremo un nuovo EP, Numero farà uscire il box, faremo dei concerti dovunque sarà possibile, e poi potremmo continuare a fare la stessa cosa, oppure scomparire per altri vent’anni.”
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Questo articolo è comparso originariamente su Noisey US.