“Torno nel 2018 con un nuovo disco. Non mi piace Occidentali’s Karma.”
Riccardo Cocciante – intervista a Libero, 2017
Carissimi lettori di questa rubrica, come sapete Italian Folgorati si concentra sulle star della musica italiana che o sono da sempre attive e non mollano, piuttosto si fanno imbalsamare, oppure di quelle che tornano in pista dopo lunga assenza dalle scene, a volte anche senza troppo da dire ma comunque convinti di dovere esserci. Raramente però ci soffermiamo su personaggi che non danno loro notizie da un bel po’. In questo caso ci siamo chiesti: ma dove è finito Riccardo Cocciante?
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La nostra domanda nasce da una vecchia intervista in cui il nostro annunciava un nuovo album d’inediti nel 2018. Nonostante questo, nessun comunicato stampa ci ha riferito qualcosa in più e siamo ancora qui ad attendere. Per esorcizzare quest’attesa, abbiamo deciso di evocarlo analizzando l’opera a nostro parere più sperimentale del nostro eroe. Quale? So già che i più scafati di voi diranno: ”Ecco, adesso ci parla di Mu, il suo primo album del 1972”.
Mu, in effetti, rappresenta un Cocciante che debutta a gamba tesa con un’opera prog-krauta, che già nel titolo è la risposta ai The Trip di Atlantide, uscito nello stesso anno. Ma a parte il fatto che anche a Rockol lo scorso marzo si sono ricordati di Mu, e quindi ritornarci su sarebbe ridondante, la sperimentazione che ci interessa è quella col pop, nel pop e sul pop. Una sperimentazione diversa in cui il deraglio psichedelico (come il diavolo) vive nei dettagli, i quali vedono incastonati nelle loro pieghe un crossover di micro generi che, potessimo avere un microscopio auricolare, potremmo individuare tutti. E questa la riscontriamo in un disco che, invece, sembra ricordato più per il singolo di traino che per il resto dei contenuti sonori. Stiamo parlando di Cervo a Primavera.
Cervo A Primavera per Cocciante è un esperimento certosino di contaminazione, uno spartiacque nella sua carriera ma anche la chiave per riuscire a mettere insieme l’alto e il basso e viceversa, in cui jazz, new wave, fusion, psichedelia e finanche l’amato prog rock si adeguano alle necessità pop senza rimanerne schiacciati ma anzi, sottolineando l’importanza di una leggerezza subliminale che porta con sé significati ben più importanti. Non che Cocciante non ci avesse provato prima a contaminarsi, anzi. L’Alba rimane un discone quasi con intenzioni gothic pop, Concerto per Margherita vede la produzione di Vangelis un attimo prima delle sue frequentazioni con i Krisma, scippato al Baglioni di E Tu…, ma con Cocciante è al massimo della forma elettronica.
Prima ancora aveva impiegato agli arrangiamenti Ennio Morricone, che in qualche modo smontava i brani di Riccardo in senso cinematografico rendendoli quasi delle colonne sonore in miniatura. Ma in tutti questi casi risiedevano una cupezza e un pessimismo cosmico ben espresso dai testi di Marco Luberti, abbastanza incazzati con l’umanità, dalle tematiche che spaziavano dallo stupro ai delitti passionali (“Il Tagliacarte”), alle catastrofi fuori e dentro (“Carnevale”), alle vite perse negli eccessi costrette a fare una fine tipo “Smalltown Boy” (“Il Treno”). Le stesse sonorità sembravano creare delle montagne russe in questa palude di rabbia e amore (Amare Con Rabbia era il titolo infatti una compilation d’epoca di Cocciante, non a caso).
Per non parlare del cantato, quasi noise, una specie di vocalità crust infilata nel pop che spiazzava gli ascoltatori medi del tempo. Certo, c’erano momenti come “Io Canto”, in cui le cose sembravano girare in maniera più pacata e compatta. In linea di massima, però, la potenza passionale del nostro era sempre poco placabile. Era uno dei motivi del suo successo, ma anche un po’ una gabbia stilistica. In Cervo a Primavera si crea quasi il miracolo nel senso opposto.
In quel disco suonava una serie di personaggi che avrebbero potuto cozzare tra loro e invece, miracolo, si fusero perfettamente. C’erano Giovanni Tommaso dei Perigeo (allora New Perigeo, dal taglio molto più no wave); Roberto Colombo, il famoso mentore dei Matia Bazar ma soprattutto la mente zappiana dietro a dischi come “Sfogatevi bestie”; Alessandro Centofanti dei Libra; il muscolare Paolo Donnarumma, un anno dopo basso de La voce del padrone nonché di tutti i dischi new wave di classifica; Serge Perathoner dei fusion progger Transit Express, blasonato produttore; Shel Shapiro, ex Rokes e padrino del punk italiano in quanto produttore dei primi Decibel e dei Judas; e Stefano Pulga, leggenda italo disco dei Kano/Pink Project.
A legare il tutto c’erano i testi di Mogol, fresco dal divorzio con Battisti. Nel pallone più totale, Mogol troverà in Cocciante un nuovo partner: la differenza è che qui sembra rifugiarsi nei sentimenti cristallini, nelle piccole cose, lasciando da parte l’ironia surreale di un tempo e diventando improvvisamente serio, cifra che porterà avanti con Cocciante per un bel pezzo. Serio, ma non pesante. Anzi, quasi diafano nei quadretti che dipinge, a volte addirittura stanco di vivere nel senso fatalista del termine. A parte un paio di eccezioni, sembra scrivere in punta di penna per non fare male al foglio. La disavventura con Battisti ha lasciato nel cuore del nostro paroliere un cratere di enormi dimensioni, tanto che “Cervo a Primavera”,la canzone, esprime la voglia di risorgere dalle ceneri di una serie di errori umani e transumani. Andiamo quindi a scoprire questo gioiellino: tra l’altro, siamo in primavera, e la cosa calza a pennello.
Come potete vedere qua sopra la title track è rimasta nella storia, parodiata anche da un colossale Abatantuono nel film comico punk generazionale I fichissimi, in cui il cervo viene sostituito da un maiale migratore. È tempestata di venti elettronici su una base di batteria quasi tribale, forse debitrice degli Osage Tribe di Battiato quanto del Battisti dall’anima latina. “Cervo a primavera” è un pezzo krautpop a tutti gli effetti nel quale Cocciante getta la sua potenza vocale oltre l’ostacolo, un inno alla reincarnazione nel senso laico del termine. Leggenda vuole che il testo non sia del tutto farina del sacco di Mogol, ma che fosse ispirato (se non proprio parafrasato) da una poesia della madre di un ragazzo che morì in un fatale incidente in un bosco.
“Footing” inizia con un synthbass serpeggiante, con influenze latine, per poi aprirsi in una melodia quasi hypno, immersa in fumi psichedelici in cui lo spazio sonoro è riverberato, come scosso da un sogno ad occhi aperti. La storia di un uomo che va a fare footing, un atto semplice che però innesca inquieti pensieri di solitudine (“Ma come vorrei che anche tu corressi insieme a me”). Il personaggio viene poi inghiottito dalla città e dalle proprie elucubrazioni ossessive. La cosa è sottolineata dagli inserti maniacali di chitarre funky che mettono in tensione il tutto mentre il pezzo scivola sempre più verso la confusione mentale, proiettato in una malinconia cosmica e desolata, tossica, persa, quasi indotta dall’inalazione dello smog. La copertina dell’album vede appunto Cocciante con indosso una tuta da footing gialla, in uno scatto immerso in un’atmosfera di naturalismo visionario che riporta subito alle celebri gesta di Cesare Monti per Battisti. Il passaggio di testimone è quindi fissato anche visivamente.
“Tu sei il mio amico carissimo” è il desiderio purtroppo inesaudito di Mogol di mantenere rapporti con l’amico di sempre, Battisti. Purtroppo questo inno all’amicizia (“né soldi né donne né politica potranno dividerci”) è utopico, sconfessato dai fatti. Sembra quasi di sentire alla fine la parola “ma magari”. Uno dei brani più amati dai fans di Cocciante, si sviluppa in modo quasi black, ma a pensarci bene sembra anche la versione wave degli Style Council (i quali entreranno nelle scene solo nel 1983). Il brano è un prisma di piccoli inserti di chitarre arpeggiate, piani elettrici, slide guitar, cori più o meno sintetici piazzati in modo che quasi non ci fai caso, eppure la complessità è evidente. Quello che si richiede a un vero pezzo pop: sparire ma rimanere in testa.
“Piero” è un’altra richiesta di sostegno da un amico, dopo la tormentata fine di un amore. Che anche qui ci sia una metafora del vissuto di Mogol sopracitato? Si inizia con archi alla George Martin, poi parte un fill di batteria incacchiato e schitarrate wave. Improvvisamente il brano si tramuta in un missile disco col basso a ricamare riff potenti e un solo di violino urbano. Ci sono anche echi di Martha and the Muffins nell’arrangiamento, ovviamente con le dovute differenze, ma le sonorità quelle sono. E loro non avevano forse scritto “Saigon”? Non a caso la città natale di Riccardo.
Momento quasi Japan city pop con sprazzi fusion, “Ci vuol coraggio” è uno dei brani più complessi del lotto. I jazzisti del Cocciante team possono finalmente sbizzarrirsi con delle sublimi microvariazioni. Il testo s’interroga sul bivio amore/ libertà: si può vivere liberi quando si è innamorati? Il protagonista decide di rinunciare a un possibile rapporto che interpreta inesorabilmente come un paio di manette all’anima.
“Il soufflé con le banane” ha il testo più duro del disco. Aperto da un piano honky tonky psicotico e da marimba sfondate, il pezzo è in odore di neapolitan power. Narra di un uomo il cui passato è quello di essere stato allevato in un bordello, figlio di una prostituta. Da adulto ha trovato finalmente riscatto e si rivendica fieramente il passato di sofferenze, collegi, cazzi e mazzi e anche pedofilia consenziente (“Anna mi voleva bene/ diciott’anni e già giocava con il piccolo mio pene”). Un testo che oggi costerebbe un ban illimitato ovunque, diciamolo: senza dubbio il momento punk di Cocciante. Sentite il giro armonico: potrebbe stare bene in qualche disco del ’77.
“Non è stato per caso” vede il violino di David Rose caricarsi di sonorità minimali, quasi alla Ultravox, ed esplode poi in uno stacco sorretto da una batteria new wave. Una specie di matrioska melodica, diafana come le ali di una libellula che si sfanno al contatto con le dita. È il risultato della grande capacità dei musicisti coinvolti, uniti dall’idea che si stia suonando il vuoto quando invece le tracce sono numerose. La musica accompagna il fatalismo del testo: ogni amore è scritto e quello che accadrà non può essere controllato dalla ragione e men che meno dal sentimento.
E qui arriva uno dei brani più sottovalutati di Cocciante, “Gomma”. È una sudente e languida canzone su una scopamica, sui rischi delle tentazioni che bruciano. Un pezzo carnale in cui l’attrazione vince su tutto, anche sul raziocinio e il paragone con la gomma “da masticare due volte e poi non inghiottire mai”, “gustosa e candida”, è una metafora sessuale neanche troppo implicita. Il pezzo gira alla perfezione tra synth tremolanti e tesi e un groove funky che vi consiglio di mettere su in una serata intima per rompere il ghiaccio. Probabilmente dalla stanza uscirete in tre. Gran finale di campanelle per gradire, mentre invece Disintegration inizia così.
“Carolina amatissima” è una canzone d’amore retta da un pianoforte elettrico chorusato, bassi fretless e ancora una volta un violino, alla Jean-Luc Ponty. Nella suddivisione ritmica sembra una versione dei Japan semplificata, un brano proto-new romantic sfumato nell’etere della canzone d’autore francese. D’altronde il nostro è un sanguemisto tra Italia e Francia, e si sente. Nel testo affiora il sentimento come desiderio di semplicità, di un amore che calma, rasserena e commuove. Il testo è forse il più debole del lotto, ma nel suo minimalismo è al servizio delle sette note che in un certo senso dicono già tutto da sole.
Il finale invece è un sorprendente manifesto. Cocciante si appropria di “Suonare suonare” della PFM, uscito nello stesso anno. È un pezzo importante perché rappresenta il passaggio della PFM a una visione più pop della faccenda progressive rock, come se in qualche modo i nostri avessero sdoganato e in qualche modo avallato inconsciamente le ricerche di Riccardo in questo senso. La nascita di un nuovo genere passa attraverso di loro, genere che ancora non è stato abbastanza esplorato né etichettato: potremmo azzardare il termine Italian city prog. Interpretazione impeccabile, Riccardo ne fa una versione liquida e forse addirittura più incisiva dell’originale.
Dopo questo disco Cocciante prese la strada giusta a livello commerciale. Dopo uno stranissimo Qdisc in cui divise i solchi e i palchi con i New Perigeo e Rino Gaetano, il nostro inanellerà una serie di notevoli successi, a partire dal disco omonimo dell’82 in cui la formula si consolida e si sposta definitivamente verso il pop di classe, a volte anche più elettronico: ma questa leggerezza d’animo forse rimarrà inedita. Sappiamo tutti che dopo il boom miliardario di Notre Dame de Paris il nostro non è più tornato quello di un tempo. Voglio dire, si è preso anche una condanna di tre anni per frode al fisco francese. Ma noi speriamo sempre in un colpo di coda, un po’ come quando nell’84 scrisse La Fenice per il Klaus Nomi di nonatri, Santandrea: dai Riccardo, rinasci anche tu cervo a primavera” e lascia i poveri occidentali al loro karma.
Demented è su Twitter: @DementedThement.