La vita delle donne trans nelle carceri maschili di Città del Messico

I-D: Come ti sei avvicinata al mondo della fotografia?
Giulia Iacolutti: All’inizio, la fotografia era un feticcio per me: trovavo appassionante giocare con la composizione, cercando di conferire alle immagini il potere della memoria, registrando sensazioni private che non ero disposta a dimenticare e che volevo condividere. Più avanti ho unito la passione per la documentazione a quella per le arti teatrali, iscrivendomi al corso per fotografi di scena all’Accademia del Teatro alla Scala dove ho imparato a percepire ogni scena del quotidiano come l’atto di una lunga opera lirica: come i sentimenti sono amplificabili dall’emissione vocale, così le storie devono essere tradotte in fotografia.

Viaggi e ti documenti moltissimo. Sei italiana e hai vissuto in Messico. Cosa lega questi due paesi, dal tuo punto di vista? E cosa li rende invece mondi agli antipodi?
A legarli c’è il volo diretto Roma-Città del Messico, ci sono i turisti a Cancun e intense relazioni economiche e commerciali. Ciò che li rende mondi agli antipodi, invece, sono un oceano e un lungo processo di decolonizzazione, cioè di riappropriazione identitaria che il Messico affronta su base quotidiana, come tutte le ex colonie. Eppure sono molti gli europei che desiderano viverci, perché, sebbene la violenza sia normalizzata, è un paese che cerca di emergere, dove il desiderio di crescita è tangibile e permette di osare. A differenza dell’Italia, che si sente parte del primo mondo e che in realtà ancora non riesce a rialzarsi dalla crisi, in Messico è ancora permesso credere nella costruzione e nel futuro.

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