Oltre ad avere uno dei nomi più belli che io abbia mai sentito, Melvin Van Peebles ha provato e ha avuto successo in praticamente tutte le tipologie di arte che vi possono venire in mente. È un romanziere, giornalista, pittore, regista, drammaturgo, attore, musicista… ha fatto anche il trader alla borsa di Wall Street. Mette un po’ in soggezione scriverne, molto meno incontrarlo, perché qualunque sia il tuo obiettivo nella vita, lui lo ha già raggiunto, e meglio di come tu possa farlo… in effetti è una cosa un po’ fastidiosa.
È il padre del genere blacksploitation, e in generale dei film indipendenti. Sweet Sweetback’s Baadasssss Song, il suo film del 1971, non solo ha spianato la strada per il cinema afroamericano, ma ha anche spazzato via tutti i record fatti dai film indipendenti dell’epoca. Sweetback è anche fottutamente spaventoso, e uscì nelle sale con il marchio “X”, ovvero vietato ai minori. Visto l’atteggiamento “fanculo i bianchi” del film, le Pantere Nere hanno chiesto a tutti i membri di guardarlo.
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Abbiamo incontrato Van Peebles sabato scorso nel suo appartamento. Dopo essere passati davanti al simpatico portiere, siamo saliti al nono piano e abbiamo bussato alla sua porta e lui ha sfoggiato la sua classica risposta “No ingles” con un perfetto accento spagnolo. Van Peebles ha aperto la porta ridendo come un pazzo e ci ha fatti entrare. Dopo aver dato un’occhiata al museo di stranezze che è casa sua, abbiamo parlato un po’ della sua vita e dei suoi primi lavori
Vice: Buongiorno, Signor Van Peeble, possiamo cominciare dall’inizio? Da dove viene?
MVP: Ho iniziato lavorando per mio padre. Vengo da un super ghetto, cioé, sono della zona sud di Chicago—non facciamo confusione. Mio padre aveva una bottega, faceva il sarto, e ho iniziato a lavorare con lui quando avevo 10 anni. Mi occupavo dei soldi e altre cose. Stavo in piedi su delle casse di legno della Coca-Cola, così riuscivo ad arrivare al registratore di cassa. In pratica ero la mascotte di tutti quelli che lavoravano lì. Questo era quello che facevo tutti i pomeriggi dopo scuola ed è lì che ho imparato il business. Non me ne rendevo conto ai tempi, ma devo dire di non aver avuto una vera infanzia, perché stavo sempre a lavorare nel negozio.
Però hai finito la scuola, giusto?
Sì, sono andato in un liceo di bianchi in città e ho fatto le elementari in periferia, quindi è come se avessi vissuto due vite. Dopo la scuola prendevo il treno e andavo a lavorare. Sabato e domenica lavoravo tutto il giorno, e parlavo due lingue. Da una parte parlavo forbito, dall’altra “Oh, stronzo, non mi hai pagato”. Non sono mai stato al ballo di fine anno e non ho mai visto una partita di baseball o di basket, lavoravo sempre. Ma mi andava bene, perché ho imparato a intrallazzare. Ho finito le elementari a 10 anni, ma mi hanno trattenuto per altri due. Poi ho finito le superiori quando ne avevo 16 e il college a 20. Ho avuto una borsa di studio in arte, ma avevo bisogno di qualche soldo in più. Qualcuno mi aveva parlato di un corso in cui venivi pagato per seguire le lezioni—si chiamava ROTC. Non sapevo che cazzo fosse…ma alla fine l’ho scoperto, ahah!
Quindi è così che sei entrato in contatto con l’esercito?
Sì, due settimane dopo la fine del college—pensavo di risparmiare per fare un viaggio in Europa—stronzate! Ero nell’aeronautica. Guidai aerei per circa tre anni ed ero responsabile della navigazione per questa semi segreta bomba su cui stava lavorando l’esercito. Volavo in giro con una cazzo di bomba atomica! Era il periodo della prima ondata di soldati afroamericani.
Dopo il militare ti sei trasferito a San Francisco?
Be’, quando ho lasciato l’aeronautica sono andato al confine più vicino, ovvero in Messico. Mario, il mio figlio più grande, è nato mentre vivevo in Messico. Quando ho deciso di tornare, le cose in America si erano calmate, e la città migliore che conoscevo in quel momento era San Francisco. Ho trovato lavoro come tranviere. La maggior parte dei tranvieri hanno mani molto grandi, io invece le avevo molto sottili, dovevo indossare un doppio paio di guanti.
Come è nato The Big Heart?
Mi sono reso conto che potevo scrivere un articolo sul mio lavoro. Poi ho capito che l’articolo poteva diventare un libro, e quando ho detto a mia moglie “Scriverò questo libro,” lei ha risposto, “Sì, certo.” Molto incoraggiante. Allora ho scritto il libro e l’ho venduto insieme a delle foto.
E quel libro è stato una specie di passaggio verso la tua carriera di regista.
Sì, un giorno un tizio salì sul tram chiedendo di Melvin Van Peebles. Qualcuno mi indicò e questo disse, “No, no, sto cercando quello che ha scritto il libro.” E il signore, che mi conosceva, rispose, “No, è lui.” Allora il tizio si avvicinò e mi parlò tutto entusiasta del libro, dicendo che sembrava un film. “Cazzo, ne farò un film” ho pensato. Così ho iniziato a interessarmi al cinema.
Così facile?
Sì, chiamai un amico che conosceva qualcosa di cinema e gli dissi che avevo una telecamera e che volevo fare un film. Lui disse “Lo fai in 16 o 35?” Dissi, “Che vuol dire?” Allora mi disse “16 o 35 millimetri?” E io “Oh, e che vuol dire?” Non ne sapevo un cazzo. Ma perseverai e dopo aver finito la prima parte del film, l’ho mostra al mio amico che disse, “Questo non è ancora un film, devi editalo.” E io dissi “Che vuol dire?” Mi mostrò come si mettono insieme due pezzi di pellicola e quella fu la mia scuola di cinema. Imparai da solo il resto.
Hai composto anche molte delle musiche per i tuoi film, vero?
Fu un caso, il tizio che doveva preparare le musiche continuava a dire “Ehi bello, te le faccio io le musiche,” ma non si fece mai vedere. Allora scrissi le musiche da solo. Non sapevo né leggere, né scrivere la musica, ma sapevo contare, allora ho messo un numero su ogni tasto del pianoforte. Così iniziai a scrivere le musiche e lo faccio tuttora…Scrivo i numeri che corrispondono ai tasti. Io faccio così. Cazzo, funziona!
Ha senso.
In quel periodo persi il lavoro di tranviere perché il tipo pensava che i negri non dovessero leggere, figuriamoci scrivere, allora mi cacciò. Lavoravo benissimo, mai un ritardo, ma mi licenziarono comunque. Allora sono andato a Hollywood con i miei film e mi cacciarono via a pedate. Decisi di tornare al mio secondo amore – la matematica. Avevo una borsa di studio da veterano di guerra, così decisi di scrivere agli olandesi per dirgli che avrei voluto fare il dottorato là. Dissi che dovevo solo ripassare un po’ la lingua. Quando si dice “ripassare” si intende che si conosce la lingua, io non conoscevo neanche una parola. Dovevo prendere la nave a New York per poter andare in Olanda, e a New York c’era un ragazzo che raccoglieva film d’avanguardia e li proiettava negli auditorium. Molti film erano stronzate con i puntini e cose del genere, ma io volevo mostrare delle storie. Alla fine ha comprato i miei film, all’epoca non ci feci granché caso, ma poi quando stavo in Olanda mi arrivò una lettera dalla Cinémateque Française in cui dicevano che gli erano piaciuti i miei film e pensavano fossi un genio. Ecco, finalmente qualcuno mi aveva capito. Mi invitarono a Parigi e io ci andai in autostop.
Come mai ai francesi piacevano i tuoi primi lavori?
Il francesi mi amavano. Erano gentili e proiettarono tutti i miei film e tutti mi dicevano che ero un genio. Dopo la prima proiezione si illuminarono gli Champs Elysees e tutta la gente presente e il direttore del museo mi dissero che il film era stupendo e che dovevo lavorare nel cinema. E poi tutti salirono in macchina e se ne andarono.
Ti hanno lasciato lì?
Me ne stavo in piedi in mezzo ai cazzo di Champs Elysees senza sapere una parola di francese e senza un soldo. Avevo tre rulli di pellicola, le guance umidicce per tutti i baci e basta, che cazzo di roba. Quindi sì, mi mollarono lì, ma mi diedero la cosa più pericolosa di tutte: la speranza. Così divenni un mendicante. Chiesi l’elemosina per strada per anni. Cantavo e chiedevo l’elemosina. Ricordo che le mie canzoni migliori erano “La Bomba” e “Take This Hammer”, quelle avevano sempre successo.
Un attimo, questo è successo dopo aver mostrato i film e dopo tutti i complimenti, e tu stavi ancora lì a chiedere l’elemosina?
Certo. Là non è come in America. Qui, se qualcuno ti invita, ti dà anche da mangiare. Là col cazzo, ti dicono “Sei un grande,” e se ne vanno.
Che stronzata.
Sì, ma sono andato avanti. Per fortuna una sera mi ritrovai a camminare per strada, lo ricordo benissimo, stavo nella zona sud di Parigi, e vidi un giornale e pensai che quella storia era una stronzata. Cazzo, avevo imparato a leggere in francese senza rendermene conto! Era una storia su un omicidio. Andai da quelli del giornale e dissi che quella storia dell’omicidio era una stronzata. L’editor mi disse di seguire la vicenda e che mi avrebbe preso come reporter per il caso. Dopo mi resi conto che l’unica ragione per cui mi disse di seguire la cosa era perché era agosto, e ad agosto tutti vanno via per le vacanze. Accettai e seguii la vicenda e venne fuori un grosso scoop. Scoprii una cosa che cambiò l’intero corso delle indagini. Alla fine diventai un reporter di cronaca nera.
Qual era lo scoop? Cosa hai scoperto?
Era un omicidio fatto in un posto che si chiama Everette. Qualcuno aveva ucciso un ragazzo e sembrava una cosa buffa, sai quando dicono di aver visto qualcuno saltare già dalla metropolitana o qualcosa del genere—sì, certo. Quindi, ero un giornalista francese e dopo un po’ divenni l’editor di una rivista umoristica. Intanto continuavo a scrivere romanzi, e fu in quel periodo che cominciai a venderne. Poi scoprii che gli scrittori francesi potevano avere la tessera da regista. Figo!
Cos’è la tessera da regista?
Con la tessera da regista puoi girare film, è come entrare a far parte di un ordine.
Il governo francese però non offre fondi per il cinema, giusto?
Se hai la tessera puoi chiederli. Quindi feci questa tessera e iniziai a chiedere finanziamenti.
Come era la legge? Come ci si può definire scrittori, devi aver pubblicato un certo numero di romanzi?
Non c’era una definizione precisa. Andai in un posto per iscrivermi all’ordine. Dissi a un tizio “Sono qui per la mia tessera da regista.” e quello mi rispose “Tessera da regista?” Gli spiegai che c’era una legge francese che diceva che gli scrittori francesi potevano fare la tessera da regista. Gli mostrai i miei romanzi e gli dissi che scrivevo in francese. All’inizio non disse nulla, e cazzo, quelli furono i dieci secondi più lunghi della mia vita. Alla fine disse “Ok, certo” e mi diede la tessera.
Wow, quindi da quel momento potevi chiedere fondi al governo?
Be’, mi misi a scrivere un film che potesse piacere ai francesi e il governo mi diede un sussidio parziale. Però mi permise di mettere da parte i soldi per girare il mio primo film. E ancora, colpo di fortuna. Ero a una festa e c’era un ragazzo di colore alto e ben vestito. Qualcuno me lo presentò. Era molto gentile, affabile e mi chiese che lavoro facevo. Gli dissi che ero uno scrittore e stavo per iniziare le riprese di un film. Scoprii che era il curatore del San Francisco Film Festival. Mi disse che era lì per scovare nuovi film e io ero tipo, “YO!” Mi chiese se il mio film sarebbe stato pronto per il festival e gli dissi di sì.
Tutto questo prima di vedere il film?
Esatto. Ma diceva a tutti di aver trovato un bellissimo film, mentiva. Quindi tutti i miei amici disadattati, le battone e tutti gli altri, tirammo fuori tutti i soldi che avevamo per questo film, insieme a un biglietto aereo per me. Andai al festival e vinsi. Poi quelli di Hollywood mi mandarono un aereo per andare da loro, tutti gli studios volevano parlare con me.
Il film in questione era The story of a Three Day Pass, giusto?
Sì. Tutti gli studios volevano lavorare con me perché Hollywood non poteva lasciarsi scappare questo regista nero americano che faceva film francesi. Ma io rifiutai, perché mi sembrava che se avessi accettato nessuna altra minoranza avrebbe avuto una possibilità. Sarei diventato il genio del posto. Pensavo che se rifiutandomi, sarebbe subito scattata la ricerca per la Grande Speranza Nera. E comunque ero ancora senza soldi. Dormivo su una panchina vicino al Woodward Line Theater.
Three Day Pass sembra un film fatto per essere molto controverso. C’è una storia d’amore fra un afroamericano e una ragazza bianca. Come è stato accolto?
In Francia lo adoravano perché credevano che mostrasse quanto sono liberali e aperti, ma è una stronzata. Quando arrivai in Francia la polizia mi fermava in continuazione, la gente mi puntava la pistola in faccia neanche fossi nel Mississippi, poi vedevano i documenti e mi dicevano “Ah, sei un americano, benvenuto nella terra della fratellanza, blablablabla.”
Quando hai deciso di tornare negli USA?
Fu Hollywood a prendersi cura di me, ero il loro pupillo. Dissi che sarei tornato definitivamente solo per girare un film a Hollywood, perché era il passo successivo che volevo fare, girare un film dove ci sono i sindacati migliori eccetera. Accettarono, e fu così che girai Watermelon Man. Come immaginavo, quel film cambiò tutto un’altra volta. A quel punto dissi, Ok, voglio giocarmi la prossima carta, farò un film che voglio fare, come lo voglio fare, e quel film era Sweetback.
Sweetback è non solo una pietra miliare del cinema indipendente afroamericano—ma del cinema indipendente in generale.
Sì, ha battuto qualunque record d’incasso, è stato il più grande film indipendente di quei tempi. In pratica, sono il nonno di The Blair Witch Project, e di altri film. Ma ci fu un prezzo da pagare. Non riuscii più ad avere un partner da allora. Avevo un contratto per tre film con la Columbia, ma mi dissero che il contratto era rotto.
A causa di Sweetback?
Sì.
Che merda.
Già.
Sei ancora nella lista nera?
Sì. Vedi, promisi alla gente due cose per una. Che sarebbero stati dei liberali aiutandomi e che il mio fallimento avrebbe avallato le loro tesi sui neri. Be’, tutti si incazzarono quando il film non fu un fiasco. Così ho deciso di fare altro. Visto che era troppo difficile il processo di realizzazione dei film, mi buttai su Broadway. Lì decisi di fare Ain’t Supposed to Die. Perché riuscivo a gestirlo. C’era un solo teatro, un posto in cui riuscivo a lavorare. Succedevano un sacco di cose divertenti. Facevo anche il buttafuori, e facevo questa faccia [fa una faccia cattiva], e dicevo “Non cercare di fottermi”. Ahaha, faceva troppo ridere! Non cercare di fottermi. Faceva bene alla salute.
Hai fatto Sweetback senza l’appoggio di produttori. Come hai fatto a distribuirlo?
Be’, ho assunto un ragazzo bianco e gli ho chiesto di fare il boss.
Immagino che i proprietari dei cinema, soprattutto quelli bianchi, fossero esitanti a mostrare un film come Sweetback. Dove lo si poteva vedere?
Oh sì, solo due cinema lo hanno proiettato negli Stati Uniti—due cinema. Alla fine però è andato così bene che volevano proiettarlo tutti.
Jared (assistente di Van Peebles): Io l’ho visto a Dayton, Ohio, al drive-in. Ai tempi era la cosa migliore da fare nel fine settimana per andare via dalla ressa, e mi ricordo che quando vidi Sweetback le ragazze erano indispettite, dicevano tipo “Ehi, noi siamo qui dietro ad aspettarvi” e noi “No, no, guardate questo film!”
MVP: All’anteprima c’era una quantità incredibile di gente. È stata una figata. Le prime proiezioni erano mercoledì a Detroit e venerdì ad Atlanta. Quando sono arrivato ad Atlanta dissi al tipo del cinema di stare tranquillo che la gente sarebbe arrivata. Mi rispose che la sala era già piena. Trovai un posto a sedere e quello è stato decisamente uno dei momenti più interessanti della mia vita. Dietro di me era seduta una anziana signora di colore, e quando Sweetback era nel deserto diceva, “Oh Signore, lascialo morire. Non fare che siano gli altri ad ucciderlo.” Ai tempi, in tutti i film qualunque minoranza moriva entro la fine del film. Fanculo. Nessuno riusciva a credere che lui sarebbe sopravvissuto.
Comunque resta assurdo il comportamento dei distributori nei tuoi confronti. Certo, il protagonista era un nero che uccideva poliziotti bianchi, ma pensavo che un tale successo finanziario avrebbe convinto i distributori a spingere i tuoi lavori.
Affatto. Don’t play us Cheap, il mio secondo show a Broadway non doveva essere uno show, ma dopo averlo girato come film nessuno voleva distribuirlo.
The Story of a Three Day Pass trattava temi razziali, ma in modo subdolo. Sweetback è decisamente più esplicito. Come mai hai deciso di fare così? Eri più incazzato per tutto quello che stava succedendo in quel periodo?
Be’, per The Story of a Three Day Pass avevo bisogno di sovvenzioni.
Quindi dovevi compiacere i francesi?
Sì, era un film fatto per fare colpo sui francesi. Dovevo far vedere che posto meraviglioso era la Francia.
Giusto.
Quando girai la prima scena di Sweetback volevo che il sindacato pensasse che stessi girando un porno. Poi, per la scena successiva andai in un quartiere malfamato, dove nessuno avrebbe voluto raggiungermi. E il resto lo girai nel deserto, così nessuno poteva sapere dove cazzo fossi.
Ahaha. Volevo chiederti proprio della scena di apertura. Oscena è quasi un complimento per una scena di un bambino che seppellisce una donna adulta. Quanti anni aveva quel bambino?
Era mio figlio Mario, aveva circa 12 anni. Non voleva che i suoi compagni di classe vedessero quella scena. Gli dissi di non preoccuparsi e di fare quello che gli dicevo. Adesso, ogni volta che esce con una tipa le dice, “Ehi tesoro, ti faccio vedere un film…”
Quali sono state le conseguenze dirette di Sweetback? Ho letto che hai ricevuto delle minacce di morte.
Sì, ne ricevetti tante. La più pericolosa arrivò da un’associazione di afroamericani, perché loro avevano deciso come fare la rivoluzione, e dal nulla arrivai io a farla senza di loro. Dicevano “Conquisteremo il mondo così, conquisteremo il mondo cosà.” Conquistate il mondo e basta! Fu abbastanza divertente.
Le Pantere Nere fecero vedere il film a tutti gli affiliati. Questa è davvero una figata.
Cazzo sì, grandioso. È anche grazie a loro che molta gente andò a vedere il film.
Però avevi anche scritto “Free Huey” nella copertina del tuo primo album, Br’er Soul.
Ahah, sì, la gente pensava intendessi “Free? Huh, no way”, in realtà parlavo di Huey Newton e del fatto che fosse ancora in prigione. Nessuno lo aveva capito. Le Pantere si offrirono di farmi da guardie del corpo. Comunque venne da me la richiesta di far vedere Sweetback a tutti gli affiliati.
Ti sentivi invincibile, tipo “Nessuno può mettermelo nel culo ora”?
No, potevano provarci a mettermelo nel culo, ma li avrei trascinati giù con me. Non avevo un cazzo da perdere. Se mi mettevano all’angolo, io combattevo. Non bisogna passare la vita a buttare giù merda. Una volta proiettarono il film a Boston, un ragazzo che l’aveva visto anche a Detroit mi chiamò dicendo “Ehi, perché hai tagliato dei pezzi del film per proiettarlo a Boston?” Non ne sapevo un cazzo. Andai dal responsabile della sala e gli dissi, “Pezzo di merda, se non rimetti subito tutti i pezzi al mio film originale ti faccio saltare il cervello.” Mi disse che non gli piacevano certe scena, ma chi cazzo se ne frega di quello che gli piace?
Parlando con te si capisce che c’è molto di Sweetback nel tuo carattere, però tu sei molto più chiacchierone. Perché Sweetback sta sempre zitto? Come mai ha così poche battute?
Bella domanda. Un giorno stavo camminando vicino a un negozio ad angolo e dei tizi mi guardarono e iniziarono a gridare “OOOOHRRHHGGFF”. Dissi “Oh, cazzo,” non sapevo cosa volessero, scoprii che erano sordomuti a cui era piaciuto il film perché riuscivano a capirlo senza sforzi. E poi la gente parla troppo, dicono “Oh, lo sai che stai andando contro i miei diritti di cittadino americano?” No, cazzone, cerchi di fottermi e impari la cazzo di lezione. Ti faccio saltare quella cazzo di testa, punto. Non doveva parlare, non aveva bisogno di una Bibbia, ma di un mattone. E poi volevo che il pubblico gli leggesse la mente, più che sentirlo parlare.
È vero, si riesce a capire cosa pensa dalla sua espressione. Come quando ci sono i poliziotti che picchiano l’altro ragazzo e lui impazzisce.
Non dice “Oh, guarda come veniamo trattate noi persone di colore!” Una volta ero in un bar e una ragazza ha iniziato a fissarmi. Dai, non c’è bisogno di parole, ahah, sai cosa sto pensando, io so cosa pensi tu, pensiamo la stessa cosa. Facciamolo.
Con me non funziona mai.
Devi farlo con una intenzione vera. È bello quando sei in un cazzo di paese straniero e puoi passare oltre tutta la stronzata del chiacchierare. Io non posso parlarti e tu non puoi parlare con me, allora che cosa riesci a capire? Forza bella, diamoci dentro.
INTERVISTA DI JONATHAN SMITH
FOTO DI BRAYDEN OLSON