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‘Paranoia Airlines’ di Fedez è tutto sbagliato

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Martedì mattina invece di andare in ufficio sono andato sotto il Duomo di Milano a prendere un autobus che mi avrebbe portato all’aeroporto di Linate. Era lì che Fedez avrebbe presentato Paranoia Airlines, il suo nuovo album. Quando il suo ufficio stampa ci ha invitati sono rimasto un po’ stupito, in positivo: in passato abbiamo pubblicato un sacco di articoli non proprio lusinghieri nei confronti di Fedez e lui recentemente ha postato una story in cui chiedeva a suo figlio Leone di scrivere una news sulla rottura tra Cardi B e Offset su Noisey. “Hai l’età giusta per scrivere su Noisey”, gli diceva. Ci siamo fatti una risata, finita lì.

Arrivato a Linate mi aspettavo di essere caricato su un aereo, e invece sono stato condotto con un gruppone di colleghi in una lounge dove si è tenuta la conferenza stampa. È stato tutto piuttosto normale: Fedez ha parlato dei temi-standard-da-intervista-collettiva (il titolo, le collaborazioni, il tour) e ha risposto alle domande dei presenti, quasi tutte piuttosto prudenti, se non per una collega che gli ha chiesto di giustificare la sua frase su Vittorio Feltri all’interno dell’intervista rilasciata a Vanity Fair. Lui ha risposto dicendo che aveva specificato che non era d’accordo con le sue posizioni. Era quindi, presumo, solo affascinato dalla libertà di poter dire “negro” e “frocio” senza conseguenze.

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Mi attacco a questo per dire che è un casino parlare liberamente di Fedez. Sono giorni che mi metto a scrivere cose, poi le cancello e poi le riscrivo. Il punto è che non è un musicista normale. È una persona la cui vita è finita al centro dello star system di una nazione che ha fatto un nuovo disco. È un presentatore, è un influencer, è un imprenditore. È un sacco di cose, tra cui – ci vuole dire con Paranoia Airlines – una persona che nasconde un sacco di paure dietro alla facciata che mostra al mondo.

A me piacciono un sacco i dischi che raccontano storie tristi, pesanti, assurde, intime. Sono gesti di condivisione e trasparenza, richieste d’aiuto, ammissioni di debolezze. Non mi sarei mai aspettato di scrivere queste parole in un articolo su Fedez, ma penso a cose tipo Benji di Sun Kil Moon, A Crow Looked At Me di Mount Eerie, Hospice degli Antlers. Cose che probabilmente Fedez non ha mai sentito, come anche buona parte di voi che state leggendo, ma per intenderci: dischi brutali nella loro sincerità. Ecco, Paranoia Airlines non è un disco così.

Paranoia Airlines è un disco scostante. C’è dentro un po’ di tutto, vagamente tenuto assieme da un senso di spleen tutto “i soldi e la fama non fanno la felicità, ma meno male che c’è l’amore”. Avete già sentito da qualche parte questa storia? Se sapete l’inglese e amate Kanye West sì, dato che è il concetto dietro a Yeezus. Allora Ye aveva spaccato a martellate la sua splendida, buia fantasia perversa e si era mostrato, nudo, al mondo. E ci aveva infilato dentro ragionamenti brillanti sul razzismo, sulla società, sul ruolo del sesso nella sua vita; il tutto su visionari beat decostruiti. E aveva chiuso la baracca con “Bound 2”, assurdo canto d’amore zarrotenero pieno di speranza e fiducia nel futuro e nell’amore e nel matrimonio. Insomma, aveva fatto un disco con un’idea e una struttura e le aveva realizzate entrambe.

Dato che Fedez mi è venuto in aiuto facendo “Kim & Kanye”, colgo il gancio: in Paranoia Airlines non c’è niente, almeno a livello artistico, di quello che Kanye ha fatto e del modo in cui ha cantato Kim nella sua opera. C’è, invece, tanta confusione. La tenera ballata per il figlio si alterna a un pezzo semi-pop con il featuring internazionale di etichetta. C’è un senso di vago malessere e nostalgia che attraversa buona parte del disco e va a contagiare i giochetti di parole che a Fedez tanto piacciono: “sfregi e difetti”, “siamo fatti l’una per l’alcool”. Alla fine, completamente a caso dopo un’oretta di introspezione, arriva un pezzo grevissimo con la DPG in cui Wayne usa la parola “teletrasporno”.

I testi sono pieni di frasi da self-help book di quelli che si trovano accanto alle casse delle librerie: “Il vero depresso è quello che ha sempre lo stesso sorriso e ti dice che va tutto bene”; “Vorrei essere felice piuttosto che sembrarlo”. Sono davvero pochi i momenti in cui Fedez apre davvero la sua vita privata all’ascoltatore e si avvicina a realizzare i suoi intenti, su tutti quello in cui racconta che gli capita di svegliare Chiara nel pieno della notte perché si sente solo. Per il resto del disco Fedez dice parole vaghe, adatte perché ci si riveda dentro l’enorme pubblico generalista a cui si rivolge.

È questa un po’ la cosa che non mi va giù di Paranoia Airlines: non riesco a considerarlo un album, l’opera d’arte di una persona che ha messo un pezzo di sé in qualcosa di tangibile, così da poter restare su questa Terra anche dopo che la morte l’avrà falcidiato. È anche questo, nei suoi intenti, ma è anche un prodotto che darà lavoro a un sacco di persone, e che quindi è stato fatto come si sono sempre fatti in Italia, cioè in un modo molto “medio” e rassicurante. Fortuna vuole che la sensibilità di Fedez sia perfetta per creare cose del genere: per intenderci, è il tipo di persona che cita genuinamente “Wake Me Up When September Ends” dei Green Day in una canzone.

Ecco, i Green Day: Fedez ci è cresciuto, ha detto alla conferenza stampa a cui sono stato, così come con i blink-182, i Jimmy Eat World e i Propagandhi. Questo lo ha portato a un punto di riferimento del disco, a livello sonoro: quella che i materiali promozionali del disco chiamano “emo trap”. Insieme all’amico Michele Canova Iorfida (lo stesso produttore di Trap Lovers della DPG e di una buona fetta della storia della musica italiana recente), Fedez ha inserito in Paranoia Airlines un bel po’ di chitarrini squillanti e tristi. Ma c’è una bella distanza tra prendere “Adam’s Song” e ficcarci sopra trenta secondi di Trippie Redd e, tipo, essere Greaf.

Il passaggio è un po’ quello che il termine “emo” ha fatto quando, all’inizio degli anni Zero del Duemila, è diventato di uso comune. Prima indicava una comunità di ragazzi che condividevano le proprie paure tra di loro dandosi forza a vicenda, esplorando le possibilità della forma punk verso i suoi confini meno grezzi. Poi è diventato semplici arpeggini, le frange, i servizi del Tg2. Allo stesso modo, c’è emo trap che rispetta le origini della sottocultura che l’ha generata e c’è emo trap che prende e riutilizza i riferimenti più comuni e annacquati della versione mainstream di quella sottocultura. Paranoia Airlines, essendo un prodotto (giustamente) lacerato tra espressione personale e inquadramento commerciale, rientra nel secondo caso.

Tutto questo mi fa porre una domanda: sembro un rosicone, a scrivere tutto questo? Me lo chiedo perché nell’album c’è “Buongiornissimo”, un pezzo vagamente ispirato a “Where Is My Mind?” dei Pixies in cui Fedez mette le mani avanti su qualsiasi critica dicendo che lo stiamo solo invidiando e siamo solo dei babbi con cui non vale la pena discutere. Sarebbe un peccato, perché criticare un prodotto non è facile in un mercato relativamente piccolo come quello italiano. Da queste parti possiamo permetterci di dire quello che realmente crediamo solo di prodotti esteri, tanto – per fare un esempio – Drake mica viene a cercarmi sotto casa se dico che Scorpion è bruttino. Non rischio di inimicarmi persone dell’ambiente e quindi di perdere opportunità lavorative.

E invece Fedez potrebbe benissimo dire che questo pezzo è stato scritto da un hater che non merita manco una mention in una sua Instagram Story. Potrebbe storcere il naso chi lavora con lui, i suoi amici, i suoi collaboratori. Mi auguro che non succeda, perché sono sicuro che Fedez è l’essere umano che vuole raccontare nel disco. Una persona a cui la vita ha riservato enormi sorprese a ogni incrocio. Una persona che ha attraversato il rap, lo spettacolo, il pop, la politica, i media, come ha raccontato Tommaso Naccari su Link, e si è trovato in mezzo a qualcosa di più grande di lui che ogni tanto lo fa sentire piccolo.

Capita a tutti, prima o poi. Capita a me quando mi attaccano nei commenti di Instagram perché esprimo un’opinione su un disco, capita a una magnitudo esponenzialmente più grande a chi ha più seguito di me. Ma se facciamo arte, o cultura, o giornalismo, o spettacolo, accettiamo di partecipare al gioco dell’esposizione che definisce la nostra era. Per sopravvivere al suo interno senza farci male dobbiamo parlare onestamente di come il sistema funziona, sentirci liberi di dire quello che vogliamo senza avere paura delle conseguenze delle nostre opinioni, se esposte in maniera rispettosa. Insomma, non come Vittorio Feltri, che quando dice “negro” e “frocio” fa solo facile razzismo e discriminazione.

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