Quando Future pubblicò Dirty Sprite, a gennaio 2011, era impossibile prevedere quanto il suo modo di rappare avrebbe permeato l’hip-hop tutto. Certo, Nayvadius DeMun Wilburn sapeva di non essere il primo a parlare ampiamente di purple drank nei suoi testi e a tingere la propria figura di viola—lo diceva chiaramente nel ritornello della titletrack, identificando la lean con le tre persone che l’avevano portata, culturalmente parlando, alle masse: Pimp C, DJ Screw, Big Hawk. Ma la sua non era una glorificazione: “La mia troia me lo ricorda sempre, ‘Quella roba ti ucciderà’“, cantava appena dopo. Fin dai suoi inizi, Future cantava un edonismo nero—la stessa tematica che lo avrebbe portato alla fama qualche anno dopo.
Future sembrava essere predestinato al successo. Gucci Mane, cioè colui che tiene le redini del rap di Atlanta e il cui giudizio è fondamentale nel permettere a qualsiasi suo concittadino si avvicini a un microfono di potersi chiamare “rapper famoso”, se lo era messo accanto per un intero mixtape. Dopo i suoi primi tape aveva firmato immediatamente un contratto con A1 Recordings, etichetta di Rocko—un altro rapper di Atlanta che aveva avuto un medio successo mainstream un paio d’anni prima con “Umma Do Me”, ed era quindi in ottimi rapporti con il mondo delle major. Il lancio definitivo di Future verso la stratosfera fu “Tony Montana”, inizialmente inserita nel suo tape True Story e diventata poi singolone di lancio del suo esordio su Epic, Pluto, arrivato nel 2012.
“Tony Montana” era una sorta di libretto delle istruzioni per una hit trap contemporanea. Fascinazione per un personaggio famoso (vedi alle voci “Salvador Dalì”, “Black Beatles”), ripetizione ossessiva di una parola nel ritornello (“CoCo”, “Panda” e compagnia bella), costruzione di un ponte verso il pop tramite un uso esasperato dell’autotune tale da rendere il rappato qualcosa di simile a un cantato. Le stesse caratteristiche erano riscontrabili, in chiave ballata romantica, in “Turn On The Lights“: “Voglio parlare di te al mondo solo per farli ingelosire / Se la vedete prima di me, ditele che mi sarebbe piaciuto incontrarla,” cantava Future, con una voce strozzata resa gloriosa da strati e strati di sintetizzatori luccicanti.
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Il rap di Future aderiva a due approcci complementari alla materia-rap. Uno prendeva i luoghi comuni tematici del G-Rap e li pucciava in una melassa di autotune, facendo suonare parole come “dope” e “bitch” tanto piacevoli all’orecchio come “love” e “baby”; l’altro rovesciava la cazzimma espressiva del trapper spaccino rendendola funzionale a un’espressione da menestrello urbano, innamorato della donna di turno e pronto a farle vivere una vita da sogno. La sua era una classica maschera della commedia del rap, quella del criminale dal cuore tenero: spaccio un sacco, scopo ancor di più, ogni tanto mi innamoro e uso i miei soldoni della droga per prendere jet privati per la stripper per cui sono uscito di testa.
Morale: Future non si era inventato niente—le ballate trap, i pezzoni da strip club, le sfuriate grezze da mixtape, il bragging portato all’esasperazione—ma tutto quello che faceva riverberava con successo a livello mainstream grazie alle spinte dei suoi mentori, alla qualità dei suoi produttori (Mike Will Made-It e Zaytoven su tutti) e alla piacevolezza della sua voce. L’unico problema è che queste qualità non bastano a salvarsi da un’eventuale anonimato. Infatti, dopo Pluto, Future se ne uscì con Honest: un album ancora più mainstream e ambizioso (featuring di Drake, Kanye, André 3000, Pharrell, Pusha T) che però fallì nel suo intento fondamentale, cioè quello di vendere più copie del suo predecessore (217,000 nel 2012 per Pluto, 117,000 nel 2014 per Honest) e aumentare le quotazioni di Future come MC e figura culturalmente rilevante. Per quanto quell’album suonasse indubbiamente bene, il personaggio-Future non aveva nulla di nuovo da dire se non che era—appunto—onesto, che la fama non lo aveva cambiato e che voleva diventare ancora più famoso. Senza l’emotività passivo-aggressiva di Drake, il senso per la controversia di Kanye, la stramberia acida di Lil Wayne, Nayvadius poteva solo cominciare a cadere.
È grazie alla sua caduta rovinosa se Future, oggi, è diventato il primo artista della storia ad avere due primi posti consecutivi negli Stati Uniti con due album diversi in due settimane diverse. Al fallimento commerciale di Honest si unì la disgregazione del suo fidanzamento con Ciara—con cui aveva avuto un figlio, il suo terzo, solo tre mesi prima. Future aveva tentato di presentarsi come un normale rapper famoso, con album a cinque stelle e una famiglia perfetta, ma aveva fallito. Non so quanto sia stata la stampa a creare l’opinione che sto per scrivere, ma il Future post-Honest aveva improvvisamente davvero qualcosa da dire. Fottendosene delle logiche commerciali che aveva cominciato ad adottare, Future produsse tre mixtape nel giro di qualche mese—Monster, Beast Mode e 56 Nights—tutti e tre crudi, violenti e disillusi.
Senza aspettative di vendita da rispettare, Future era tornato alla disillusione dei suoi esordi: l’alcool, gli antidepressivi, il sesso e i soldi non erano più fonte di boria quanto di autocommiserazione. Sembrava, a leggere i suoi testi, di essere di fronte a una persona nell’atto di autodistruggersi, di annullare la propria personalità e la propria arte in un nero vortice di dipendenze. La sua voce era incrostata di fango, ipnotica nel suo essere monocorde e ripetitiva, sola come un cane. “Sto annegando nell’Actavis, è un suicidio,” diceva in “Codeine Crazy”: “Ordiniamo altre bottiglie, scopiamo altre modelle e ce le passiamo“, continuava, per poi paragonare le sue lacrime per Ciara a un rubinetto. Cedendo alle debolezze che solo una paccata di soldi e il fallimento di un amore sanno regalarti, Future era diventato più onesto, e quindi interessante, di quanto avesse mai sostenuto di essere.
Il resto è storia recente. La pubblicazione di DS2, uno dei migliori album trap di sempre, cristallizzazione definitiva del Future-tormentato come leggenda ed enorme successo di vendite; l’alleanza con Drake e l’arrivo di What a Time to Be Alive; infine, una nuova relativa flessione a livello di ispirazione artistica. Purple Reign, EVOL e Project E.T. (Esco Terrestrial), i suoi tre progetti più recenti, continuavano a mungere dalla tetta di DS2 senza però fare niente per raccontare i cambiamenti interni del loro autore. In altre parole: dopo un disco di platino e un successo più clamoroso di quanto chiunque avrebbe potuto prevedere dato il fallimento di Honest, Future aveva di nuovo perso il fascino di artista tormentato. Era diventato quello che aveva sempre voluto essere, cioè un rapper famoso che nessuno poteva mettere più in discussione, ma una volta raggiunto l’obiettivo non poteva continuare a cantare di quanto fosse bello rischiare di uccidersi nel tentativo di arrivarci.
FUTURE e HNDRXX sono due album lenti da digerire—almeno, lo sono stati per me. Inizialmente volevo intitolare questo articolo “La normalizzazione di Future” e parlare di come, raggiunta la vetta, Future aveva deciso di strafare pubblicando quaranta canzoni senza infamia e senza lode in due settimane, e di come avrebbe goduto nel vedere il suo status cementificarsi nonostante l’assenza di una vera ricerca artistica. Almeno, questo mi era sembrato inizialmente. Invece, ascoltando i suoi due nuovi LP, mi sono reso conto che Future, ormai, fa ambient.
Ok, Future non fa davvero ambient—non ha cominciato a usare le strategie oblique, non ha mandato Metro Boomin a lezione da Basinski, non si è convinto che il suo auto-proclamarsi “Nuovo Hendrix” significhi che debba lanciarsi in una ricerca sonora chitarristica alla Fennesz. Ma è ormai così padrone del suo stile che fa sembrare i suoi pezzi la cosa più semplice del mondo, e questa spontaneità si riflette—unita a scelte musicali particolari, poi ci arriviamo—in un’aura pacifica perfetta per stimolare il cervello senza però necessariamente distrarlo. “La musica ambient deve essere tanto ignorabile quanto interessante,” scrisse Brian Eno nelle note di accompagnamento a Music for Airports. E la forza di FUTURE e HNDRXX sta proprio in quell’anfratto tra attenzione e distrazione, tra nervi tesi e rilassati.
Questa qualità non è immediatamente chiara, al primo ascolto di FUTURE: “Rent Money” è un classico banger d’apertura, non strabordante e pieno di punchline epiche come “Thought It Was a Drought” (“I just fucked your bitch in some Gucci flip-flops” è tuttora il verso d’apertura più cazzuto ever, credo) ma resta una più che onesta dimostrazione delle competenze di Future in campo trap. “Zoom”, “Super Trapper”, “POA”, “Poppin’ Tags” seguono questa falsariga, qualificandosi come punti di stimolo dell’attenzione all’interno del continuum sonoro che è l’album. Ma mantengono tutte comunque una certa delicatezza finora assente nell’opera di Future, una sorta di ovatta sonora che avvolge il suo flow. La magniloquenza di Pluto, l’ambizione ostantata di Honest, la genuina urgenza di DS2 e la noia di EVOL sono tutte scomparse in favore di una completa padronanza dello spettro sonoro, una medietà espressiva adatta sia come sottofondo di attività neurali creative come a fare i tamarri coi finestrini abbassati in centro città.
“Mask Off” è uno dei pezzi che meglio esemplificano di quello che sto cercando di dire. Ha una base eterea e minimale, composta da un paio di melodie di flauto di Pan e una linea vocale nebbiosa tratte da “Prison Song” di Tommy Butler; e niente più, se non una classica figura ritmica trap. Sopra, Future non grida né sbraita ma parla, sussurra. Entra nel tessuto sonoro in punta di piedi creando piccoli loop vocali che si infiltrano quietamente nell’orecchio e nel cervello (“Percocets, molly, Percocets / Chase a check, never chase a bitch“). E lo fanno senza però cambiare il vocabolario del loro autore: Future, ormai, può rappare di droga e puttane come se fosse la cosa più normale del mondo—e allora che bisogno c’è di gridare, di fare brutto, di far paura?
Future non è un rapper che cambia flow a ogni occasione, anzi. Uno dei suoi pezzi più celebri, “Where Ya At”, con Drake, va avanti dall’inizio alla fine con la stessa identica figura ritmica. Su FUTURE il suo modus operandi resta identico, ma su produzioni così sottili e ariose il suo flow acquista una qualità quasi ancestrale, mantrica—come, ad esempio, nei costanti “mmm hmm” che costellano le parole di “I’m So Groovy.” Il tessuto sonoro è completamente distaccato dalla crudezza delle parole che sorregge, a tal punto che gli skit ironici inseriti tra un pezzo e l’altro sembrano quasi fuori luogo—quando la polizia entra e si mette a sparare sulla base di “Feds Did a Sweep” sembra quasi che sia partito in contemporanea al brano, per sbaglio, un pezzo di YG.
HNDRXX è qualcosa di diverso—se vogliamo, è il primo album Trap’n’B di Future, una versione matura e relativamente ragionata del criminale dal cuore d’oro di “Turn On the Lights”. La sua qualità cullante rimanda ancora ai discorsi fatti per FUTURE, seppure con maggiore attenzione all’espressività vocale, e con un approccio alla produzione più simile a quello delle parti più quiete e accorate di Honest (“I Won”, “I Be U”). La differenza principale sta nel fatto che, per quanto sia comunque vocalmente maldestro (come fa notare Anthony Fantano nella sua rece lol), Nayvadius sembra avere qualcosa di diverso dal solito da dire. Esce un attimo dal personaggio che si è creato negli ultimi anni e inizia a sembrare relativamente umano, senza comunque dimenticare di menzionare la codeina almeno cinque volte ogni strofa.
Sentire “Fresh Air” come esempio. Ha una base gloriosa che potrebbe tranquillamente evolversi in un pezzo EDM tutto mani al cielo alla Calvin Harris, e invece esplode in una trappata d’autore su cui Future fa la sua migliore imitazione di un vero cantante. Il tutto, tenendo sott’occhio sia il modo in cui batte il suo coràzon che i demoni che ha dentro, creando un messaggio straniante e ambiguo: si passa da “La sabbia ti tocca le dita dei piedi mentre prepari la colazione / Vediamo l’oceano Pacifico dalla finestra del cortile, sei troppo sexy” a “Farò tutto per farti mia” a “Se ho bisogno di respirare / Dimmi, perché devo soffocare?” nel giro di qualche riga, insomma.
Certo, Future non è diventato un menestrello del cuore né si è intenerito. Recita sempre la parte del tizio glaciale per cui le tipe sono solo tacche sulla canna del suo fucile, ma almeno si ferma ogni tanto a riconoscere il loro valore. Ci sono i momenti in cui se ne esce con frasi che fanno storcere il naso, come quando in “My Collection” dice che la sua dipendenza dalla codeina non significa che non possa avere l’affidamento di suo figlio (falso) e conclude il ritornello dicendo tre volte “Se ti scopo anche solo una volta fai parte della mia collezione.” Il risultato è che HNDRXX si qualifica come un album con più luci che ombre, ma comunque altalenante—tra qualche traccia non fondamentale e qualche momento misogino/ignorante di troppo.
Ma ci sono brani che fanno sperare bene per il prossimo Future, canzoni ben scritte e pensate senza traccia di pretenziosità che fanno trasparire un autore felice e ispirato, capace di trovare stimoli artistici anche nella relativa normalità di una vita baciata dal successo—la tripletta finale, nello specifico. “Sorry”, con i suoi sette (sette!) minuti confessionali che fanno pensare ai lunghi flow dei brani conclusivi degli album di Drake; “Solo”, con le sue suppliche di comprensione (“Non voglio deluderti / Vedi come viviamo? / Cercherò di far sì che sia il più semplice possibile“) ma, soprattutto, “Selfish”—la sua collaborazione con Rihanna.
Nonostante il suo titolo, “Selfish” è un brano in cui l’ego è condiviso, e due anime si incontrano in una reciproca ricerca di comprensione e collettiva felicità dopo troppi errori condivisi. “Smettiamola di sentirci soli / Diventiamo una cosa sola,” cantano assieme; “Pensieri vuoti riempiono la stanza“, dice Future, “Respira per me e io respirerò per te“, risponde Riri. Sotto, un pianoforte eccitato decora le loro parole con un flusso di note a metà tra frenesia e controllo; un beat minimale tiene il tempo, regolare come il battito di un cuore rilassato. Viene quasi da paragonarla a “Too Good”, in cui Rihanna era ospite di Drake: lì c’erano tensione, dichiarazioni infantili, boria e chiusura, quanto di più lontano immaginabile dalla tenera connessione che avevano dimostrato di saper creare in “Take Care.” Contro ogni previsione, Future è riuscito a sembrare più umano del suo amico canadese, un tempo re del normie rap.
FUTURE e HNDRXX non sono album perfetti, e men che meno capolavori. Ma presentano due nuovi lati di Future che, probabilmente, gli garantiranno un’ulteriore permanenza nell’Olimpo dell’hip-hop contemporaneo. Dimostrano quanto l’hip-hop possa essere sottile e maldestramente accorato e aumentano la complessità della narrazione personale di Nayvadius Wilburn—un uomo che ama sé stesso e la codeina più di ogni altra cosa, probabilmente, ma ogni tanto è bravo a farcelo dimenticare.
Elia ha Twitter: @elia_alovisi