Negli ultimi tempi a chiunque sarà capitato di imbattersi nella frase “la sinistra riparta da,” spesso e volentieri accostata a nomi e circostanze più o meno improbabili. Dietro l’ironia, però, c’è effettivamente una grossa mancanza: nel mondo reale, la sinistra non è in grado di ripartire da niente.
Questo è particolarmente evidente se si pensa alle prossime elezioni europee, che si terranno a maggio. Non è un mistero che la destra populista e radicale aspiri a conquistare un’influenza decisiva a livello continentale per indebolire ulteriormente l’Unione Europea—e i tentativi politici convergono tutti in quella direzione.
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Di fronte a una situazione così grave e minacciosa, la sinistra appare imbambolata e frammentata. In Italia, poi, il caos sembra totale: il Partito Democratico è alle prese con un complicato congresso, mentre altrove qualcosa si sta muovendo—ma lo spettro del fallimento dell’Altra Europa con Tsipras è sempre lì a trascinare le sue catene.
La scorsa settimana l’europarlamentare di Possibile Elly Schlein—indicata come uno dei nomi emergenti della sinistra italiana, nonché una delle poche politiche in grado di mettere in difficoltà i leghisti sull’immigrazione—ha messo sul suo sito una riflessione che è circolata parecchio, scrivendo che “a quattro mesi da un voto cruciale ancora non c’è in campo il progetto di alternativa di cui in tanti sentiamo il bisogno.”
Sintetizzando ancora di più: se la sinistra non si dà una grossa svegliata, rischia di diventare ancora più marginale. E visto che quello di maggio sarà un bivio fondamentale, ho fatto una lunga chiacchierata al telefono con Schlein.
VICE: Sappiamo tutti che la sinistra italiana ed europea non arriva in gran forma alle prossime europee. Ma come siamo arrivati a questo punto, secondo te?
Elly Schlein: Non siamo stati in grado di dare una risposta alla questione cruciale dei nostri tempi: quella delle diseguaglianze, che sono aumentate vorticosamente. A questo si è aggiunta la totale incapacità di chi ha governato l’Europa di trovare quella visione comune che avrebbe permesso di dare risposte a sfide che sono chiaramente europee e globali.
La crisi politica ed economica europea ha invece alimentato quegli egoismi nazionali che hanno impedito ai governi di dare risposte condivise a sofferenze condivise tra le nostre società, e una parte della sinistra è percepita come corresponsabile degli errori fatti. Paradossalmente si è pure creata una sorta di “internazionale dei nazionalisti” che avanza in tanti paesi europei con la stessa retorica di odio e di muri, rafforzandosi a vicenda. Anche se, portata agli estremi, li mette chiaramente in contraddizione: gli uni contro gli altri, dalle parti opposte dei muri che vogliono costruire.
Però, ecco, non è che noi ci siamo svegliati un giorno ed erano tornati i nazionalisti e i fascisti; il problema è proprio l’inverso. Ci sono delle chiare responsabilità politiche, le scelte di chi ha governato l’Europa e l’Italia in questi anni hanno aumentato le diseguaglianze e creato terreno fertile per l’avanzata dei nazionalisti, che hanno offerto un facile capro espiatorio per tutti i mali delle società: i migranti.
A me colpisce molto che siano sempre pronti a puntare il dito verso il basso, e mai una volta che puntino il dito verso l’alto—come ad esempio verso le multinazionali che eludono il fisco ogni anno in Europa per circa mille miliardi di euro stimati. È questo che si dovrebbe fare: costruire un fronte progressista ed ecologista insieme, a livello europeo e italiano, che sia alternativo tanto all’establishment quanto ai nazionalisti, e che si rafforzi sulle battaglie che già condividiamo.
A questo proposito, una delle cose su cui fanno più leva Lega e M5S è che “l’Europa ci ha lasciati soli” o ci rema contro —soprattutto sull’immigrazione, ma anche su altro. Visto che te ne sei occupata, è davvero così?
Si tratta di un giochino molto facile, ma vanno chiarite bene le responsabilità. È vero che in questi anni sei stati membri su 28 hanno affrontato da soli l’80 percento delle richieste d’asilo arrivate in tutta l’UE; ma la domanda vera non è solo: dov’è l’Europa di fronte alla tragedia costante del Mediterraneo? Piuttosto: dove sono quegli altri 22 governi? Perché è lì, al Consiglio dove siedono i governi, che si bloccano riforme che il Parlamento Europeo—che pure è “Europa”—sta chiedendo a larghissima maggioranza.
Come la riforma del Regolamento di Dublino, approvata nel novembre del 2017 in una votazione storica (e ora ferma al Consiglio). In quel caso, i due terzi del Parlamento hanno chiesto di cancellare quel criterio ipocrita del primo paese d’accesso—che ha lasciato le maggiori responsabilità dell’accoglienza ai paesi sui confini caldi dell’Unione—e sostituirlo con un meccanismo obbligatorio di ricollocamento in tutti i paesi UE, che valorizzi anche i legami di queste persone.
Di questa Europa non si parla mai abbastanza. Ma è lì che si fa la battaglia per la solidarietà; ed è a quei tavoli che si cambiano le norme ingiuste che hanno prodotto questa situazione.
La narrazione di Lega e Cinque Stelle è comunque molto ipocrita, e i leghisti ancora mi devono spiegare perché per 22 riunioni sulla riforma del regolamento, essendo così interessati all’immigrazione, non si sono mai fatti vedere. E anche perché si lamentano sui mancati ricollocamenti, quando in aula hanno votato contro i ricollocamenti dall’Italia e dalla Grecia verso gli altri paesi europei per non scontentare i loro alleati politici come Orban.
Ti faccio una domanda un po’ più generale. Entrambe le forze politiche al governo in Italia sono più o meno anti-europeiste, e l’UE non gode di grande salute presso l’opinione pubblica. Da europarlamentare, quali sono per te le cause di questa distanza?
Quella principale è che l’UE è stata finora una promessa mancata. C’è anche da dire che i governi sono stati molti abili a “nazionalizzare” i successi ottenuti dall’Unione Europea, e a puntare il dito sempre e comunque contro l’UE per ogni male e ogni problema.
L’Unione è raccontata soprattutto come un’entità brutta e cattiva che impone e basta, e dunque la percezione delle persone sarà di un qualcosa che fissa qualche parametro di bilancio che strozza i nostri comuni e mette in difficoltà i cittadini.
Eppure, la retorica dei grigi eurocrati senza volto che decidono sulle nostre teste è del tutto funzionale a chi vuole che nulla cambi: ogni scelta presa a Bruxelles è passa invece da istituzioni in cui siedono rappresentanti dei 28 stati. La vera debolezza è che in un’Europa a trazione così intergovernativa, prevale la legge del più forte, e in questi anni hanno vinto i falchi dell’austerità. Le scelte di gestione della crisi sono il frutto preciso e avvelenato degli equilibri politici attuali tra governi.
Ma è stato fatto molto di buono, di cui si sa poco. Le politiche ambientali dell’UE hanno fissato degli standard invidiabili nel resto del mondo dal punto di vista dell’efficientamento energetico, della salute delle persone, del passaggio alle rinnovabili, della riduzione delle emissioni di Co2. Per le nostre generazioni, inoltre, ha voluto dire non avere più confini per viaggiare, poter studiare all’estero con l’aiuto dell’Unione, avere fondi europei per creare opportunità per imprese e cittadini.
Restando nel dibattito italiano, ultimamente si fa un gran parlare di “europeisti contro antieuropeisti”—cioè di due fronti contrapposti che si sfideranno all’ultimo sangue il prossimo maggio. È una lettura che ti convince?
Assolutamente no. È fuorviante: sarebbe troppo semplice nascondersi tra gli “europeisti” anche per coloro che hanno le precise responsabilità politiche—soprattutto sulle politiche economiche e sociali disastrose di questi anni. Per questo non mi convincono i generici appelli all’unità di tutti gli europeisti contro i nazionalisti.
Serve invece un grande piano d’investimenti—un “Green New Deal” per l’Europa—in innovazione, ricerca, produzione di qualità, economia verde in grado di portare molti posti di lavoro di qualità. È mancato il coraggio di fare un piano di questo tipo per uscire insieme dalla crisi.
Tuttavia, molti non sanno che il bilancio intero dell’UE ammonta a circa l’1 percento del Pil europeo. Che è un po’ come cercare di fare andare una Ferrari con il motore di una 500. Se noi vogliamo un’Unione in grado di reagire a quelle grandi sfide su cui le risposte nazionali non bastano più—come quella migratoria, o sui cambiamenti climatici, sulla giustizia fiscale, e sulla politica estera di sicurezza comune—servono più risorse, e serve soprattutto la volontà politica dei governi europei di mettere in comune e a disposizione queste risorse.
In merito alle “risposte nazionali,” qualcuno a sinistra prospetta soluzioni “sovraniste,” con tanto di chiusura delle frontiere. Cosa ne pensi? È una via percorribile?
È illusorio pensare che in un mondo interconnesso come quello di oggi la risposta sia rinchiudersi nei confini nazionali, di fronte a sfide che sono tutte europee e globali. Ce lo spiega più di ogni altro il tema della giustizia fiscale.
Anche se non ne parla quasi nessuno in Italia, noi stiamo facendo uno sforzo incredibile al Parlamento Europeo—in conseguenza di scandali come i Luxemburg Leaks, o i Panama Papers, o i Paradise Papers—per affermare un principio molto semplice: che le tasse si pagano dove si fanno i profitti.
Basterebbero delle misure di trasparenza su cui noi abbiamo ottenuto la maggioranza al Parlamento europeo, come ad esempio il CBCR (Country by country reporting), cioè una rendicontazione stato per stato che obblighi le multinazionali alla trasparenza su quanti profitti fanno e quante tasse pagano in ogni Stato. Vorrei capire dai nazionalisti di casa nostra come pensano, fuori da un quadro europeo di regole forti e sanzionabili, di risolvere il problema e costringere Irlanda, Lussemburgo, Malta e altri paesi a smettere di rubare risorse fondamentali per i diritti dei cittadini.
È lì che casca l’asino. Siamo d’accordo che l’Unione di oggi non sia quella di Ventotene e abbia enormi criticità: non abbiamo bisogno che ci sia un euroscettico a spiegarcelo, perché le conosciamo. Il punto è che non si è mai voluto fare l’Unione per davvero, mettendo in comune delle competenze indispensabili per evitare i fenomeni di dumping fiscale e sociale.
Secondo me la risposta nazionalista, anche a sinistra, è sbagliata e individua i nemici sbagliati. Io sono anche convinta che sia sbagliato sostenere che i trattati abbiano distrutto la Costituzione italiana; piuttosto, hanno subito lo stesso triste destino. Nel senso che tutti quegli elementi che andavano a tratteggiare una vaga dimensione sociale dell’UE sono rimasti totalmente annacquati per mancanza di volontà politica; mentre accordi intergovernativi sbagliati come il fiscal compact non sono stati sottoposti al vaglio democratico del Parlamento.
Gli equilibri di forza ci hanno visto perdenti in questi anni, ma noi dobbiamo ribaltare quegli equilibri politici e democratizzare l’impianto europeo. L’unico modo di restituire sovranità ai cittadini è farlo al livello più adeguato per dare risposte alle nuove sfide. La cosa che mi fa molto riflettere è che mentre il muro di Orban rafforza Salvini e Le Pen—e viceversa—la sinistra europea non è stata in grado di costruire quel fronte progressista ed ecologista europeo che serve per fronteggiare questa internazionale di nazionalisti.
Nel tuo testo scrivi per l’appunto che basterebbe almeno un progetto “coerente,” “fresco nel linguaggio,” “innovativo nei metodi,” “nei contenuti” e anche “nei volti.” Concretamente, però, come si dovrebbe tradurre nella pratica quello che dici?
Quel progetto lo costruisci provando a mettere avanti una visione comune del futuro dell’Italia e dell’Europa che già c’è. Ad esempio, le piazze che si stanno mobilitando in tutto il paese lo stanno facendo spontaneamente—anche senza la politica—e su alcuni questioni cruciali: la solidarietà, i diritti delle donne, il rifiuto delle discriminazioni di ogni tipo e le questioni ambientali.
In questi mesi, poi, di contributi ne sono arrivati molti. Cito ad esempio la giusta intuizione del progetto di “Primavera europea” e Diem25, cioè di creare già un programma transnazionale; oppure le proposte dei Verdi europei, che riescono a dimostrare come la transizione ecologica non sia più rimandabile; o ancora, le proposte arrivate da Barca, Giovannini e molti altri sull’“uguaglianza sostenibile.”
Ma al di là delle elaborazioni, ci sono le pratiche quotidiane che stanno arrivando dai movimenti femministi di tutta Europa, da quelli per la giustizia ambientale, e dai federalisti europei su come far avanzare l’integrazione dov’è mancata finora. Tutto questo patrimonio di proposte e pratiche quotidiane—per non parlare delle reti della buona accoglienza sorte nel nostro paese che si oppongono alle scelte disumane del governo—ci dice che ci sono tanti punti di incontro che tratteggiano già una visione comune di quale società vogliamo.
Ma non c’è il rischio concreto che, di fronte a una situazione del genere, si metta insieme in fretta e furia una lista elettorale che finisce come L’Altra Europa con Tsipras?
Quello di cui sono profondamente convinta è che non debba essere una questione di ceto politico che si riorganizza, o sommatorie di sigle che non parlano più a nessuno. Bisogna evitare gli errori del passato, altrimenti non ne usciamo vivi.
Secondo me bisogna avere l’umiltà di rimettersi all’ascolto di ciò che si sta spontaneamente muovendo nella società, e riuscire a riallacciare quei fili. Non è impossibile, di questo sono convinta. Mi sembra di vedere una grandissima voglia di mobilitazione, perché le persone si sono rese conto che la posta in gioco è altissima e ci riguarda tutti. Di certo, non aiuta avere una sinistra così frammentata anche per i soliti personalismi. Mettiamoli da parte, e costruiamo un progetto comune sulle proposte e battaglie condivise.
Però, visto che mancano quattro mesi alle europee, cosa dovrebbe fare una persona che si ritiene di sinistra in Italia? A chi dovrebbe rivolgersi?
È il motivo per cui ho scritto che “il momento di dirlo è ora”: nel senso che non è ancora troppo tardi, ma la politica si sta incartando. A oggi i progetti che sono in campo, anziché immaginare il nuovo, stanno proponendo di cristallizzare le contraddizioni che hanno messo la sinistra al margine in Europa e in Italia. Se tieni insieme tutto e il contrario di tutto, come fai a recuperare coerenza, credibilità e unità?
Vedo però che c’è una volontà dei tanti che si stanno mobilitando di trovare una rappresentanza in qualche modo. E secondo me bisogna farlo in quel “terzo spazio”—ovvero né con chi ha avallato le politiche dell’austerità o con chi ha voluto rincorrere la destra sui migranti con il solo esito di rafforzarla; e né con i nazionalisti, di destra o sinistra che siano.
Secondo me è lì in mezzo che c’è questo spazio, a livello europeo e anche italiano. Mi rendo perfettamente conto che la strada che indico è in salita e molto difficile. Ma al Parlamento e nelle piazze abbiamo visto che funziona, e che ci può portare a ribaltare gli equilibri politici in Europa per poter fare la differenza.
L’ultima domanda che voglio farti è più personale: con chi ti candiderai?
Prima di pensare a una candidatura, mi sto preoccupando di quale progetto riusciamo a costruire. Da otto mesi sono impegnata a parlare con tutti quegli interlocutori che stanno in quel “terzo spazio” per provare a fare questo sforzo comune.
Quindi dipende da quello, perché non abbiamo bisogno di due o tre progetti incoerenti; ce ne basterebbe uno che fosse coerente, unitario il più possibile, ma con quei due chiari confini a cui non possiamo più rinunciare.
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